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Cura degli stati depressivi: i pericoli della “guarigione”

8 Ott 12

Di Sabino Nanni

I — "Guarigioni" pericolose

– Il problema clinico in esame . Un’eventualità molto frustrante e purtroppo non infrequente nell'esperienza di noi terapeuti è quella del paziente che, pur "guarito" da un disturbo depressivo, continua ad auto-distruggersi. Spesso, infatti, alcuni suoi comportamenti nocivi persistono inalterati o addirittura si accentuano dopo la cura. Si tratta di abitudini dannose ampiamente diffuse anche tra i non depressi ed i "non malati di mente" e quindi apparentemente non legate alla malattia depressiva: "Addiction" dei più vari tipi (fumo, alcol, farmaci assunti in modo improprio, ecc.), disordini alimentari, ricerca attiva di situazioni stressanti o pericolose; comportamenti, questi, che nel loro insieme preparano il terreno alle cause più comuni di morte prematura, come ogni Collega di Base può testimoniare. Talora, a questi problemi si affiancano sospette manifestazioni d’autodistruttività "subintenzionale": incidenti a volte inspiegabili oppure sconcertanti negligenze o dimenticanze riguardo a cure essenziali per la sopravvivenza. In alcuni casi, infine, la distruttività si fa palese: suicidi o suicidi-omicidi che rappresentano l’eventualità più temuta da noi tutti, anche per l’ampio risalto che i media tendono a dare a questi fatti in pazienti in cura o già curati per depressione. La ricerca psicofarmacologica ed epidemiologica conferma questo rischio: gli antidepressivi che possono "guarire" la depressione non risultano efficaci nella prevenzione del suicidio

In alcuni casi clinici (di uno dei quali parlerò estesamente più sotto) il sintomo depressione si è dimostrato, anziché la causa, la conseguenza ed il "segnale" di comportamenti autodistruttivi che i pazienti tendevano a mettere in atto senza averne piena consapevolezza. L’aver reso silente questo sintomo con mezzi farmacologici (o anche psicoterapici) usati prematuramente ed in modo improprio, vale a dire senza aver adeguatamente "decodificato" il segnale, ha privato queste persone, per lungo tempo, di effettive possibilità d’aiuto, ponendole in serie situazioni di pericolo.

– Depressione come segnale di affezioni somatiche Per inciso e per completezza d’esposizione, ricordo qui che la depressione è talora "segnale" (e spesso, per lungo tempo, l’unico sintomo) di problemi Medici Generali anche di notevole gravità [1 , trad. it., pag. 433]: disfunzioni tiroidee o corticosurrenali, carcinoma del pancreas, tumori cerebrali, Parkinson, ecc. Quest’argomento è in gran parte "fuori tema", poiché qui complete "guarigioni" sintomatiche, che non tocchino l’affezione primaria, sono piuttosto rare. Più spesso, infatti, questi fattori medici generali (causali o concorrenti) agiscono anche come fattori di farmaco-resistenza ai timoanalettici. È, tuttavia possibile che l’effetto placebo, legato al farmaco e/o al trattamento psicoterapico, attenui temporaneamente la sintomatologia depressiva fuorviando la diagnosi e facendo perdere tempo prezioso al trattamento.

Ma ora passiamo al materiale clinico cui ho accennato.

 

II — Un caso clinico: Antonella

– La storia clinica . Una donna che pareva dimostrare ben più dei suoi 42 anni, decisamente sovrappeso, curata nell’aspetto ma senza la minima traccia di civetteria, dall’atteggiamento dimesso, come approdata all’ultima spiaggia con la sua terza richiesta di cura: così si presentò Antonella quando, alcuni anni fa, mise piede per la prima volta nel mio studio. Pareva molto scoraggiata dalle precedenti esperienze terapeutiche: due episodi depressivi (il secondo con le caratteristiche della "Depressione Maggiore") erano stati trattati da due distinti curanti, rispettivamente, con una psicoterapia "a termine" durata un anno e con un intervento esclusivamente psicofarmacologico durato cinque. In entrambi i casi, la depressione era scomparsa completamente, ma ora la minacciava per la terza volta. A dispetto della povertà delle sue comunicazioni verbali (monotone, polarizzate su fatti della vita quotidiana, con poche, saltuarie osservazioni sui cattivi rapporti con la figlia), Antonella riuscì presto a trasmettermi per via intuitiva un’intensa richiesta d’aiuto. Fu necessario più di un anno di puntualità e regolarità degli incontri, di costante disponibilità ad ascoltarla e mettermi nei suoi panni, perché il nostro rapporto incontrasse una svolta decisiva. In tutto questo lasso di tempo, la paziente pareva lottare, ogni seduta, contro una profonda e tenace sfiducia circa la possibilità d’essere considerata e capita e, quindi, di poter contare su di un altro essere umano. Sembrava le paresse impossibile che il suo modo d’essere potesse suscitare un vero interesse: una vita, come la sua, priva di veri affetti, curiosità, ambizioni, insomma priva di qualsiasi spinta positiva e tutta dedicata a lottare (ricorrendo sempre più spesso ai superalcolici, come presto mi rivelò) contro una tensione per lo più indefinibile. Ho detto "sembrava le paresse", poiché una piena consapevolezza di questo cattivo rapporto con se stessa comparve molto più tardi. All’inizio, tutto ciò che ho descritto era più che altro implicito negli atteggiamenti di questa donna e nella sua coscienza quasi non ve n’era traccia. Le capacità introspettive e la fantasia di Antonella apparivano piuttosto limitate; divenne, tuttavia, gradualmente chiaro che la povertà e monotonia delle comunicazioni verbali volevano soprattutto trasmettermi quanto lei stessa si sentisse povera e monotona. Questa interpretazione fu ribadita più volte e quando la mia costante attenzione smentì in misura sufficiente la sua idea su se stessa, la paziente finalmente si decise a rivelarmi il segreto terribile, che sinora aveva tenuto nascosto a tutti e che aveva del tutto segnato la sua vita.

