Contributo alla costruzione di servizi di salute mentale antropologicamente competenti.
L’intenzionalità del migrante è permeata dalla necessità storica
di cui né lui, né chiunque altro è consapevole. Per questo è
come se la sua vita fosse segnata da un altro.
John Berger, cit. in Homi Bhabha, I luoghi della cultura, 2001
1. Premessa antropologica: che farsene dell’identità e della differenza culturale.
"Imbroglio etnico", "invenzione della cultura", "eccesso di cultura", "fabbricazione dell’autenticità", "invenzione della tradizione" sono solo alcune delle espressioni che hanno, da diversi punti di vista, sottolineato la fragilità epistemologica di nozioni comeetnia, cultura, tradizione, identità e i pericoli derivanti dalla loro reificazione o manipolazione. Non diversamente da quanto hanno fatto alcuni settori della psicologia e della filosofia quando hanno rimesso in discussione il modello monolitico di Identità e di Soggetto, anche l’antropologia è stata attiva nella decostruzione di quei modelli e di quei concetti sui quali aveva fondato la sua stessa ricerca ed autonomia disciplinare, impegnandosi nella produzione di un nuovo vocabolario ("flussi", "ibridità", "meticciato", "identità deterritorializzate" o "transnazionali" ecc.), più adatto a dar conto della complessità di uno scenario sociale dominato dalla mobilità di idee, immagini e persone, dalla dissoluzione delle frontiere identitarie e dei tradizionali confini.
Jean-Loup Amselle, fra gli autori che prima di altri avevano denunciato l’inganno etnico, ha evidenziato in diversi lavori come il guardare al "sincretismo originario" delle culture costituisca un buon antidoto alle derive essenzialistiche che hanno dominato nei passati decenni l’antropologia culturale, e ha analizzato casi particolari di produzione ed invenzione di nuove tradizioni . Le "differenze culturali" sono state sempre meno invocate secondo la loro accezione comune: una volta abbandonata la loro rappresentazione ossificata, sono la fusione, la contaminazione, l’invenzione ad essersi gradualmente imposte come le formule in grado di misurare le trasformazioni di gruppi e individui, e catturare le nuove forme di auto-rappresentazione e di contatto culturale. analisi
In questo approccio ai temi dell’identità e del mutamento culturale non è difficile rinvenire argomenti che avevano avuto già in passato una loro rilevanza teorica. Se l’antropologia, sin dagli anni Trenta, sottolineava le dinamiche della transculturazione e dell’acculturazione reciproca (Ortiz, Herskovits, Linton, Bastide ecc.), se alla fine degli anni Quaranta Clyde Kluckhohn aveva denunciato con forza il "mito della razza" e l’uso ingenuo della nozione di cultura, Johannes Fabian avrebbe parlato più recentemente e perentoriamente della "liquidazione, letteralmente parlando, del concetto di cultura" (1978). Autori come Ulf Hannertz sarebbero stati fra i protagonisti di questa nuova maniera di considerare la cultura e l’interconnessione, l’origine multicentrica dei flussi, dei "controflussi" e delle influenze fra gruppi diversi, il gioco degli scambi e dei mutamenti. Il "vortice urbano", vero e proprio crogiuolo di significati, pratiche, fusioni e fissioni identitarie, offriva all’autore un campo privilegiato per osservare questi processi, tanto nelle società occidentali quanto in continenti come l’Africa (Hannertz, 1992, p. 235). In un lavoro pubblicato alcuni anni dopo, Hannertz (1998) avrebbe nuovamente criticato la presunta idea di coesione ed omogeneità con la quale si era preteso in passato descrivere culture locali o nazionali, e proponeva un "elogio delle culture spurie". Nell’insieme queste prospettive svelano l’utopia letale delle passate classificazioni, e la pretesa di poter erigere su di esse criteri permanenti, stabili, naturalizzati di relazioni sociali. Ma esse non sono soltanto il prodotto di una nuova coscienza epistemologica: sono state anche le mutate condizioni politiche che hanno contribuito in modo massiccio a rendere impossibile perpetuare un certo approccio all’Altro e alle sue differenze, reali o presunte che fossero, sono i mutati rapporti di forza prodottisi all’interno dello scenario postcoloniale ad aver reso obsolete quelle metodologie, ciò che talvolta viene sorprendentemente dimenticato. Tutto sarebbe stato allora già detto contro l’identità etnica (Amselle e M’Bokolo, 1985; Fabietti, 1995; Remotti, 1996)?
Non sembra. Il "luogo etnografico", sempre più inutilizzabile agli occhi degli antropologi, vive infatti un inatteso revival proprio nel riaffermarsi di scontri a carattere etnico e culturale che invitano ad analisi più articolate di quelle suggerite dalla moda, e in grado di rivelare come i concetti spesso utilizzati contribuiscano a riprodurre differenze e ineguaglianze (Gallissot, Kilani, Rivera, 2001). È però doveroso considerare di volta in volta chi parla di differenze e identità, e all’interno di quale scenario: se a invocare differenze culturali e civiltà in conflitto sono gli esponenti di una potenza militare o economica o le élite di un paese, occorre certo denunciare l’uso strumentale di queste categorie, ma se a invocare che non si dimentichino i diritti di gruppi e minoranze sono i rappresentanti di queste ultime bisogna ammettere che la nozione di "identità etniche" può rivendicare una sua specifica pertinenza.
