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Maggio 2013 II – La psicoanalisi per l’Osservatore Romano, il Padre e Telemaco, le dipendenze

6 Giu 13

A cura di Luca Ribolini

Dipendenza e droga. Intervista a Luigi Zoja
di Paolo Calabrò, agoravox.it, 11 maggio 2013
 
Si è passati, negli ultimi trent’anni, dalla “droga per protesta” al consumo trasversale di massa. Com’è accaduto?
Ho cominciato a occuparmi di tossicodipendenza quarant’anni fa, all’epoca della pubblicazione del mio primo libro, Nascere non basta (ripubblicato nel 2003, N.d.R.). Lavoravo in clinica a Zurigo e ci capitavano casi di pazienti gravi che in Italia non erano riusciti a trovare una cura adeguata. Quello che osserviamo oggi è che, nel mondo moderno, le persone sono sempre più tentate di far uso di sostanze che alterino lo stato di coscienza. Non lo definirei tuttavia un problema della droga, quanto piuttosto un problema del mercato, del consumismo, del fatto che mediamente nei Paesi occidentali la popolazione ha un tenore di vita che le permette di spendere denaro per cose non strettamente necessarie. Una quota del bilancio individuale viene stanziata in maniera ormai fissa (e crescente) per i “godimenti”, tra cui compare il consumo di sostanze “stupefacenti” (come le si chiamava un tempo). Questo consumo non è più qualcosa di extra rispetto all’ordinario ma tende sempre più a integrarsi nella vita di tutti i giorni. Oggi viene ritenuto un diritto della persona concedersi una certa quantità di piaceri.
Si arriva alla droga per caso, o perché se ne sente in qualche modo il bisogno?
In realtà, per quanto dicevamo, né l’una né l’altra cosa. Si arriva alla droga come si arriva a qualunque altro tipo di piacere in vendita; la differenza con il passato è che prima i consumatori tendevano a riunirsi in piccoli gruppi e a fare di questa loro attività una specie di segreto; oggi il consumo non ha più quest’aspetto e si configura piuttosto come una specie di “terapia antistress”. Ecco che, in una città come Milano, ad esempio, dove i ritmi di lavoro possono essere molto faticosi e dove si tende spesso a lavorare nei fine settimana ancor più che negli altri giorni (per poter rispettare delle scadenze ecc.), l’uso di cocaina dilaga: perché è innegabile che la cocaina aiuti enormemente a tollerare la fatica. D’altro canto, è difficile parlare di bisogno: la civiltà umana ha vissuto per millenni senza nessuna delle sostanze che conosciamo oggi, eccetto l’alcool; e nessuno ne sentiva il “bisogno”. Si potrebbe parlare di bisogno solo nel contesto consumistico in cui nuovi bisogni vengono indotti dal mercato: la cosiddetta “necessità del superfluo”.
Quanto conta il contesto nell’avvicinarsi alla droga?
Il contesto conta molto. Per quanto certe definizioni di un tempo, rimaste un po’ come slogan, siano ormai desuete (si pensi alla cocaina come “droga dei ricchi”, cosa che non è più vera da tantissimo tempo), resta il fatto che le diverse sostanze hanno ancora un legame con il contesto: la cannabis, o canapa indiana, viene ancora consumata come forma di protesta, mentre la cocaina ad esempio non ha mai avuto questa connotazione; e in effetti le due sostanze tendono a diffondersi in ambienti diversi tra loro (la canapa si ritrova più facilmente in contesti relativamente “alternativi”, la cocaina si ritrova più in ambienti lavorativi).
Ma è veramente possibile condurre una vita da consumatori abituali socialmente integrati? Qual è il prezzo da pagare?
L’uso di droghe non permette di distinguere in maniera netta fra chi è “dentro” e chi è “fuori”: ormai per la varietà e per la diffusione di sostanze diventa difficile categorizzare in maniera così recisa. Quello che si osserva è che esistono certamente modi d’uso delle droghe che risultano compatibili con una vita “normale”: si può prestare attenzione ad assumerne nei fine settimana, ci si può autolimitare in maniera adeguata, e la vita finisce per integrare questa attività fra le altre. Del resto questo non è niente di nuovo: nei Paesi del nord-Europa c’è sempre stata la tradizione (seppur discutibile) dell’abuso di alcol nei fine settimana. L’alcol tuttavia è sempre stato radicato nella cultura europea, mediterranea in particolare: qui si è sempre in qualche modo riusciti a mantenerne l’uso entro certi limiti di tollerabilità (la compatibilità con il lavoro, ad esempio). Ciò che però non riesce ugualmente a tutti: c’è chi non tollera l’alcol, o chi non riesce a trattenersi, e lì l’uso fa presto a trasformarsi in abuso.
Quindi esiste una componente individuale.
Sì, e anche forte, legata in specie a dei fattori organici; non si può far dipendere tutto dalla cultura e dalla psicologia. Diciamocela tutta: il problema, che davvero limita l’uomo in ogni direzione, è la dipendenza in sé. La mancanza di libertà interiore, per cui poi i pensieri del “pensante” non sono attendibili. Non è filosofia astratta, è anche esperienza clinica. Naturalmente la dipendenza da alcool o sostanze è tossica dal punto di vista fisico, mentre quella da TV o da altre persone (la mamma ricattatoria, il capo carismatico) non lo è. Ma questo secondo tipo può essere più mortale ancora. Le overdose di eroina avranno probabilmente ucciso qualche migliaio di europei durante l’ultimo secolo; mentre, a proposito di leader carismatici, Hitler e Stalin da soli sono stati responsabili di decine di milioni di morti in un tempo ben più breve. E comunque dietro alle tossicodipendenze più gravi si annida (non sempre ma molto spesso) una dipendenza nell’infanzia (poi non risolta da adulti) da genitori disfunzionali, anaffettivi o comunque patologici.