All’età di nove anni, Antonella era stata fatta oggetto di abusi sessuali (ripetuti ma mai arrivati ad un rapporto completo) da parte di uno zio materno. L’esperienza l’aveva fortemente turbata, ma ancor più angosciante fu quando, vincendo un’intensa sensazione di paura e vergogna, provò a farne cenno alla madre: la donna, divenuta fredda e scostante, le rispose recisamente che erano "tutte sue fantasie". Il fatto era particolarmente grave perché sinora Antonella aveva ritenuto che la madre fosse l’unica persona della sua famiglia su cui potesse contare: non aveva fratelli, il padre era abitualmente assente dalla vita familiare e, a parte le assillanti attenzioni dello zio materno, tra tutti gli altri parenti regnava una gelida indifferenza nei suoi confronti. Da un esame retrospettivo fu chiaro che la madre, dietro una facciata di dolcezza e disponibilità, nutriva sentimenti di disistima per Antonella (pari, probabilmente, a quelli che provava per se stessa); le sue rare manifestazioni di fierezza per i successi scolastici della figlia, sempre piuttosto forzate, contrastavano vivamente con l’ammirazione che la donna continuamente esprimeva per i membri di sesso maschile della famiglia, soprattutto lo zio. In quel periodo, tuttavia, Antonella aveva bisogno di aggrapparsi alla convinzione priva di basi reali (delirante) della "bontà" della madre. Iniziò, perciò, a dubitare di se stessa, della realtà delle esperienze che l’avevano così dolorosamente allontanata dalla genitrice, arrivando a pensare d’essere "pazza", cosa che per lei significava soprattutto "senza la possibilità di farsi capire". Fece propria, inoltre, l’opinione negativa che — una parte di lei l’aveva intuito — la madre aveva di lei; era in fondo, la stessa, bassa considerazione che lo zio aveva implicitamente dimostrato, con i suoi gesti, per i sentimenti della bambina. Crebbe, pertanto, in Antonella la convinzione d’essere "di poco valore", "incapace di farsi voler bene", di non potere che apparire "sgradevole, noiosa". Ma presto, per adattarsi alle esigenze della realtà, smise di pensare a se stessa; portò quindi, a termine i suoi studi, trovò un lavoro da impiegata, si sposò e mise al mondo una bambina; ma tutto questo senza vera partecipazione emotiva, "usando solo la testa e non il cuore", come mi disse testualmente in un’occasione, e senza che le sue realizzazioni incidessero sulla cattiva opinione che aveva di se stessa.

Il trattamento, dopo aver superato l’iniziale diffidenza di Antonella e dopo la sua rivelazione degli abusi subiti nell’infanzia, dovette affrontare tutte le conseguenze che tali esperienze traumatiche avevano prodotto in lei, soprattutto nei vissuti corporei. Era come se tutta una parte del suo mondo soggettivo continuasse ad essere "sequestrata", occupata dall’esperienza traumatizzante e dall’impronta di coloro che n’erano stati gli artefici. Si dovette, inoltre, affrontare (anche rivissuta nel transfert) tutta la rabbia che, ora se n’accorgeva, c’era dietro quella tensione "indefinibile" che scacciava con l’alcol. Si trattava della rabbia nata coi traumi sessuali e soprattutto col "tradimento" da parte della madre; rabbia cresciuta insieme a lei, "contro tutto e tutti, anche lei stessa". L’alcol, quindi, esprimeva anche e soprattutto il desiderio "rabbioso" di farsi del male. Si arrivò, infine a tentare di sanare, con una "corrective emotional experience", la profonda ferita narcisistica che era alla base della rabbia di Antonella. Esperienza correttiva fatta di contatti con una persona la cui "bontà" poteva fondarsi, anziché su di un’idealizzazione delirante, su una reale disponibilità abbastanza affidabile nei suoi confronti; fatta, inoltre, di continue conferme e sostegni alla nascente sicurezza e fierezza di sé della paziente. Si tratta di un lavoro che molto probabilmente impegnerà Antonella e me ancora per molti anni, ma che comincia a dare i suoi frutti nella cessazione del ricorso all’alcol ed alla nicotina; ma soprattutto nella faticosa conquista di margini più ampi di vita vissuta pienamente, "con la testa e col cuore".

Aggiungo un ultimo, importante particolare a questa storia clinica: grazie soprattutto all’esperienza negativa acquisita da Antonella nella precedente cura, questa volta le fu possibile iniziare un vero e proprio trattamento farmacologico antidepressivo quando la sua disperazione, espressa verbalmente, si era ormai precisata. Il sintomo-segnale depressione poté così essere dapprima arginato e poi superato in tempi rapidi, anche con strumenti farmacologici, quando ormai si era avviato il lavoro per "decodificarlo". Apparve chiaro che, in questo come nei precedenti episodi, la depressione era il segnale di crisi del modo d’essere frustrante ed autodistruttivo che aveva sinora caratterizzato la vita di questa donna; modo d’essere che poté, così, cominciare ad essere discusso e gradualmente superato. La componente psicofarmacologica risultò, in questo modo, perfettamente integrata col resto del trattamento, agendo in sinergia, al momento giusto, con gli sforzi per aiutare Antonella a riprendere padronanza di sé ed ottimismo: motivo per il quale stavolta la sua guarigione, pur parziale, si rivelò nel complesso abbastanza vera e sicuramente non "pericolosa".

– Quadri clinici in evoluzione . Gli aspetti più invalidanti e pericolosi, nella patologia anteriore alle cure di questa paziente, sono i diretti eredi della patologia post-traumatica da lei sofferta da bambina. Riguardo ad essa, troviamo nel DSM IV TR, nel capitolo "Altre condizioni che possono essere oggetto di attenzione clinica", la voce diagnostica "Abuso Sessuale del Bambino" , [1, trad. it., pag. 784] senza precisi criteri diagnostici di carattere sintomatologico, ma sicuramente vicina (almeno nel caso di Antonella, per quanto è stato possibile ricostruire) al "Disturbo Post-traumatico da Stress". Nei criteri diagnostici di quest’ultimo [1, trad. it., pag. 502, 503è riportato un elenco di possibili sintomi divisi in tre gruppi o "clusters" denominati, nella letteratura americana sull’argomento, "intrusive symptoms", "avoidance symptoms" ed "increased arousal symptoms" [3, pag. 152]. Nei sintomi "intrusivi" del primo cluster vediamo chiaramente i precursori di quella vita soggettiva "sequestrata" dall’esperienza traumatica cui si è accennato più sopra. Quanto agli "avoidance symptoms", si trovano descritte in letteratura evoluzioni verso un quadro di stabile alexitimia con anedonia [3,pag. 153], che prefigurano in modo evidente la "depressione essenziale" in cui costantemente vive Antonella [12, pag. 59 e seg., 23,pag. 1239 e seg.]. Ritengo probabile, infine, che al di sotto degli "increased arousal symptoms" si potesse trovare quella tensione ancora indifferenziata ("too muchness", quale effetto diretto del trauma [20, pag. 314]) avvertita dalla paziente, nei momenti di regressione, come "inesprimibile" e precisatasi successivamente come "rabbia" o distruttività primitiva [10, pag. 637 e seg., 20, pag. 131, 21, pag. 3,]. La depressione conclamata, scaturita da questo terreno, rappresenta non solo, come si è già detto, un segnale di crisi del modo d’essere autodistruttivo di Antonella, ma ne costituisce già un primo, parziale superamento. Infatti, la già menzionata frattura, dal resto del mondo soggettivo, di un settore "sequestrato" dall’esperienza traumatizzante e dai suoi attori, si precisa come divisione, all’interno dell’Io, tra una parte giudicante ed una giudicata, quest’ultima parzialmente identificata con gli oggetti d’amore "traditori" e perciò perduti. Inoltre, la sua "rabbia" inesorabile, sinora a carattere primitivo, diffusa, ed "agita" nei gesti e negli atteggiamenti autodistruttivi, si esplicita come autoaccuse verbalizzate, alcune delle quali appaiono dirette agli oggetti perduti: "Klagen sind anklagen" secondo la nota formula freudiana [8, pag. 107, 108]. Infine, l’alexitimia "opératoire", cui si lega la sua depressione "essenziale", viene completamente, benché dolorosamente, superata attraverso la viva attenzione che lo stato di depressione conclamata impone di dedicare al proprio mondo interiore [Nota 1].