La velocità degli scambi, soprattutto economici, ha costituito indubbiamente un fattore di potente accelerazione nell’affermarsi di nuovi modi di concepire i confini fra gruppi e nozioni quali quelle dell’identità culturale. Ma il processo della cosiddettaglobalizzazione, certo non del tutto nuovo, ha conosciuto in epoca moderna, e sin dall’epoca coloniale, un’articolazione caratteristica e in apparenza paradossale che, insieme alla diffusa circolazione di prodotti, immagini, informazioni, accanto all’indebolimento dei vincoli tradizionali e all’affermarsi di identità transnazionali, ha visto anche l’accentuazione e la riproduzione inattesa dei movimenti di "rinascita identitaria", di "autenticità culturale", e più in generale l’accresciuta (spesso violenta) rivendicazione delle differenze e delle identità etniche (Bayart, 2004). Appadurai (2005) ha affermato che questa accentuazione, dalle conseguenze spesso tragiche quando si pensi alle forme macabre della violenza in alcuni recenti conflitti, sarebbe connessa anche alle incertezze derivanti dalla frammentazione e dall’indebolimento dei precedenti sistemi di riferimento e delle precedenti frontiere. Abbiamo dunque da riconoscere un duplice movimento, vero e proprio chiasmo:
- la de-sostanzializzazione, in sede epistemologica, della nozione di appartenenza e identità etnica o culturale;
- il rilievo drammatico che hanno assunto recentemente rivendicazioni etniche e identitarie, sia in Occidente sia nelle società non occidentali, in uno scenario che sembrava invece caratterizzato dalla irreversibile perdita del grado di pertinenza di tali nozioni.
Le conseguenze di questa vera e propria torsione epistemologica del discorso antropologico sono numerose, e qui ne ricordo solo due fra quelle più direttamente connesse ai problemi che ci riguardano, ossia 1) l’articolazione fra la nozione di differenza culturale e ambito della salute mentale, 2) i problemi, metodologici ma non solo, posti dal rapporto fra cittadini stranieri e istituzioni psichiatriche.
La prima conseguenza è la dissoluzione dell’idea secondo la quale ogni individuo possa essere immaginato come naturalmente aderente alla sua cultura d’appartenenza (o addirittura comprensibile a partire dai tratti ritenuti caratteristici di quest’ultima: sorta di impronta digitale del suo psichismo). Il comportamento dell’Altro, tanto meno i disturbi mentali da cui è eventualmente affetto, non possono essere spiegati nella loro totalità sulla base della cultura del suo gruppo, non diversamente da quanto l’inconscio non permetta di interpretare la totalità dei fatti umani. Tuttavia, senza mai saturare il campo delle interpretazioni, l’appartenenza culturale può rivelarsi una categoria decisiva, o strategica, nella cura. Come pensare dunque opportunamente nella pratica quotidiana dei servizi il rapporto fra disturbi mentali nella popolazione immigrata e domanda di cura? Come articolare la relazione fra culture di appartenenza e strategie terapeutiche?
La seconda conseguenza, quando ci si rivolga all’analisi della sofferenza psichica degli immigrati, riguarda invece la necessità di considerare l’incidenza della variabile "Cultura" all’interno di un contesto (economico, storico, sociale) assai più ampio e contraddittorio: è solo il costante riferimento a quest’ultimo che consente di evitare fraintendimenti grotteschi nell’approccio al disturbo psichiatrico nella popolazione immigrata, fraintendimenti derivanti sia dal guardare alla Cultura come alla sola dimensione significativa quanto dal suo altrettanto assurdo occultamento.
Perché la Cultura possa rappresentare una dimensione efficacemente utilizzata nella presa in carico degli utenti stranieri, sono pertanto necessarie una teoria della cultura (come auspicava già negli anni Sessanta Georges Devereux) e una adeguata teoria della differenza culturale (i fenomeni della creolizzazione e dell’acculturazione reciproca, come insegnano gli studi di Roger Bastide). Sono questi i presupposti a partire dai quali diventa legittimo il riferimento alle matrici culturali di metafore e altre tradizioni terapeutiche, a categorie eziologiche epistemologiche ritagliate in un diverso orizzonte: un riferimento che può rivelarsi a certe condizioni una vera e propria tecnica, una "leva" di cambiamento terapeutico, una sorgente di insight. È altrettanto necessario però che questo orizzonte di possibilità si accompagni negli esperti della salute mentale a un esame critico che concerna a) le procedure diagnostiche e le pratiche di cura della psichiatria stessa, b) le economie morali dentro cui si sviluppano le vicende cliniche e i conflitti degli immigrati, c) i fenomeni di cripto-razzismo, spesso ignorati sebbene determinanti tanto nell’origine di sofferenze psichiche quanto nella genesi di malintesi e mancati incontri fra utenti stranieri e servizi. Intendo sviluppare lungo questi tre assi le considerazioni che seguono.