E possono esserci danni permanenti alla personalità?
La personalità non subisce quasi mai danni irreversibili. Quella che invece viene danneggiata, nel caso di assunzione di sostanze chimiche, è evidentemente la struttura neuronale del cervello: lì il danno è difficile da quantificare, ma è ben visibile ad esempio negli scompensi del sistema nervoso, del linguaggio, della memoria… è ad esempio il caso, ben noto, del delirium tremens.
Com’è la vita psicologica del tossicodipendente? E com’è invece la vita psicologica di chi ha provato la droga e ha deciso di rinunciarci?
Questa della “tossicodipendenza” è una questione nodale che vorrei affrontare senza mezzi termini. Dicendo subito che sono contrario all’utilizzo di simili etichette (per quanto possano risultare comode in tanti contesti), perché la verità è – come in parte già accennavo – che non è possibile tracciare limiti precisi alla nozione di dipendenza. I fattori in gioco sono troppi: il contesto, appunto; la risposta individuale alla sostanza; la propria capacità personale di integrare l’uso nella vita quotidiana e addirittura di trarne in un certo senso giovamento. C’è che ha bisogno di un bicchiere di vino per tirarsi su, e non per questo perde il controllo (anzi, si sente meglio): si può chiamarlo “tossicodipendente”? O addirittura sostenere che abbia bisogno di una cura disintossicante? È evidente che non è così, anche se l’esempio è un po’ estremo. A un livello un po’ più alto, anche l’uso di sostanze può avere effetti e limiti paragonabili all’esempio precedente. È difficile, se non in casi veramente estremi, parlare di tossicodipendenza. E questo anche per un altro motivo: la tossicodipendenza, a guardarla abbastanza da vicino, appare in tutto simile a ogni altra forma di dipendenza che conosciamo e sperimentiamo oggi (vi accennavamo prima): quella da televisione, ad esempio. E io credo che la televisione, in dosi massicce, faccia molti più danni che una delle sostanze di cui stiamo parlando, in piccole dosi. Ma anche ad esempio nel caso dell’uso continuo ed esteso di tranquillanti: quel caso non si caratterizza come tossicodipendenza, ma ne ha tanti tratti in comune. E nella nostra società sovreccitata pare che questo consumo sia in aumento.
Qual è dunque la soglia oltre la quale poter parlare di tossicodipendenza?
Direi che, fin quando in una persona l’aspetto costruttivo prevale sulla schiavitù, non si possa parlare di tossicodipendenza. Ciò nonostante le tentazioni possano essere forti per quella persona; e per quanto l’uso possa essere abituale.
Ciò nonostante il fatto che la psiche di questi soggetti si ritrovi inevitabilmente modificata dalla sostanza?
Il punto è che questi soggetti sentono la modificazione ottenuta come normale, come adatta, e riescono a continuare a condurre l‘esistenza (ma anche, più banalmente, una cena di lavoro) in un modo che a loro piace e che li porta a star bene anche con gli altri. C’è chi, al contrario, rifiuta del vino a tavola perché avverte quella alterazione minima con disagio. Insomma, la questione è troppo relativa al soggetto per farne una classificazione tanto generale. Questo non significa, al contrario, che la droga faccia bene: ho conosciuto molti forti consumatori che hanno smesso completamente perché l’eccesso era diventato controproducente. Non esistono limiti assoluti.
Però esistono droghe che conducono direttamente all’“anormalità”: gli allucinogeni, o l’eroina.
Certo, ma non sottovaluterei l’effetto distensivo e pacificante che queste sostanze offrono prima di allucinare (un caso lampante è quello dell’LSD25, che conosco approfonditamente per averlo studiato a lungo); perché è quello il vero motivo per cui si assumono le sostanze. È difficile trovare chi si faccia un acido per il gusto di allucinare. Star meglio psicologicamente è sempre l’obiettivo fondamentale dell’assunzione di droga.
Insomma: non possiamo parlare di normalità e di anormalità in bianco e nero.
È un po’ il succo delle mie letture di Jung, che quasi subito riunciò a parlare di malattia mentale e di “guarigione” psichica. Siamo al solito bivio fra la psicanalisi e la medicina: la seconda si basa sull’idea di guarigione (e quindi di successo della terapia) come “restituzione allo stato anteriore”; mentre la prima ritiene che il successo della terapia consista proprio nell’aver trainato il soggetto al di là di quello stato anteriore che aveva generato il disagio mentale. È la trasformazione e la crescita contro la conservazione; anche se non c’è un vero e proprio scontro, ci troviamo di fronte a due idee piuttosto incompatibili. È Jung a compiere questo grande scarto: tra l’idea di guarigione e quella di “individuazione”, cioè riuscire a scoprire se stessi per poterlo finalmente essere: nozione se vogliamo già nota all’antichità classica, che ne faceva il fine della formazione giovanile, la paideia. Scoprire e vivere al meglio i propri potenziali, questo è l’obiettivo dell’analisi junghiana; che non è incompatibile in linea di principio con un’assunzione moderata e controllata di sostanze stupefacenti.
Un invito alla consapevolezza, a 360 gradi.
L’esistenza è degna (e in certi casi addirittura possibile) solo quando è consapevole. Il pensiero critico e libero è più importante – anche se meno rassicurante – delle categorie “chiare e distinte” che alla fin fine non si attagliano alla realtà. Mantenere una mente aperta è l’unico modo per comprendere il nostro mondo moderno. E per cercare soluzioni ai tanti problemi che ha.
http://www.agoravox.it/Dipendenza-e-droga-Intervista-a.html