Fin qui, l’evoluzione spontanea. Se ora passiamo ad esaminare l’evoluzione del quadro clinico di Antonella sotto l’influenza delle varie cure, incontriamo due differenti modi di concepire la "guarigione", su cui è opportuna una premessa.

 

III — "Normalità" e salute: trattamenti a confronto

– Due concezioni contrastanti . In un mio recente lavoro [16], riferendomi soprattutto al concetto kohutiano di "addiction to normality", sostenevo che "… L’esistenza, tra molti "normali", di una rigida maniera di vivere a carattere "addictive", possibile matrice di numerose e gravi patologie, suggerisce l’utilità di distinguere, dal concetto di "normalità", quello di "salute" mentale. Quest’ultimo, nel pensiero di Kohut e di Winnicott, privilegia il punto di vista dell’esistenza soggettiva individuale (anziché quello dell’indagine statistica), considerandola globalmente nella sua integrità strutturale e non solo nelle singole attitudini. Esso si caratterizza per la qualità affettivamente significativa dell’esperienza (vissuta come "piena" e "reale"), per la capacità di provare gioia (espressione complessiva della personalità) e non solo singoli piaceri, per il contatto con la parte più autentica e profonda di sé e per la "capacità di introdurre nella propria vita il particolare progetto fissato nel centro del sé" anche se esso viene a trovarsi in contrasto con le esigenze dell’ambiente. Questa concezione esclude, quali caratteristiche essenziali della salute, la capacità d’adattamento o l'assenza di sintomi psichiatrici; vale a dire le qualità che principalmente caratterizzano la condizione di "normalità" mentale qual è generalmente intesa"[16].

Confrontando gli esiti delle due precedenti cure di Antonella con quello dell’ultima riguardo ai due principali parametri della "normalità", risultano evidenti i risultati superiori delle prime: con esse fu decisamente rafforzata la capacità d’adattamento, mentre l’ultima terapia, ponendo in discussione il modo d’essere docile ed autodistruttivo della paziente e perciò toccando l’equilibrio del gruppo familiare, creò qualche conflitto, specie con il coniuge. Quanto all’altro parametro, vale a dire l’assenza di turbe psichiatriche manifeste, il trattamento sintomatico della depressione dell’ultima cura produsse deliberatamente, per lungo tempo, risultati molto più modesti delle due precedenti aiutando, in compenso, la paziente ad uscire dalla dipendenza dall’alcol.

Passando, ora, ad una valutazione delle cure sotto il profilo della salute, possono essere di notevole aiuto la sensibilità e l’esperienza personale di un Artista, a mio avviso, di notevole valore.

– Una guida in un difficile percorso . Un interessante documento clinico (oltre che una pregevole opera letteraria) che può servirci da guida in un percorso che, da un grave fatto traumatico precoce, passando attraverso la depressione, portò ad un prodigioso recupero di salute mentale: è quanto ci offre l’autobiografia, pubblicata nel 1999, dello scrittore israeliano Aharon Appelfeld [2]. Questa geniale e sfortunata persona fu vittima nell’infanzia di una situazione traumatizzante di fronte alla quale persino quella di Antonella impallidisce: testimone dell’assassinio della madre all’età di sette anni, deportato subito dopo in un ghetto ebraico e poi in un campo di concentramento, il piccolo Aharon dopo tre anni di prigionia riuscì a fuggire. Per sopravvivere, durante il successivo, lungo cammino in solitudine che lo portò dall’Ucraina alle coste italiane (dove s’imbarcò per Israele), egli dovette nutrirsi di frutti selvatici, o chiedere l’elemosina di un po’ di cibo a chi incontrava sulla sua strada, oppure adattarsi ad umili servizi. Nell’opera sopra menzionata, Appelfeld ci offre la testimonianza del lungo lavoro con cui, utilizzando il suo talento artistico, riuscì a reintegrare il proprio mondo interiore devastato dagli effetti dei traumi. Il suo impegno maggiore è "ritrovare la traccia del dolore nell’anarchia dei frammenti di ricordi" poiché su questo si fonda il suo "sforzo disperato di unire i differenti strati della [sua] vita alla loro radice" e di "inventare", così, in se stesso "una coerenza" [7, pag. 1597, 1598]. Il dolore, qui, prima di essere superato, dev’essere "ritrovato", poiché la sua traccia è l’unico legame emotivo residuo all’antico oggetto perduto (alla "radice" del suo essere) e solo ritrovandolo egli può restituire a se stesso ordine e coerenza. Si tratta, qui, esattamente dell’opposto di quanto mirano ad ottenere le terapie farmacologiche centrate sul "target symptom" depressione, oppure le psicoterapie brevi focalizzate su di un’elaborazione intellettualistica e superficiale di quanto sta alla base di questo stesso sintomo, entrambe tese all’eliminazione più rapida possibile di ogni segno di sofferenza.

Prendendo la ricerca di Appelfeld quale punto di riferimento, vediamo ora più nei dettagli in quale direzione si sono mossi i trattamenti di Antonella: quelli passati e l’ultimo ancora in corso.

– Il corpo ritrovato . Il linguaggio ed il corpo vissuto, quali aspetti cruciali dei suoi sforzi auto-riparativi, sono i due punti su cui maggiormente insiste lo scrittore israeliano. Il linguaggio (e con esso la capacità di pensare al proprio dramma) appare come la prima facoltà compromessa dagli effetti del trauma, come Appelfeld nota più volte in se stesso ed in vittime di esperienze simili alla sua:

"…[i maniaci del luogo] seducevano i bambini [profughi, sfuggiti ai campi di concentramento], compivano su di loro atti ignobili, poi li liberavano. I bambini colpiti non si lamentavano e non piangevano, il silenzio stringeva i loro volti, come se vi fosse impresso un segreto. Portavano il segreto con sé per molti anni…"[2, pag. 72]

"Nel 1944 i russi tornarono e conquistarono l’Ucraina. Avevo dodici anni. Una superstite, che mi aveva notato ed aveva osservato il mio smarrimento, si chinò per chiedermi: "Cosa ti è accaduto, ragazzo?" "Niente", risposi. Probabilmente la mia risposta la sbalordì, perché non domandò altro. Questa domanda venne formulata in modi diversi durante la lunga strada fino alla Jugoslavia, e non cessò neanche in Palestina"[2, pag. 85, 86]

Gli "Orrori che le parole non possono esprimere" [2, pag. 68sono tali da paralizzare la mente, ponendola nell’impossibilità di registrare e riferire le esperienze vissute; rimangono solo, al posto di esse, aridi fatti del tutto privi di senso oppure, come nel caso del piccolo Appelfeld, il silenzio. È questo il motivo per cui, quando pazienti come Antonella tentano per la prima volta di descrivere le loro più intime sofferenze, le loro comunicazioni appaiono povere, "incolori" e, di conseguenza, essi sono spesso giudicati "non adatti alla psicoterapia" (come se questo autorizzasse i curanti ad ignorare il loro mondo soggettivo) oppure, tutt’al più, idonei ad una superficiale "psicoterapia di sostegno", come se il loro mondo interno non riconoscesse profondità. Per questo stesso tipo di comunicazione, poi, le sofferenze di costoro tendono ad essere giudicate "non gravi", tali da non richiedere trattamenti impegnativi e per cui "non vale la pena di disturbare lo specialista".