Che la posta in gioco nel dibattito sulla salute mentale nelle società multiculturali non riguardi soltanto questa o quella tecnica terapeutica, la sua maggiore o minore efficacia, il grado di legittimità di questa o quella interpretazione, è ormai ampiamente riconosciuto. Se pure il confronto è stato spesso grossolanamente riproposto nei termini di un dibattito, spesso sterile, fra relativisti e universalisti, quella che emerge oggi è una questione propriamente politica, come lo fu in parte quella all’origine del rinnovamento della psichiatria istituzionale italiana: con una differenza non trascurabile. Nel dibattito sulla salute mentale degli immigrati, dietro le polemiche su come organizzare i servizi sanitari in rapporto all’utenza straniera, se sia giusto o meno realizzare centri specificamente rivolti all’utenza straniera, o se sia clinicamente ed eticamente legittimo il ricorso a eziologie e a terapie "tradizionali" nella loro cura, emergono infatti questioni irrisolte come la cittadinanza, la scelta di un modello o un altro di integrazione, la possibilità di godere di trattamenti terapeutico-riabilitativi prolungati anche da parte di chi non ha il permesso di residenza ecc. Di questi conflitti propriamente politici è testimone il recente dibattito sviluppatosi in Francia intorno all’esperienza etnopsichiatrica realizzata da Tobie Nathan, ma anche tutto il dibattito relativo alle condizioni sanitarie e al trattamento di richiedenti asilo all’interno dei CPT: i luoghi dello straniero, siano essi quelli della "cura" o dell’identificazione, sono diventati spazi contesi dove si affrontano problemi ancora irrisolti. C’è un altro motivo che rende politico, e non solo organizzativo o epistemologico, il tema di cui qui ci si occupa: nelle storie degli immigrati, soprattutto in quelle di coloro che esprimono il maggior grado di sofferenza o sperimentano più dolorosamente le dinamiche dell’esclusione e dell’incertezza, della marginalità e della devianza, fa eco una verità dolorosa è scomoda, ed è quella di cui ha scritto Bhabha quando ha sostenuto che "C’è unacospirazione del silenzio attorno alla verità coloniale, qualunque essa sia" (2001, p. 173, corsivo mio). Curare gli altri non può allora essere possibile trascurando che gli immigrati sono anche emigrati, come ricorda Sayad (2002), ossia persone provenienti da paesi un tempo colonie, che si recano spesso proprio in quelli che furono i paesi colonizzatori. Si dovrà tener presente questo aspetto quando si voglia comprendere il malessere e i conflitti delle seconde generazioni, il cumulo di memorie represse e di rivolta che anima i comportamenti violenti e distruttivi di tanti adolescenti immigrati, ma sin d’ora è importante includere in questa tela di fondo tutta politica anche lo scenario nazionale e internazionale: uno scenario che vede il moltiplicarsi dei "fuochi" di conflitto (Madrid, Parigi, Gent, Padova, Milano, Torino ecc.), che ossessiona con le immagini di clandestini morti nel corso dei loro tragici viaggi o respinti dalle griglie elettrificate (di Ceuta e Melilla o lungo la frontiera fra Messico e Stati Uniti), che vede riprodursi i fantasmi della paura (l’arabo "impulsivo" e "criminale" della psichiatria coloniale di Porot è diventato ora l’arabo terrorista). Questo scenario, nutrito da affermazioni idiote come quelle del ministro Sarkozy sulla "racaille" delle banlieues o sul modello di una "immigration choisie" che si oppone a una "immigration subie", deve essere materia privilegiata di riflessione per quanti si accingono a lavorare con gli immigrati affetti da disturbi mentali: questi temi affiorano immediatamente solo che si presti ascolto alle loro diffidenze, ai loro rancori inspiegabili, alle ragioni di gesti aggressivi o autolesionistici altrimenti incomprensibili.
Può essere utile illustrare ora qualcuno dei problemi che connotano l’incontro fra cittadini stranieri e servizi adottando una prospettiva "dal basso", come si usa dire oggi, che assuma cioè come argomenti i dati emersi dall’esperienza di operatori e pazienti, i tanti aneddoti esemplari di cui sono venuto a conoscenza nonché le ricerche prodotte in questi anni.
2. Incontri mancati
Che cosa accade quando un cittadino straniero o una famiglia immigrata entra in contatto con i servizi sanitari? I suoi sintomi, le sue esperienze trovano sempre un ascolto adeguato? Quali sono le difficoltà che sperimentano gli operatori?
Una ricerca sul rapporto salute/migrazione nella città di Torino aveva dimostrato come anche i cittadini stranieri aventi diritti non facessero ricordo al Servizio Sanitario Nazionale che nel 50% dei casi (AA.VV, 1994). Un’analoga conclusione si trovava nello studio condotto quattro anni dopo dalla Provincia di Torino. Per ciò che concerne l’accesso ai servizi di salute mentale, un’indagine limitata ad alcuni servizi di salute mentale della città di Torino (sette, per l’esattezza) dimostrava inoltre la scarsissima presenza di cittadini stranieri e l’elevata incidenza di drop out già dopo uno o due incontri. Al contrario, al Centro Fanon, il flusso di utenti era stato, nello stesso periodo di tempo, e benché l’orario di apertura settimanale di questo Centro limitato a soli due pomeriggi, ben sette volte più alto di quello del totale di utenti accolti dai sette servizi nel loro insieme! (AA.VV, 1999). Gli stessi risultati sarebbero stati documentati da un’ulteriore ricerca condotta anni dopo (Ponzio, 2003; Visintin, 2003). Che cosa indicavano questi dati? Che cosa mostravano queste assenze E perché spesso ci si ostinava a negare che qualcosa doveva essere fatto per accrescere la qualità delle cure e la soddisfazione di utenti stranieri e operatori?
Alla prima domanda è facile rispondere con i modelli dell’antropologia medica critica e dell’etnopsichiatria. Michele Risso e Wolfang Böker, già negli anni ’60 avevano potuto mostrare i limiti della psichiatria occidentale e delle sue categorie diagnostiche al cospetto del disagio e della sofferenza di pazienti che pure di questo Occidente erano a pieno titolo "cittadini" (gli immigrati erano in quel caso provenienti dal meridione d’Italia).
Quanto al secondo interrogativo, è evidente che la presenza dell’Altro, dello straniero, ha sempre rappresentato una leva in grado di rivelare le faglie delle società ospiti e mostrare, in quelle che sembravano certezze acquisite, contraddizioni e zone d’ombra nei loro saperi. La presenza dell’Altro è di per sé un vero e proprio "rivelatore epistemologico", svela contraddizioni e debolezze: contro tutto questo una sorta di resistenza, nel senso proprio che in psicoanalisi ha questo termine, ha fatto sì che operatori ed esperti spesso non vedessero (non riconoscessero) le carenze delle proprie pratiche, dei propri modelli interpretativi, al cospetto di domande e conflitti nuovi o diversi. Questo discorso non vale solo per gli utenti stranieri. Una certa psichiatria preferisce parlare con abbondanza di dati e ricchezza di grafici, di "drop out", "bassa compliance" del paziente, "scarsa collaborazione" della famiglia: ma ciascuno di questi concetti potrebbe essere rovesciato e rivelare in buona parte dei casi la "cattiva qualità dell’accoglienza e della relazione", "l’insostenibilità delle terapia farmacologia" (economica, connessa ad effetti collaterali, ecc.), l’incapacità a governare dinamiche relazionali complesse. L’incontro fra alienisti e stranieri vede spesso amplificati questi problemi e l’abuso di simili pseudo-concetti.