Un fallimento di enorme successo. Fondata sull’utopia e travestita da teorie scientifiche false, la rivoluzione sessuale è ancora un mito incontrastato della modernità occidentale  
di Lucetta Scaraffia, osservatoreromano.va, 12 maggio 2013

Ho incontrato Freud per la prima volta a 19 anni, agli albori della mia vita universitaria, nella biblioteca civica Sormani di Milano, perché l’esame di filosofia morale prevedeva la lettura dei Tre saggi sulla sessualità di Freud. Questa lettura fu per me sconvolgente: non solo per lo spregiudicato stile di descrizione di organi e di rapporti sessuali, ma soprattutto per la tesi che sottendeva, cioè che la repressione sessuale, in atto fin dall’infanzia, arrecasse danni psichici e provocasse nevrosi. Freud offriva risposte a domande che io non mi ero mai posta. Anche il libro di Cantoni insisteva, se ben ricordo, sulla naturale libertà sessuale dei primitivi, contrapposta alla morale repressiva in cui noi occidentali di matrice cristiana eravamo costretti a vivere. Non lo sapevo, ma mi ero scontrata, priva di ogni preparazione, con la rivoluzione che avrebbe in pochi anni cambiato tutte le nostre vite, nutrendo la rivolta studentesca del 1968 e la rivoluzione femminista: la rivoluzione sessuale.  Sono state infatti proprio le scienze umane — e in particolare psicologia/psicanalisi e antropologia — a fornire le giustificazioni teoriche per un cambiamento che era nell’aria da decenni, ma non si decideva a decollare realmente. E quei testi erano così autorevoli da essere messi in programma d’esame in quell’autunno del 1967.
Il politicamente corretto che ancora impera su questi argomenti impedisce di cogliere il fallimento delle promesse, la contraddittorietà degli assunti, la fallacia dei libri fondativi. Soprattutto la persistenza del mito della “naturalità” da riconquistare impedisce di vedere come il rapporto sessuale, sganciato dalla riproduzione, liberato da ogni regola che ne delimiti la funzione sociale, sia diventato un consumo come un altro. La libertà di godere si confonde con la libertà di comprare, e il libero amore sollecita acquisti di biancheria intima, frequentazione di istituti di bellezza e palestre, turismo e serate in locali notturni, mentre il turismo sessuale è diventato uno dei principali business del mondo contemporaneo: sta a testimoniare, come la prostituzione a casa nostra, che la liberazione sessuale non ha mantenuto nessuna delle sue promesse di felicità.
Anzi, in questo modo ha aggravato lo sfruttamento fra esseri umani. Con risultati di peggioramento delle condizioni di vita, come lucidamente scrive lo scrittore francese Houellebecq: «Nelle nostre società, il sesso rappresenta un vero e proprio secondo sistema di differenziazione, del tutto indipendente dal denaro; e si comporta come un sistema di differenziazione altrettanto impietoso. Gli effetti di questi due sistemi sono del resto strettamente equivalenti. Così come il liberalismo economico senza freni, e per ragioni analoghe, il liberalismo sessuale produce dei fenomeni di pauperizzazione assoluta. Alcuni fanno l’amore ogni giorno; altri cinque o sei volte nella loro vita, o mai. Alcuni fanno l’amore con decine di donne; altri con nessuna. È ciò che si chiama “legge di mercato”. In un sistema economico in cui il licenziamento è proibito, ognuno riesce più o meno a trovare il suo posto. In un sistema sessuale in cui l’adulterio è proibito, ognuno riesce più o meno a trovare il suo compagno di letto. In un sistema economico perfettamente liberale, alcuni accumulano fortune considerevoli; altri languono nella disoccupazione e nella miseria. In un sistema sessuale perfettamente liberale, alcuni hanno una vita erotica varia ed eccitante, altri sono ridotti alla masturbazione e alla solitudine».
Ma queste cose non si possono dire a voce alta. Così come non si può dire che la richiesta di matrimonio e filiazione da parte dei gay non appartiene al regno dei diritti, cioè a quell’allargamento dei diritti dell’individuo che, nella nostra società, sembra segnare il cammino luminoso del progresso umano. È invece da ascriversi alle conseguenze della rivoluzione sessuale, una rivoluzione fondata sull’utopia e travestita da teorie scientifiche false, una rivoluzione fallita, ma che è ancora così potente da imporre il silenzio sul suo fallimento.
http://www.osservatoreromano.va/portal/dt?JSPTabContainer.setSelected=JSPTabContainer%2FDetail&last=false=&path=/news/cultura/2013/108q13-Fondata-sull-utopia-e-travestita-da-teorie-.html&title=Un%20fallimento%20di%20enorme%20successo&locale=it