Quanto sopra è evidentemente contraddetto dall’esperienza di Appelfeld ed ora anche di Antonella. Esse ci confermano quanto era noto da tempo [17]: non necessariamente il segnale di "crisi" di un modo d’essere anche altamente patologico, si esprime con un’urgenza psichiatrica; esso può tradursi anche in una lamentela apparentemente di poco conto, che, quindi, non è lecito definire a priori come "banale".

Ma come poté allora procedere il lavoro auto-riparativo e creativo di Appelfeld? Egli c’indica chiaramente, come punto di partenza, il corpo:

"le palme delle mani, le piante dei piedi, la schiena e le ginocchia ricordano più della memoria" [2, pag. 8]

"…sento quei giorni con tutto il mio corpo. Ogni volta che piove, fa freddo o soffia un forte vento, torno nel ghetto, nel campo di concentramento o nei boschi" [2, pag. 50]

"Tutto ciò che è accaduto si è impresso nelle cellule del corpo, non nella memoria (…) Per molti anni, dopo la guerra, non fui in grado di camminare in mezzo al marciapiede o in mezzo alla strada: ero sempre attaccato ai muri, sempre nell’ombra e sempre di fretta, come se fuggissi. Non piango facilmente, ma le più banali separazioni mi suscitano un pianto disperato (…) Possono bastare l’odore di un cibo, le scarpe umide o un rumore improvviso a riportarmi nel bel mezzo della guerra, ed allora mi pare che non sia finita, che sia continuata a mia insaputa, e solo ora che mi sono svegliato so che da quando è iniziata non si è mai interrotta" [2, pag. 84, 85]

Gran parte del lavoro creativo ed auto-riparativo di Appelfeld consistente nel "far sorgere, dalle profondità del corpo, sensazioni e pensieri assorbiti alla cieca" [7, pag. 1600]. Attraverso di esso, viene riportata in vita, ed integrata al resto della personalità, tutta una parte del suo mondo soggettivo rimasta come immersa nella situazione traumatizzante, "sequestrata" da essa; una parte di lui che si esprime non in pensieri o in ricordi coscienti, ma in sensazioni corporee, in movimenti automatici, in gesti impulsivi.

Un simile "alimento", tratto dal corpo, al pensiero manca nelle precedenti cure di Antonella: nella psicoterapia, il corpo fu del tutto escluso dalle comunicazioni tra terapeuta e paziente. Le interpretazioni, pur ricche e tra loro articolate e coerenti, si mantennero ad un livello intellettualistico, acorporeo, freddo. Per questo motivo principalmente, e non tanto per la sua durata relativamente breve (un anno), ritengo si possa ritenere questa cura superficiale e non in grado d’incidere sull’affettività; il che spiega come essa finì per fuorviare e "raffreddare" il sintomo-segnale depressione, dissolvendolo anziché lasciarsi guidare da esso e dalle sensazioni corporee correlate. Per quanto riguarda la durata, per inciso, se è vero che gli interventi psicoterapici approfonditi ed efficaci sono in genere piuttosto lunghi, è altrettanto vero che un intervento psicoterapico valido (più valido di un’acorporea psicoterapia di diversi anni) può talora richiedere anche pochi minuti: ne è un esempio l’osservazione, espressa a pazienti in situazione d’urgenza psichiatrica, definita come il "lampo nella notte" [17] capace di orientare il paziente sul significato delle sue sofferenze e sul cammino che gli occorre percorrere per dare una via d’uscita sana alla sua crisi. La caratteristica che rende riconoscibile il vero "lampo nella notte" è di "far vibrare" interiormente il malato, vale a dire "toccare" la matrice corporea delle sue autentiche emozioni, producendo le variazioni neurovegetative ad esse correlate.

Lo stesso giudizio negativo, anche se per motivi opposti, si può esprimere riguardo alla pur lunga ed accurata (sul piano delle cure biologiche e sintomatiche) farmacoterapia cui Antonella si sottopose nel corso del successivo episodio di depressione maggiore. Qui il suo corpo fu oggetto di cure intensive, capaci di restituirle serenità in un tempo relativamente breve e di far durare questo stato per circa cinque anni. Tuttavia, come nella precedente psicoterapia, il corpo fu privato della possibilità di arricchire, con le sue tracce del passato, il pensiero e l’affettività di Antonella. Quando poi, dopo essere rimaste silenti per vari anni, le sue sofferenze si risvegliarono (alcuni mesi prima della sospensione dei farmaci) fu proprio il corpo, ancora prima della mente, ad essere colpito: accadde che, dopo una non gravissima ingiustizia subita nell’ambiente di lavoro, Antonella riprese ad assumere quotidianamente superalcolici ed anche il consumo di sigarette ed i disordini alimentari si accentuarono. Fu per il tramite di questi attacchi a se stessa (che Antonella attuava senza sentirsi realmente depressa), oltre che per una sua costante fragilità somatica, che le condizioni fisiche della paziente peggiorarono: la sua gastrite si riacutizzò, comparvero alcune puntate ipertensive arteriose e, anche se qui il nesso causale è meno certo, emerse — ad onore del vero, diagnosticata dallo stesso psicofarmacologo — anche la disfunzione tiroidea. Era accaduto che il trattamento psicofarmacologico aveva mantenuto in stato di parziale compenso, senza correggerla sostanzialmente, la "depressione essenziale" di Antonella; condizione, questa, che, come è noto, porta ad esprimere quasi unicamente nel corpo le proprie tensioni[12, 23]. Non poteva accadere diversamente: l’alexitimia "opératoire", la rabbia primitiva latente e la fragilità narcisistica di fondo, che caratterizzano tale stato, non potevano certo essere corretti da una semplice assunzione di farmaci. Quando poi il dolore della ferita narcisistica inferta dall’ingiustizia subita superò in intensità l’effetto "consolatorio" del farmaco, esso trovò in Antonella risorse ancora più deboli rispetto a quelle anteriori alla cura. Infatti, quel miglioramento parziale, cui si è accennato più sopra, che si ha soprattutto nelle capacità introspettive nel passaggio dalla depressione essenziale a quella conclamata, era stato completamente annullato dal cambiamento opposto, favorito dal farmaco. Inoltre, quel ponte che le sofferenze depressive portano a gettare verso il mondo dei propri simili (attraverso le lamentele espresse ai familiari e la richiesta d’aiuto posta al medico) era di nuovo stato ritirato nel ritorno ad un mondo d’oggetti inanimati, quello dei farmaci. Il risultato fu un indebolimento delle risorse autoprotettive autonome (fondate sull’introspezione e sull’elaborazione verbale degli affetti) parallelo ad un venir meno della capacità di chiedere aiuto agli altri. Ad Antonella, per sedare il proprio tormento interiore, non restò che rivolgersi all’alcol ed agli eccessi alimentari che, del resto, non aveva mai abbandonato del tutto.