In queste difficoltà giocano però non meno di due fattori, spesso intrecciati o nascosti l’uno dietro l’altro, che conviene esaminare separatamente benché essi si nutrano l’uno dell’altro.
A) il primo potrebbe essere definita la "questione culturale". La mancanza di consuetudine con categorie e modelli che sono caratteristici di un particolare sistema di cure, la scarsa familiarità con altri registri eziologici e terapeutici, sono all’origine di molte delle difficoltà comunemente riportate.
Benché si conosca poco o nulla della storia del paziente, della sua biografia, dei suoi nomi, della sua città, della storia e della geografia del suo paese, una diagnosi psichiatrica viene tuttavia proposta anche dopo qualche frammentario "incontro": una diagnosi che pretende legittimità sulla base di una sua presunta oggettività metodologica (uso di test psicodiagnostici, ad esempio) e rende legittimo a sua volta somministrare psicofarmaci. Formule come psicosi reattiva, bouffée delirante, delirio religioso, o pseudodiagnosi di cui sono stato diretto testimone ("sindrome di arabismo", è la diagnosi pronunciata da una collega psichiatra e psicoanalista di lunga esperienza al cospetto di un paziente descritto come "noioso, viscido, insistente"), scandiscono il panorama delle pratiche di cui stiamo analizzando qui la logica. Di fronte alla "incomprensibilità" dell’Altro, doppiamente alieno (folle e straniero) (Collignon, 1997), di fronte a lingue spesso non perfettamente governate o sconosciute, le strategie solitamente adottate sono due: il diniego della sua differenza linguistico-culturale e la riduzione della sua differenza al letto di Prometeo delle nostre categorie e strategie, o alternativamente, l’immaginare che una differenza culturale non meglio precisata nasconda il segreto del sintomo. Kleinman aveva trent’anni fa proposto la nozione di category fallacy proprio per indicare questo genere di problemi, e soprattutto la pretesa di esportare categorie diagnostiche della psichiatria occidentale in altri contesti culturali.
Fornirò due aneddoti a mio avviso esemplari.
a) In un Servizio di NPI viene inviato un adolescente proveniente da una comunità, dove è giunto dopo un rocambolesco viaggio che lo ha visto arrivare in Italia, solo, dopo essere fuggito dagli orrori della guerra e della violenza del suo paese d’origine (Medio Oriente). L’adolescente, che chiamerò Tarik, accusa violente crisi di emicrania, è silenzioso, ma soprattutto preoccupa per le ricorrenti crisi di aggressività e di violenza, auto- ed etero-dirette, che sfiorano il carattere della crisi pantoclastia e dell’autolesionismo. Non si dispone inoltre di alcun mediatore, ciò che rende ancora più difficile la comunicazione e la raccolta anamnestica. Presso il servizio di neuropsichiatria infantile gli sono stati prescritti in passato psicofarmaci, ma questi sembrano aver avuto scarso effetto. Ecco allora il "ragionamento clinico deduttivo", la cui buona fede è fuori dubbio, ma nel quale è altrettanto evidente la perversità del metodo: i) se la sedazione non è stata realizzata, vuol dire che la sua impulsività è incoercibile, ciò che è caratteristico di pazienti con deficit mentale, in ragione della scarsa inibizione corticale; ii) bisognerà dunque valutare il suo Q.I. per predisporre una terapia più adeguata e un inquadramento diagnostico più corretto; iii) come valutare il Q.I. in un paziente che non parla né l’italiano né altre lingue veicolari, e per il quale non si dispone di un mediatore/interprete? Si utilizzerà uno strumento diagnostico appropriato, lo stesso adottato nel caso di pazienti sordo-muti, il Leiter test; iv) per soddisfare la nostra "ansia di oggettività", in mancanza di altre risorse, ecco allora che Tarik viene equiparato a un sordo-muto (sic!): il test è somministrato, il risultato prevedibile: il Q.I. è bassissimo (intorno a 50))… Per un caso fortuito Tarik è inviato al Centro Fanon, dove la presenza di un mediatore arabo consente di instaurare con il giovane paziente un dialogo: conosce discretamente l’arabo, oltre alla sua lingua madre (farsi), ma nelle vicende che lo hanno portato a sconfinare nel corso della guerra in paesi limitrofi e ad avere una lunga esperienza di clandestino, Tarik ha appreso altre due lingue! E ora, dopo qualche mese in Italia, anche il suo italiano sta rapidamente migliorando: questo è compatibile con il suo Q.I.? la risposta è ovvia, ma ciò che più conta è che per mesi, sino a quando non ha trascorso qualche ora con noi, raccontando le tragiche vicende di cui era stato protagonista, testimone o vittima, nessun esperto aveva ascoltato la sua angoscia, il suo dolore, quei drammi incorporati che gli facevano esplodere letteralmente la testa (fra i comportamenti più minacciosi quello di lanciarsi con la testa contro il muro). Nondimeno, lo ripeto al prezzo di diventare noioso, una diagnosi e una terapia erano state proposte!