Una domanda che si pone spontanea è: com’è possibile che lo psicofarmaco-terapeuta non si sia accorto della pericolosità della "guarigione" di Antonella, vale a dire della persistenza della sua depressione essenziale? La psicofarmacologia, infatti, dovrebbe disporre degli strumenti valutativi per capire se una guarigione è solo parziale o apparente. Vediamo, ad esempio, con quali parametri un noto testo di questa disciplina definisce la "remissione parziale con risposta apatica" di pazienti sottoposti a trattamento antidepressivo:

"1 Riduzione dell’umore depresso

2 Persistenza di anedonia, mancanza di motivazioni, riduzione della libido, mancanza d’interessi, nessun "gusto" per la vita

3 Rallentamento delle funzioni cognitive e riduzione della capacità di concentrazione" [24, trad. it. pag. 151]

Il quadro clinico descritto, specie nel punto 2, è perfettamente sovrapponibile alla depressione essenziale di Antonella. Per capire come mai esso non sia stato notato dal suo terapeuta di allora, occorre tener conto che sintomi come "persistenza di anedonia, mancanza di motivazioni, riduzione della libido, mancanza di interessi, nessun ‘gusto’ per la vita", per la loro natura, non possono essere rilevati altrimenti che dalle dichiarazioni del paziente e lasciati ad una sua valutazione puramente soggettiva. Ora, Antonella, cresciuta nella mancanza di vero piacere (oltre che di autentici interessi, motivazioni, ecc.), non poteva notare una sostanziale differenza tra il suo stato, determinatosi a seguito di una risposta parziale al trattamento, e quello anteriore alla comparsa della depressione. Ella, sollevata dalla riduzione delle sofferenze depressive, non poté che riferire di "essere ritornata normale come prima", adducendo, quale prova, la sua ripresa di attività normalmente giudicate "piacevoli" o "interessanti". Equivoci come questo, molto gravi nelle loro conseguenze, ritengo debbano spingerci a precisare meglio, nelle nostre valutazioni, concetti fondamentali quali quello di "anedonia". Come rilevato da Autori francesi in altri pazienti sofferenti di depressione essenziale [13, 22], anche in Antonella si poteva osservare, prevalentemente, una capacità di "jouissance", legata ad un puro e semplice processo di scarica di tensioni spiacevoli, e poco vero "plaisir", che comporterebbe partecipazione emotiva ed un investimento libidico sul proprio corpo e sulla propria mente molto carente, in quel periodo, nella nostra paziente. Le attività "piacevoli", menzionate da Antonella al terapeuta, erano in realtà frutto quasi esclusivamente di "jouissance" anziché di "plaisir". L’imprecisione del termine stesso "anedonia" oltre che un’insufficiente "immersione empatica" nel mondo soggettivo del paziente, ritengo siano causa frequente di questi, spesso molto gravi, malintesi.

Se nell’ultimo trattamento Antonella riuscì a trovare nel proprio corpo una fonte rinnovata di piacere e di dolore, intesi come sensazioni emotive e non solo fisiche, il merito spetta principalmente a lei stessa. Al terapeuta fu sufficiente presentarsi fin dall’inizio come medico sia del corpo, sia della mente dimostrando, in modo chiaro e per lungo tempo, la sua disponibilità ad ascoltare con pari interesse quanto, nelle comunicazioni della paziente, proveniva dalle sue sensazioni somatiche e quanto era frutto dei suoi pensieri. Questo, in Antonella, facilitò un processo di graduale reintegrazione di aspetti della sua vita soggettiva, legati più o meno direttamente alla situazione traumatica originaria, che sino allora si erano espressi prevalentemente ed isolatamente nei fenomeni neurovegetativi del pallore, del rossore, della tachicardia, ecc. Essi, ora, partecipavano più spesso ed in modo spontaneo alle narrazioni di Antonella, specie a quelle più drammatiche sul suo passato, quali correlati delle emozioni di paura, vergogna, rabbia ecc. Naturalmente questo fatto le fu evidenziato ed interpretato più volte, come pure le fu evidenziata ed interpretata la sua grande sensibilità a quello che i suoi interlocutori, soprattutto i terapeuti, si aspettano o si aspettavano da lei: in passato aveva come avvertito che fosse "lecito" parlare solo dei propri pensieri in psicoterapia, oppure successivamente, nel corso della terapia farmacologica, solo delle sensazioni corporee. [Nota 2].

– La "anima" ritrovata La ricerca di un linguaggio capace di metterlo in contatto con la parte più profonda ed autentica di sé (con la sua "anima") è chiaramente indicata da Appelfeld come tappa fondamentale del suo lavoro auto-riparativo e creativo. Per lungo tempo egli trovò un ostacolo al soddisfacimento di questa necessità nell’apprendimento forzato della lingua ebraica, a lui ancora estranea, e nel clima culturale allora prevalente nel neonato stato d’Israele:

"(…) ‘Costruire ed essere ricostruiti’ Era interpretato dalla maggior parte di noi come una rimozione della memoria [anche della lingua madre di ciascuno], come un cambiamento totale e la costruzione di un legame con questo lembo di terra: ciò che veniva definito ‘una vita normale’. (…) apprendi le parole [del nuovo idioma] ed avrai appreso la lingua: questo approccio meccanico, che mirava a sradicarti dal tuo mondo per trapiantarti in un altro (…) questo approccio vinse, bisogna ammetterlo, ma a che prezzo: l’annientamento della memoria e l’appiattimento dell’anima." [ , pag. 108]

Un approccio alle parole definito "meccanico", vale a dire slegato da risvolti affettivi e quindi dalla storia e dalle caratteristiche peculiari di ciascun individuo, non può portare ad un linguaggio che si presti ad un uso personalizzato. Appelfeld vede in un simile approccio uno strumento d’integrazione nella nuova patria che tende ad eliminare ogni differenza nella vita interiore delle persone: lo "appiattimento dell’anima" come base di una "vita normale", ossia l’opposto di quello cui l’Artista sta tendendo. Egli si aggrappa disperatamente a quanto resta in lui della sua lingua madre:

"La lingua di mia madre e mia madre erano diventate un’entità unica, ed ora che la lingua si estingueva dentro di me, avevo la sensazione che mia madre stesse morendo per la seconda volta. Questo dolore penetrava in me come una droga, non solo quando ero sveglio ma anche mentre dormivo. Nel sonno andavo errando con i convogli di profughi, tutti balbuzienti, e solo gli animali, i cavalli, le mucche ed i cani ai lati delle strade parlavano scorrevolmente. L’ordine delle cose pareva essersi confuso" [2, pag. 103]

In contrasto con gli "animali", i profughi sono diventati "balbuzienti". In essi, a causa dei fatti traumatizzanti cui sono stati esposti, è andato perso il legame con la loro parte "animale", vale a dire con la matrice corporeo-affettiva arcaica e "materna" del linguaggio: la paura ha preso il posto degli altri affetti, anche i più antichi, e le loro parole, di conseguenza, sono divenute incerte e vacillanti.

La persona sana possiede un linguaggio capace di favorire la consapevolezza della propria vita emotiva e corporea, oltre che la possibilità di comunicarne gli eventi in modo appropriato. Esso è in equilibrio fra la soggettività dell’esperienza somatica, del desiderio, dell’affetto, e l’oggettività del codice linguistico consensuale; si pone, cioè, nell'area "transizionale" dell’esperienza [5]. Questa facoltà mentale, capace di tradurre in termini simbolici la vita interiore e quella fisica, nel bambino sano nasce e si sviluppa sul terreno d’interazioni giocose, capaci di dar forma ed espressione al suo peculiare modo d’essere; interazioni che avvengono dapprima con la madre, in stretto rapporto con le cure corporee, e successivamente con tutti i familiari. In persone come Appelfeld ed Antonella, la possibilità di un rapporto realmente giocoso e sereno con i familiari, da un certo momento dell’infanzia in poi, cessò brutalmente. Ciò, come sempre avviene in questi casi, portò alla perdita della suddetta facoltà, appena comparsa ed ancora fragile; nel caso di Antonella, poi, possiamo persino dubitare che essa si sia mai sviluppata in misura consistente. Nella nostra paziente, la necessità di aggrapparsi e sottomettersi alla guida di una madre resa "assolutamente" buona da un’idealizzazione delirante, soppresse del tutto il carattere di scambio "giocoso" delle sue comunicazioni con lei, divenendo il linguaggio prevalentemente uno strumento d’imposizione ad Antonella del modo d’essere per lei voluto dalla genitrice e da lei automaticamente accettato. Per i pazienti alexitimici come Antonella, la parola non riflette, ma governa la realtà interna; essi non conoscono un uso attivo del linguaggio, che consentirebbe loro di esprimersi, ma lo recepiscono passivamente come "direttiva" impartita dall’esterno. Ecco perché, come si diceva poc’anzi, Antonella si sottomise completamente al modo di vedere la sua malattia dei due precedenti terapeuti: la parola del curante, per lei, non era mai un suggerimento per tentare di definire quello che lei stessa provava, ma una definizione rigorosa di quel che "si deve provare" in quella determinata malattia che il terapeuta aveva diagnosticato [Nota 3].

Antonella sta attualmente acquisendo, in modo graduale, un linguaggio che le consente di raggiungere il suo "sé nucleare" (la propria "anima") anziché allontanarla. A questo scopo, si sta rivelando necessaria, come si è detto più sopra, l’integrazione nel trattamento delle sue manifestazioni neurovegetative e somatiche quali "cartina di tornasole" dell’autenticità dei suoi affetti. Oltre a ciò, appare essenziale, anche ai fini di una conoscenza e di una padronanza delle relative ripercussioni sul linguaggio, l’analisi della dipendenza estrema (o, per meglio dire, della "schiavitù"), quale aspetto negativo del suo rapporto transferale che tende a soffocare l’espressione spontanea della sua soggettività. Come pure l’analisi dei suoi risvegli di rabbia primitiva ad ogni frustrazione; risvegli che, sempre accompagnati e seguiti da quelli dell’angoscia di abbandono, tornano periodicamente a distruggere la sua capacità d’esprimersi.

Ma il compito terapeutico decisivo, da cui dipende l’uso suddetto del linguaggio e, parallelamente, l’acquisizione di una guarigione vera ed abbastanza sicura, consiste nel lungo e difficile lavoro necessario per sanare, per quanto possibile, la ferita profonda che affligge la "anima" di Antonella. E questo tramite quella "corrective emotional experience", di cui parlavo poc’anzi, consistente in una graduale trasformazione della "matrice narcisistica" dalla quale nascono sia la "schiavitù", sia la rabbia primitiva, sia le crisi depressive e l’angoscia [10, pag. 646, 647]. Più esattamente, la trasformazione delle istanze narcisistiche rimaste in uno stato immaturo e perciò facilmente soggette a frustrazione, in autostima ed ambizioni realistiche, oltre che in entusiasmo per ideali importanti; il tutto sotto il controllo dell’Io. Solo definendosi e rafforzandosi con tale esperienza affettiva, la vita soggettiva di Antonella può trovare un linguaggio per esprimersi.

 

IV Diagnosi e terapia: la "oggettività" impossibile

Riepilogo qui i suggerimenti che mi pare di poter trarre da esperienze cliniche simili a quella con Antonella.

– Fase "non organizzata" della malattia . È la fase, descritta da circa mezzo secolo [5], dell’iniziale interazione tra curante e paziente: quest’ultimo accenna a diversi aspetti della sua sofferenza ed a seconda di quanto viene ascoltato con attenzione, anziché trascurato, oppure accolto ed incoraggiato, anziché trattato con fastidio, la malattia tende ad assumere una particolare forma piuttosto che un’altra nella considerazione del malato e nell’aspetto soggettivo dei suoi sintomi. Qui molto, anche se non tutto, dipende dall’atteggiamento del terapeuta: se questi concentra la sua attenzione sul sintomo anziché sui problemi (mentali o somatici) di cui la depressione potrebbe essere segnale, anche il paziente (specie quello più influenzabile) è portato a credere che la malattia coincide con la sua espressione sintomatica. A volte è questione anche di semplice "timing": è sufficiente che la prescrizione dell’antidepressivo avvenga, anziché subito, al secondo o al terzo incontro, quando il malato ha già iniziato ad esprimere la sua disperazione (incontrando l’attenzione partecipe del terapeuta) per fornire al paziente un’immagine della sua sofferenza già molto diversa da quella di un puro "fastidio" da eliminare al più presto.

Due fattori, soprattutto, possono rendere cieco il terapeuta di fronte ad un’autodistruttività (manifesta o latente) del depresso e portarlo a "spegnerne" prematuramente il segnale. Il primo è il "narcisismo terapeutico": l’illusione di poter offrire una guarigione "tutta e subito" (o, quanto meno, nel tempo relativamente breve di due o tre settimane) è allettante per il curante e per il paziente, ed è caldeggiata da quest’ultimo e dai suoi familiari; l’efficacia e la maneggevolezza dei nuovi timoanalettici ne forniscono, inoltre, un agevole supporto. Il secondo "fattore di cecità" è l’angoscia che gli eventi passati, per esempio quelli a carattere incestuoso di cui fu vittima Antonella, suscitano, ancor prima d’essere menzionati, nel curante. Molti interventi sintomatici affrettati, apparentemente dovuti a superficialità e leggerezza, come pure molti giudizi pesantemente moralistici, hanno lo scopo inconsapevole di zittire il paziente, impedendogli di coinvolgere nelle sue angosce il terapeuta. Il curante, qualunque sia il suo indirizzo teorico o il tipo di tecnica che usa di preferenza, non può quindi esimersi, in questi casi, da un attento esame dei proprio mondo soggettivo, dei suoi limiti e dell’interferenza di questi sulla capacità di comprendere il paziente; e ciò ricorrendo, se necessario, anche all’aiuto di una supervisione.