b) Da un istituto penitenziario di una città del Nord una collega psicologa mi scrive raccontandomi di un detenuto cinese che mostra un’agitazione incontenibile; la somministrazione di psicofarmaci (di cui non ricorda il nome) non ha avuto alcun effetto, anzi il paziente urla angosciato indicando la bocca spalancata e protrudendo la lingua. La collega, che conosce da anni l’esperienza del Centro Fanon, mi chiede a nome dell’équipe se possa aiutarli, se io conosca qualche "sindrome culturalmente ordinata" che possa spiegare il comportamento del paziente detenuto. Nella valutazione degli elementi di cui sono stato portato a conoscenza le chiedo a mia volta se gli siano stati somministrati neurolettici, dal momento che alcuni di questi hanno come è noto un effetto collaterale particolarmente fastidioso e grave: è la "lingua a dardo", con ipertono e protrusione del muscolo linguale. Se fosse così, suggerisco l’immediata e graduale riduzione del dosaggio e la somministrazione di un farmaco anticolinergico. La psicologa chiede informazioni al medico dell’Istituto di Pena e conferma la somministrazione di un neurolettico (prescritto perché il paziente era particolarmente agitato all’ingresso e rifiutava ogni domanda). Dopo circa due settimane il fenomeno scompare, un interprete è stato finalmente reperito: ora è possibile parlare con lui che, informato delle ragioni del suo disturbo e degli aggiustamenti che ne hanno permesso il controllo, ringrazia lo sconosciuto "medico che conosce la medicina tradizionale cinese". In questa vera e propria commedia degli equivoci, sulla cartella clinica viene registrato laconicamente la seguente frase: "Riduzione della terapia in ragione di effetti neurodislettici comparsi a causa di una probabile reazione idiosincrasica su base etnica".
I due esempi riportati sono espressioni eloquenti di due errori frequenti e simmetrici: nel primo caso è il ritenere irrilevante l’esplorazione dettagliata dell’esperienza dell’utente, rassegnarsi alle difficoltà che rendono spesso impossibile o difficile la comunicazione, tralasciando di interrogare le vicende e il contesto sociale e storico (non dunque una generica appartenenza culturale) dentro il quale ha preso corpo la sua sofferenza prima di qualsivoglia atto diagnostico-terapeutico; nel secondo caso il rischio evidente è quello di lasciarsi ingannare dalla differenza dell’Altro, finendo con il dimenticare e trascurare il significato di un "segno" che dovrebbe essere invece familiare a ogni clinico e che viene invece ricondotto a una possibile "sindrome legata alla cultura". In quest’ultimo caso, riconosciuto che si trattava dell’effetto collaterale del farmaco, il sintomo viene tradotto nei termini di un’idiosincrasia su base etnico-razziale: se è vero che gli psicofarmaci possono avere effetti leggermente diversi in alcune popolazioni, e soprattutto agire talvolta già a dosi più basse di quelle solitamente somministrate ai pazienti occidentali, quello al quale assistiamo suona come un vero e proprio "contro-transfert culturale". Simili errori sono ben noti nella letteratura transculturale ed etnopsichiatrica: da Devereux a Risso e Böker sono stati descritti da oltre quarant’anni i rischi di incorrere tanto in falsi negativi che in falsi positivi: perché continuano a ripetersi? È evidente che la differenza culturale non riesce ancora a trovare uno spazio adeguato di pensabilità e di analisi nella pratica quotidian. Essa rischia, secondo i casi, di essere ignorata, banalizzata o diventare elemento di occultamento di altri problemi. Questi profili sono particolarmente rilevanti all’interno di situazioni particolari, quali quelle che evocherò qui di seguito.
3. Gruppi critici
3.1. Migrazione e prostituzione. Da molti anni ci occupiamo di "donne vittime della tratta": provenienti per lo più dall’Est dell’Europa o dalla Nigeria, ma anche dal altri paese dell’Africa sub-sahariana e dall’America Latina. Avviate ad un programma di integrazione sociale in accordo al cosiddetto "Articolo 18", molte di queste donne stentano a trovare un lavoro (per le donne di colore i problemi del costituiscono una realtà), il permesso di soggiorno tarda a arrivare, un succedersi di "borse di lavoro" effimere le rende incapaci di raggiungere la promessa autonomia, l’impossibilità di inviare denaro alla famiglia accresce dissidi e conflitti: dal paese, la richiesta di inviare denaro non cessa, anche quando informati delle difficoltà e delle vicende cliniche delle loro figlie e sorelle, quella richiesta continua ostinata, indice di una "violenza strutturale" (Farmer) che non conosce eccezione. In questo orizzonte di incertezza e di solitudine, la sintomatologia può assumere forme minacciose e nuovamente farsi "incomprensibile". Nelle donne nigeriane i riferimenti alle pratiche di culti di possessione, o ai vincoli rituali con coloro che ne hanno permesso l’immigrazione clandestina e continuano spesso a sfruttarle minacciando la famiglia rimasta nel paese d’origine, evocano figure che sembravano relegate nell’etnologia esotica, e che ricompaiono con straordinaria frequenza a Torino come ad Amsterdam (Beneduce e Taliani, 2006; van Dijk, 2001). Riferimenti a complesse tradizioni e ad economie occulte (Jane e John Comaroff) chiedono agli operatori una competenza storico-antropologica per poter decifrare allusioni, metafore, sintomi: spesso, nell’assenza di una comprensione soddisfacente di questi riferimenti, di queste esperienze, le pazienti si tacciono, nascondono le vere ragioni delle proprie angosce, tali da richiedere spesso ospedalizzazioni ripetute, e mi sussurrano: "perché parlarne con un medico bianco che non capirebbe nulla?". C’è qui un problema preciso che bisogna identificare subito: una diagnosi accurata, che non ripeta il monotono ritornello della "psicosi reattiva", deve poter essere fondata su questo tipo di conoscenze. Gli autori di un celebre libro,Œdipe Africain, Edmond e Marie-CécileOrtigues, sostenevano anni addietro la necessità di fondare la diagnosi di pazienti immigrati, in particolare di quelli provenienti dall’Africa sub-sahariana, su una "diversa semiologia": ecco quello che è indispensabile riconoscere, la necessità di penetrare il significato della sofferenza degli immigrati ricorrendo a un diverso insieme di segni e di strategie interpretative. Ma questo argomento, estremamente complesso, non può essere qui trattato estesamente. Ciò che mi preme sottolineare è un altro aspetto, che contribuisce ad amplificare i problemi ora evocati ma in qualche misura autonomo. Queste donne intrattengono con la sfera della sessualità dell’affettività, relazioni particolarmente difficili e ambivalenti. L’ambiguità che queste donne riproducono nei confronti dei propri partner è la testimonianza per eccellenza di che cosa esprime il concetto di "corpo-capitale" (Wacquant): un corpo diventato mezzo di produzione, scarsamente sensibile a messaggi di prevenzione o a codici morali. A questo fa riferimento l’espressione prima utilizzata di economie morali, a questo insieme di problemi rinvia anche il concetto di "sessualità di crisi", ricorrente nella letteratura medico-antropologica. Segnate da una violenza psicologica e fisica, simbolica e materiale, esse rimangono catturate all’interno di un orizzonte morale che mette alla prova la capacità degli operatori: spesso in difficoltà nel costruire interventi nei quali sia consapevolmente riconosciuto e governato il ruolo dei propri modelli etici o religiosi. Faccio qui riferimento non solo a psichiatri e psicoterapeuti ma all’insieme della rete assistenziale: educatori, operatori socio-assistenziali, ecc. In questo orizzonte si radica una vulnerabilità tutta particolare di queste donne, ma anche buona parte di errori nella "partita" che caratterizza l’intervento assistenziale: non penso qui tanto al personale dei servizi di salute mentale, sebbene credo che quest’ultimi siano nella posizione migliore per prevenirli orientando opportunamente coloro con i quali collaborano (non ultimi gli operatori del cosiddetto volontariato, laico e religioso).
3.2. Minori stranieri e violenza. La sofferenza psichica dei minori stranieri si esprime secondo forme peculiari. Nei più piccoli l’incidenza di disturbi del linguaggio, che possono assumere anche la forma estrema di sindromi artistiche, è considerevole; spesso però intorno a questa diagnosi s’ingaggia un vero e proprio braccio di ferro tra le famiglie e i servizi. Il rapporto con gli operatori rischia così di fallire fra malintesi e conflitti. I primi accusano i genitori di scarsa collaborazione, di reticenza, le seconde si sentono scrutate, diffidano dell’ingresso nel loro mondo privato di figure professionali ad essi poco familiari. L’assistenza spesso persegue strategie e tempi oggettivamente difficili da comprendere, anche per gli utenti italiani: nei servizi di NPI della città di Torino i tempi di attesa per un primo colloquio sono intollerabilmente lunghi (spesso sino a tre mesi, e anche oltre), e ciò contribuisce a incrinare la relazione tra famiglie e istituzioni. Ma è un problema particolare a suonare particolarmente minaccioso, quello della violenza, tanto familiare ("domestica", e rivolta soprattutto verso i minori), quanto quella di cui si fanno protagonisti gli adolescenti, soprattutto coloro che appartengono alla categoria dei "minori non accompagnati", spesso partecipi di attività illegali o criminali. I loro disturbi s’intrecciano così a delicatissimi problemi di gestione sociale: comportamenti dissociativi, crisi di aggressività, "stati mentali di guerra" (Mbembe), attitudini intimidatorie, atti illegali, periodi di detenzione si susseguono secondo una spirale drammatica. E la violenza che ne è alla base spesso viene da essi stessa brandita come un legittimo mezzo di asserzione identitaria, secondo quanto è stato descritto anche in altri contesti (Beneduce, 2007a).
3.3. Rifugiati e vittime di tortura. Anche quest’ambito sta assumendo una rilevanza crescente nella domanda di cura e di assistenza, sebbene controverso rimanga sia il contesto legislativo e giuridico che fa da sfondo alla richiesta di documentare le conseguenze derivanti dall’esperienza traumatica (nazionale, ma anche europeo: Fassin, 2001), sia il repertorio di categorie diagnostiche e di strategie terapeutiche utili nella cura di quest’ultima (Young, 1995; Fassin, Rechtman, 2007). L’esperienza della migrazione ha con le dimensioni della violenza, della perdita e della morte, del lutto, un rapporto "strutturale" (Beneduce, 2006, Taliani, 2006). Gli esperti della salute mentale sanno di doversi confrontare sistematicamente con i temi della violenza, politica, morale e sociale, all’origine di non pochi disturbi mentali nella popolazione di rifugiati: anche in Italia le vittime di tortura giungono numerose da paesi come Nigeria, Repubblica Democratica del Congo, Repubblica del Congo, Uganda, Afghanistan, Iraq, Eritrea, Tunisia ecc.
Ancora una volta la competenza degli operatori relativa alle vicende geo-politiche rappresenta una variabile spesso decisiva nel determinare il destino della relazione terapeutica, non meno di quanto faccia il grado di competenza nell’accogliere storie di violenza e umiliazione: storie che spesso vengono solo alluse, non si dicono "coerentemente", e dove contraddizioni e persino "bugie" hanno spinto alcuni autori a parlare di paesaggi narrativi "frammentari" o "rotti" (Kirmayer, 1996), dove infine è propriamente frantumato il senso comune dell’esperienza ordinaria. Sono racconti ricchi di silenzi e cesure, e come tali materiali critici, come è noto, nella costruzione di relazioni mediche da utilizzare nella richiesta d’asilo (Kirmayer, 2003).
4. Strategie
4.1. L’etnopsichiatria della migrazione: centri specialistici o "spazi di ghettizzazione"? Nel recente dibattito sull’etnopsichiatria e le sue teorie è stato spesso proposto l’ interrogativo inerente ai rischi di iniziative che, realizzando spazi separati di accoglienza della domanda di cura degli utenti stranieri, finirebbero col riprodurre logiche di esclusione, in particolare quando farebbero del profilo culturale la sola loro ragion d’essere. Non è una domanda nata oggi: già nel 1985 l’antropologo Andras Zempléni poneva in evidenza i pericoli derivanti da strategie che si rivolgono alla sola "differenza culturale" anziché alla "divisione culturale", all’ambivalenza e alla "trasformazione psico-culturale" caratteristiche dell’esperienza migratoria ma di fatto universali. Se l’etnopsichiatria della migrazione intende definire una sua specificità, può farlo lavorando su queste dinamiche complesse, senza immaginare che la domanda del paziente immigrato sia quella di essere ricondotto al suo "ghetto culturale"(Zempléni). L’invito dell’autore mi sembra pienamente condivisibile, tanto più in considerazione delle sue accurate ricerche sui diversi linguaggi della sofferenza e della cura anche in altri contesti culturali, ma anche in ragione di pratiche di separazione che continuano a riprodursi all’ombra di istituzioni che pure rivendicano efficienza e accessibilità. La sua formulazione mette a tacere una inutile quérelle (sono utili i "centri per immigrati" o non riproducono essi stessi una logica ghettizzante?), spostando l’attenzione dai luoghi fisici di una pratica di cura agli obiettivi perseguiti e ai metodi adottati.