– Scelta del farmaco . È innegabile, tuttavia, che la prescrizione di un farmaco non può essere rinviata oltre un certo limite: il paziente chiede un qualche sollievo in tempi rapidi ed ha ragione di farlo perché la depressione lo sta danneggiando sia sul piano biologico, sia su quello sociale. In un momento in cui non si conosce ancora a fondo il paziente, s’impone tuttavia una scelta del farmaco ispirata a criteri di prudenza. In questi ultimi anni, si sta insistendo molto sull’opportunità di una diagnosi differenziale tra Depressione Maggiore Ricorrente e Disturbo Bipolare. Si consiglia, a questo proposito, un attento esame della situazione attuale del paziente ed un’accurata raccolta dei dati anamnestici, alla ricerca del sia pur minimo segno di umore espansivo o di tratti ipertimici. Riguardo alla scelta del farmaco che ne consegue, i più drastici sono alcuni Autori Americani che escludono gli antidepressivi in caso di bipolarità e consigliano i soli regolatori dell’umore anche in fase depressiva, mentre gli Europei sono più propensi ad un’associazione dei due tipi di farmaci [11]. L’importanza del problema risiede, più ancora che negli effetti sul successivo decorso, soprattutto nel fatto che la maniacalità (anche quando presente soltanto "in tracce", come in alcuni Episodi Misti) è ritenuta la responsabile dei comportamenti violenti — ivi compreso il suicidio — che si riscontrano nei Disturbi dell’Umore. L’esperienza di chi scrive [Nota 4], confortata dal parere di più autorevoli studiosi, suggerisce di escludere sia che la maniacalità sia sempre, necessariamente vettore della distruttività del paziente [18], sia che quest’ultima non possa prendere altre forme e percorsi. La comorbidità con vari tipi di "addiction" (come nel caso di Antonella), o con Disturbi dell’Alimentazione, o con Parafilie, o con alcuni Disturbi di Personalità o del Controllo degli Impulsi: sono solo alcuni esempi di situazioni in cui, a partire da una ferita antica e da una vulnerabilità narcisistica di fondo [19], si sviluppa una distruttività che può assumere le più svariate forme. In termini operativi: se il paziente depresso ha presentato in passato solo modesti episodi di euforia o, comunque, se non è chiaro quanto l’umore espansivo è stato o no veicolo della sua distruttività, è opportuno limitarsi a prescrivere un timoanalettico tra i meno psicostimolanti e rimandare ad altro momento ulteriori prescrizioni cercando, nel frattempo, di capire di più. In questi casi, infatti (soprattutto se si usano regolatori dell’umore che operano un forte contenimento dell’affettività, come i nuovi antipsicotici), si rischia di soffocare sul nascere le deboli manifestazioni di un "progetto euforico" [18] con il quale il paziente sta tentando di uscire dal suo mondo malato ed autodistruttivo. Più sopra si è detto "cercare di capire di più": con questo non s’intende la sola osservazione più attenta del quadro clinico nei suoi aspetti esteriori, ma anche e soprattutto una "immersione empatica" approfondita e prolungata nel mondo interiore del paziente. Essa sola può permetterci di capire se, al di là delle apparenze, la distruttività primitiva è o non è tale da richiedere un energico intervento farmacologico urgente, e questo indipendentemente dal fatto che sia o no legata alla maniacalità. Anche qui l’osservazione esteriore può aiutare, ma non sostituire la comprensione empatica e, quindi anche lo psicofarmacologo non può esimersi da un confronto con la dimensione soggettiva del paziente.

– Scelta e durata del trattamento . Ogni paziente ha i suoi tempi, spesso molto lunghi: nel caso di Antonella, come si è visto, la graduale conquista della sua fiducia, parallela alla sua elaborazione del lutto per la figura genitoriale idealizzata con modalità delirante, richiese più di un anno. Se poi consideriamo la "corrective emotional experience" volta a favorire l’integrazione delle esperienze corporee e di quelle mentali, oltre che a modificare la "matrice narcisistica" della sua distruttività, è difficile prevedere una durata inferiore ai dieci anni. Per lei come per altri pazienti, tuttavia, non sarebbe stato lecito negare attenzione al suo mondo soggettivo se, per ragioni estranee alla cura, si fosse disposto di meno tempo: si è visto, come caso estremo, l’effetto psicoterapico di un riuscito "lampo nella notte" ottenuto nei pochi minuti di una consultazione psichiatrica d’urgenza. Nessun dubbio, quindi, sull’opportunità di un "time limited setting" se il paziente, preferendo rivolgersi alla professione privata, ha limitata disponibilità di denaro; oppure se egli prevede, ad una data precisa, un inderogabile trasferimento in altro luogo. Ma cosa pensare della scelta di un trattamento a termine operata "d’emblée" sulla base delle caratteristiche del paziente?

Consideriamo, ad esempio, l’opera voluminosa di un recente Autore Americano [6] che, sulla base della sua distinzione tra depressione "dipendente" ed "autocritica", ritiene possibile orientare il paziente fin dall’inizio verso una psicoterapia breve o, rispettivamente, verso una psicoanalisi classica. Le caratteristiche da lui descritte come proprie della depressione "dipendente", trattabile con intervento "ridotto", sono: sentimenti di solitudine, impotenza, debolezza; paura d’essere abbandonato e lasciato privo di protezione e cure; tendenza ad apprezzare gli altri solo in funzione delle cure e della protezione che offrono. I pazienti di questo tipo, che definirei sofferenti di un Disturbo Dipendente di Personalità scompensato, sono effettivamente capaci, anche in un tempo relativamente breve, di riattivare la loro tendenza ad appoggiarsi ad altri come risorsa contro la depressione. Un trattamento breve, se sa renderli capaci di scegliere, quali oggetti di dipendenza, persone veramente affidabili e di superare i conflitti più evidenti che tale relazione comporta, può quindi restituirli molto presto alla vita di tutti i giorni. Tale modo di vedere, tuttavia, non tiene conto della possibilità che, anche dietro un rapporto di dipendenza ritenuto soddisfacente, possa esservi nel paziente (mascherata e tenuta a freno dall’apparente mansuetudine) una rabbia primitiva che non è possibile apprezzare con un affrettato colloquio iniziale. L’esperienza di un caso di questo genere, che ho descritto in altra sede [15], insegna, inoltre, che la "corrective emotional experience" necessaria per sanare la ferita narcisistica alla base di tale distruttività richiede un periodo di tempo ben superiore a quello comunemente previsto nelle "psicoterapie brevi".

Un altro problema: all’inizio del trattamento di Antonella, chi scrive non aveva un’idea precisa della direzione che avrebbe preso la cura. Non si sarebbe potuto escludere che tutto si sarebbe risolto in un semplice intervento farmacologico sintomatico, come la paziente stessa pareva richiedere. Solo la qualità dell’interazione tra terapeuta e paziente, venutasi a creare gradualmente e spontaneamente, definì questa cura come psicoterapia. Anche qui, come nella scelta del farmaco e della durata del trattamento, non furono le caratteristiche esteriori della patologia (quelle elencabili schematicamente in un DSM) ad orientare positivamente il terapeuta, ma quanto la sua comprensione empatica riuscì a cogliere, favorita dalla propensione della paziente a "mettersi in sintonia".