Bisogna tener conto, d’altronde, di un dato: questi centri, immaginati come centri di ricerca, di formazione, di consulenza e di cura, sono nati in ragione di un presupposto sovente trascurato, ossia la mancanza o la frammentarietà di conoscenze antropologiche e di tecniche etnopsichiatriche nel background teorico della quasi totalità degli operatori e dell’organizzazione stessa delle pratiche di salute mentale, ciò che può tradursi in una inaccessibilità di fatto dei servizi stessi all’utenza immigrata. L’accessibilità è infatti cancellata ogni qualvolta l’utente percepisce inadeguata l’accoglienza che gli è riservata, non riuscendo ad orientarsi fra sistemi di segni e regole estranee alla sua esperienza, ogni qualvolta si sente insoddisfatto del livello di comprensione dei propri problemi o vive con disagio l’incontro con l’operatore per l’impossibilità di parlare nella propria lingua madre. Tali fenomeni possono, secondo un crescendo, giungere a indurre sentimenti di ostilità e vissuti di razzismo, ciò che determina solitamente l’interruzione della cura. I racconti di immigrati e famiglie straniere ascoltati nel corso di questi quindici anni sono particolarmente eloquenti al riguardo.
Quando evoco la "mancanza o la frammentarietà di conoscenze antropologiche e di tecniche" includo però, secondo quanto emerge dalla letteratura internazionale, anche la scarsa consuetudine a riconoscere i disturbi del paziente immigrato come un commentario critico nei confronti del contesto sociale e della propria condizione di marginalità, a leggere i sintomi corporei ben più che semplice indice di "somatizzazione" quanto piuttosto un vero e proprio un "luogo di protesta" (Whtley, Kirmayer, Groleau, 2006, p. 203). In questo si avverte l’eco della lezione di Frantz Fanon, che invitava i medici francesi a porre, nei riguardi dei pazienti immigrati algerini, una diagnosi "situazionale", attenta a riconoscere cioè nei loro sintomi ostinati la protesta muta, i vissuti di morte, i verbali segreti di soggetti privati della possibilità di esprimere angosce e (Fanon, 1952). Inoltre, fra le "tecniche mancanti" v’è senza dubbio anche la difficoltà di lavorare con mediatori culturali: figure ancora oggi accolte in modo ambivalente da parte di non pochi operatori (si veda più innanzi).
Se alcuni di tali centri hanno indubbiamente cavalcato la "moda del multiculturale" ma poco contribuito ad una più rigorosa formulazione dei problemi o alla loro soluzione, altri hanno in definitiva contribuito a disseminare nuove conoscenze, nuovi stili di ascolto e nuove pratiche di assistenza. Essi hanno occupato uno spazio vuoto, spesso in virtù di risorse non sempre reperibili nelle istituzioni pubbliche. Anche a questo riguardo è necessario pertanto procedere sulla base di una rigorosa ricerca tanto sull’utenza straniera quanto sulla realtà dell’accoglienza ad essi riservata nei servizi (Ponzio, 2003; Visintin, 2003). Ed è a questo riguardo che deve essere richiamata un’altra questione: è la variabile "razzismo", presente sebbene talvolta misconosciuta tanto nella società quanto nelle pratiche dei servizi.
Diversi autori hanno già analizzato questo aspetto in paesi come la Gran Bretagna (Littlewood e Lipsedge, 1989; Littlewood, 1993), e nel 2003 un numero speciale della rivista "Culture, Medicine & Psychiatry" (The Politics of Science: Culture, Race, Ethnicity, and the Supplement to the Surgeon General's Report on Mental Health, vol. 27, n. 4) riprendeva questo tema a partire dall’ammissione, fatta sulle pagine della rivista dei medici statunitensi ("General Surgeon"), che discriminazioni e forme occulte di razzismo venivano perpetrate nei servizi di salute mentale ai danni di membri di minoranze. Un tale razzismo non si manifesta necessariamente nelle forme dell’esclusione o della violenza ma anche in quelle del paternalismo, dell’incapacità di rivisitare i propri modelli e i propri stili di lavoro, riproponendo spesso stereotipi e pregiudizi (Lucas e Barrett, 1995). Infine, una messe impressionante di dati conferma di questo problema un’ombra particolarmente inquietante, che deve essere tenuta presente inqualsivoglia discorso sulla salute e l’assistenza nelle società multiculturali: i tassi di natimortalità sono fra i neri d’America più del doppio di quelli registrati nella popolazione bianca, il tasso di mortalità per cancro polmonare è fra i neri d’America il doppio della popolazione bianca, quello di cancro alla cervice quattro o cinque volte più altro nella popolazione femminile asiatica che nella popolazione bianca, e in generale i membri delle minoranze denunciano ineguaglianze nei trattamenti sanitari ricevuti. I dati recenti sulle differenze nella carriera e nel successo scolastico dei figli di immigrati in Europa e nel nostro paese confermano un altro profilo di questa persistente ineguaglianza nell’accesso a opportunità di cura, prevenzione o, secondo i casi, istruzione.
Quanto detto sino ad ora si traduce in una consapevolezza: l’utente immigrato affetto da disturbi psicologici può essere accolto e curato efficacemente a condizione di incontrare servizi antropologicamente competenti. Ma la competenza di cui parlo non è solo quella "culturale", l’orientamento di cui si ha bisogno non può cioè limitarsi solo alla "cultura" dell’altro, sebbene questo sia ovviamente indispensabile e preliminare, quanto piuttosto
a) alla totalità del contesto sociale, politico e culturale da cui provengono i cittadini stranieri e dentro cui hanno spesso preso corpo le loro vicende di sofferenza,
b) alle società ospiti dove si sono spesso riprodotte sfide, violenze, incertezze, conflitti e stress influenti nella produzione del disturbo di cui ci prendiamo cura,
c) alla produzione sociale e culturale delle nostre categorie e delle nostre pratiche (PTSD, "Sindrome di Ulisse", EMDR, ADHD ecc.), all’ideologia che le nutre, e alle scelte terapeutiche.
4.2. Ipotesi per una strategia rivolta a costruire servizi di salute mentale antropologicamente competenti. Una possibileagenda (se si può chiamarla così) per far fronte ai problemi evocati può trovare soluzione in alcune strategie che qui mi limito ad evocare, dirette in primo luogo a costruire una diffusa consapevolezza e una larga condivisione di conoscenze, metodi, sensibilità fra gli operatori dei servizi di salute mentale, al cui interno includo anche coloro che operano presso i servizi di neuropsichiatria infantile nonché l’intera rete di servizi e istituzioni con i quali la pratica dell’assistenza e della cura in psichiatria.
1) Ricerca. È urgente promuovere una ricerca sulla realtà dell’assistenza psichiatrica rivolta agli utenti stranieri, sui problemi più spesso riportati, sulle diagnosi e le strategie terapeutiche utilizzate, sulle difficoltà incontrate dagli operatori, sul grado di soddisfazione dei pazienti, sulle ragioni degli insuccessi, sulle eventuali differenze nell’erogazione dell’assistenza sanitaria nei confronti degli utenti autoctoni (sussidi, opportunità di borse lavoro, reperimento di abitazioni ecc.). Le ricerche epidemiologiche su questo tema in Italia sono sorprendentemente rare, anche in ragione delle difficoltà ben note nella ricerca epidemiologica transculturale. Queste informazioni potrebbero utilmente confluire all’interno di un Centro Raccolta Dati del Ministero della Salute.
2) Mediazione culturale ed etno-clinica. I mediatori culturali ricevono attualmente una formazione standard, all’interno della quale sono previste conoscenze molteplici ma solitamente frammentarie su ambiti che oscillano dalla psicologia all’organizzazione del servizio sanitario, dalle leggi sugli stranieri all’antropologia culturale (ma paradossalmente si dimentica di insegnare teoria della traduzione). I risultati sono spesso provvisori o deludenti: poco o nulla viene detto relativamente alle specificità delle vicende che caratterizzano il rischio psicologico negli immigrati, ancor meno sulla peculiarità di un lavoro che mette spesso il mediatore stesso di fronte a conflitti mai considerati o trattati prima dell’incontro con i pazienti, o "rimossi" nel senso psicoanalitico del termine. La mediazione alla quale penso deve prevedere dunque percorsi formativi differenziati secondo i contesti di lavoro del mediatore: il tribunale, la scuola, l’ospedale, la salute mentale sono ambiti che pongono domande diverse, e pertanto sarebbe importante che il mediatore disponga di competenze organiche ma anche più accurate e specifiche di quelle attualmente fornite nei corsi standard. Anche per essi sarebbe inoltre importante prevedere un aggiornamento permanente, ed un lavoro personale di supervisione che consenta di governare le tensioni e la sofferenza derivanti dal confronto con problemi che si riflettono in non pochi casi sulle loro personali biografie. La mediazione etnoclinica d’altronde è ben più che mera traduzione linguistica:
3) Formazione permanente. La domanda del personale sanitario è su questi temi elevatissima. Ma questa formazione non dovrebbe limitarsi ad aggiungere ulteriori contenuti, quanto piuttosto accrescere il grado di consapevolezza critica e addestrare a trattare temi, idiomi, quadri clinici poco comuni nell’esperienza clinica, a insegnare l’utilità di una diversa "semiotica" ma anche a ridurre i problemi di ciò che ho chiamato il "mancato incontro" fra utenti stranieri e servizi di salute mentale. La formazione etnopsichiatrica dovrebbe promuovere pertanto un costante impegno autoriflessivo da parte degli operatori della salute mentale sulle proprie pratiche e sulle politiche della diagnosi, e l’esplorazione (di solito negletta) della ragnatela di ragioni e cause (sociali, politiche, simboliche) che hanno concorso a determinare il disturbo psicologico del cittadino straniero: una ragnatela spesso difficile da vedere e da percorrere all’interno di una clinica che talvolta separa e frammenta anziché congiungere e articolare.
In questo l’esperienza unica ed innovativa della riforma psichiatrica del 1978, considerata la diffusa sensibilità degli operatori verso le molteplici dimensioni e le matrici sociali del disagio psichico, rende il nostro paese un terreno propizio per articolare interventi appropriati che evitino i problemi ricorrenti in altri paesi. La costruzione di un Sito per l’Aggiornamento Permanente su Salute Mentale e Utenti Stranieri presso il Ministero della Sanità, articolato secondo diversi "capitoli di formazione", potrebbe essere un contributo ulteriore alla disseminazione di conoscenze ed esperienze, all’erogazione di consulenze in connessione con Centri italiani e stranieri, e allo sviluppo di reti utili operanti fra le diverse associazioni che già si occupano di utenti stranieri, rifugiati o richiedenti asilo nel gestire situazioni particolarmente complesse.
In questo senso mi sembra legittimo parlare di un’etnopsichiatria critica e comunitaria come la giusta risposta alle perplessità sollevate talvolta nei confronti di modelli o iniziative percepiti come separati o specialistici, ma anche contro una non meno oggettiva "resistenza a cambiare" da parte delle istituzioni.