Quanto sopra suggerisce l’opportunità di tenere da parte, almeno nella fase iniziale del trattamento, la distinzione tra "cure somatiche" o "psicoterapiche", tra terapie "brevi" e "lunghe". Il paziente, riconosciuto come tale, entra in "cura", punto e basta. In che direzione questa si svilupperà o quale durata sarà necessaria e possibile dipenderà, oltre che da circostanze esterne, dalle particolari necessità di quel particolare paziente; necessità che solo un rapporto stretto, empatico e, per lo più, prolungato col terapeuta potranno fare emergere.

Si è finito per cassare dai testi accreditati il termine "psicosomatica" perché alimentava la falsa convinzione di un gruppo particolare di malattie situato al confine tra quello delle malattie "fisiche" e quello delle affezioni "psichiche"; questo in contrasto con quanto i fondatori stessi di quest’approccio proponevano, vale a dire una considerazione globale della "persona" — fatta comunque di mente e di corpo — in tutte le malattie. Per analogia mi chiedo se non sarebbe il caso di cassare i termini "psicoterapia" e "somatoterapia" intesi non come aspetti parziali di un trattamento psichiatrico, ma come interventi completamente distinti, contrapposti alla terapia "integrata", attuati da tecnici diversi e rivolti a pazienti diversi. In quanto tali, essi sono fonte di una falsa convinzione del tutto simile a quella legata al termine "psicosomatica": quella della distinzione tra persone dotate di cervello e senza mente, contrapposte alle altre dotate di mente e senza cervello; due categorie individuabili in base a "precisi elenchi" di caratteristiche specifiche e ritenute trattabili con due differenti tecniche e da due differenti categorie di tecnici. Questo modo distorto di vedere e di trattare le persone malate, fondato su di una dicotomia mente/corpo che persiste nonostante le più convincenti confutazioni, è causa di numerosi inconvenienti. In particolare, la dissociazione della mente dal corpo e la "guarigione" parziale dell’una o dell’altro rappresentano probabilmente l’eventualità più pericolosa. È questo il suggerimento più importante che ci offrono casi come quello di Antonella.

 




Note

[Nota 1] Studi recenti [9, pag. 5] indicano questo fatto come caratteristica generale del Disturbo Bipolare dove una fase "normotimica iperadattata", in cui una sorta di allucinazione negativa "cotardiana" coinvolge l’intero mondo interno, rendendolo non più percepibile, si contrappone alle fasi affettive (depressiva e maniacale), in cui, pur essendovi in parte lo stesso tipo di allucinazione, il paziente vive come "immerso" nelle emozioni.

[Nota 2] Riporto qui quanto ho scritto in un mio recente lavoro [14] su come questa rigida separazione tra mente e corpo, già presente nella nostra cultura ed accentuata (fino a renderla completa scissione) dagli approcci psicoterapici o farmacoterapici "puri", dia alimento ad una fantasia fortemente patogena nei pazienti candidati al suicidio: "Questi pazienti, che non hanno mai superato la nostalgia di un rapporto simbiotico, tendono a vivere il corpo come fonte di tutti i disagi derivanti dal processo di separazione-individuazione. Al corpo essi contrappongono un "surviving self" a-corporeo, a-pulsionale, a-conflittuale e, quindi, privo di tutto ciò che può opporsi ad un pieno ripristino dell’antico rapporto di simbiosi. Quando tale fantasia patogena prende il sopravvento, la strada è spianata per il suicidio, consapevole o "subintenzionale", e probabilmente per le somatizzazioni acute mortali."

[Nota 3] Interi trattamenti risultano dominati e fuorviati da questi problemi di comunicazione. Un importante esempio è costituito da molte cure di disfunzioni apparentemente lievi o di problemi psicologici "non di competenza psichiatrica", prestate spesso da psicoterapeuti o farmacoterapeuti privi di competenza specifica. Il paziente simile ad Antonella accetta docilmente il linguaggio, gli assunti teorici, le attese del suo terapeuta, facendoli propri e divenendo in breve tempo un perfetto malato "neurologico" o "psicologico" "lieve" e successivamente un malato dello stesso genere "in fase di guarigione". Ciò che avviene tra curante e paziente, in queste "cure", ha in realtà la sola funzione di allontanare dalla coscienza di entrambi il pericolo delle gravi complicazioni psichiatriche o mediche generali che la depressione essenziale alexitimica comporta. Tutto procede con grande soddisfazione di tutti, fino a quando un passo falso del terapeuta o un evento esterno che distrugge i rapporti di dipendenza su cui l’alexitimico fonda il suo stato di compenso, fanno irrompere nella scena, spesso in modo acuto, le suddette complicazioni.

[Nota 4] Un mio caso clinico sembra contraddire la suddetta "demonizzazione" eccessiva dello stato maniacale. Si tratta di Nicola, un paziente per lungo tempo ritenuto affetto da "Depressione Maggiore Ricorrente" e trattato, di conseguenza, con antidepressivi. All’improvviso, tuttavia, esplose una sintomatologia maniacale di gravità tale da richiedere un lungo ricovero in ambiente psichiatrico. Al classico corteo di sintomi maniacali, si aggiungeva un delirio di grandezza a contenuto mistico che lo portava a credersi — lui, persona ordinariamente timida e di modeste ambizioni — prescelto da Dio per la missione di "salvare il mondo". Trattato a lungo con antipsicotici, dimesso dall’Ospedale, ritornato la persona umile e schiva di sempre, è a questo punto che inizia ad essermi affidato. Dopo circa un anno di trattamento, anche Nicola mi rivela un suo segreto: da sempre la sua fantasia (ed anche qualche timido, ma pur sempre pericoloso, tentativo di tradurla in atto) era dominata dalla pedofilia. Ebbene, l’unico periodo della vita di Nicola in cui l’attrazione per i bambini gli era parsa completamente superata era quello dello stato maniacale. Le fantasie pedofile, si chiarì, erano per lui il modo di sanare l’antica ferita narcisistica di un’infanzia gravemente carente di cure parentali: l’identificazione con un genitore idealizzato (quale quello che il piccolo Nicola avrebbe voluto avere) lo faceva sentire autorizzato, nell’immaginazione, ad un rapporto sessuale incestuoso proibito agli altri comuni mortali. Questa fantasia grandioso-maniacale, circoscritta alla sfera sessuale, era per il paziente un sostegno indispensabile, nelle fasi normotimiche, ad una vita, per il resto, piatta e "normale". Nelle fasi depressive, in quanto oggetto d’autorimproveri, la pedofilia era pur sempre presente. Solo nell’episodio maniacale, la grandiosità "assoluta" dell’essere il "prescelto da Dio" (il bambino amato in modo esclusivo dal genitore arcaico idealizzato) gli era parsa sanare del tutto l’antica ferita, rendendo non più necessario il ricorso alla sessualità perversa. E fu in questa stessa direzione che si mosse il trattamento (interrotto, purtroppo, dopo due anni per cause estranee alla cura) tentando di ancorare alla realtà e ridimensionare gradualmente il "progetto euforico" [18] implicito nella sua posizione maniacale, di un recupero di qualcosa della grandiosità arcaica perduta.




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