Intervista a Recalcati: “I padri e i figli sul lettino dello psicanalista” 
di Annarita Briganti, repubblica.it, 12 maggio 2013

Padri e figli sul lettino di uno dei più famosi psicoanalisti. Massimo Recalcati (Milano, 1959) nel suo nuovo saggio Il complesso di Telemaco (Feltrinelli) fa il punto sul confronto/scontro generazionale e scala le classifiche. Il suo libro è la punta di diamante del boom della paternità nella letteratura attuale. Da Contro i papà. Come noi italiani abbiamo rovinato i nostri figli di Antonio Polito ai candidati al Premio Strega Le colpe dei padri di Alessandro Perissinotto e Figli dello stesso padre di Romana Petri. Con il precedente illustre di Pastorale americana di Philip Roth.
Dottor Recalcati, se il padre è evaporato, per usare l’espressione del suo maestro Lacan, perché se ne parla tanto?
«Questa mancanza genera un’inedita e pressante domanda di riferimenti maschili. Non significa rimpiangere il mito del padre-padrone, fortunatamente scaduto. La vecchia generazione ha lasciato un mondo impazzito, un’economia senza leggi, una terra sfiancata. I genitori parlano e vestono come i figli, giocano con gli stessi gadget. I ruoli si confondono. Eppure è ancora possibile un’eredità autenticamente generativa».
Per recuperare i padri dobbiamo ripartire dai figli?
«Non funziona più il figlio-Edipo, che uccide il padre autoritario e possiede sessualmente la madre. Non hanno più senso i movimenti del ‘ 68 e del ‘ 77, che consideravano i padri come ostacoli da abbattere, antagonisti a cui fare la pelle. Non funziona neanche il figlio-Narciso, prodotto tipico dei nostri giorni. Un vampiro che vive nell’apatia frivola, innamorato della sua immagine, padrone della famiglia».
Il nuovo modello che propone fin dal titolo è Telemaco, l’ “erede giusto”, l’anti-bamboccione per eccellenza.
«Nell’Odissea di Omero Telemaco è il figlio di Ulisse, che lo abbandona per andare alla guerra di Troia. Tornerà dopo vent’anni. Telemaco non l’aspetta con le mani in mano, non si lamenta della sua assenza, non l’accusa di tutte le colpe. Difende la famiglia dai Proci. Va a cercarlo in mare. Si assume le sue responsabilità. Freud citava Goethe: ‘Ciò che hai ereditato dai padri, riconquistalo se vuoi possederlo davvero’ “.
I padri cosa devono fare per evitare la dissoluzione familiare?
«I peggiori sono quelli che si propongono come educatori infallibili. I padri migliori sono un po’ anche madri, consapevoli dei propri limiti ma pronti a prendersi cura dei figli qualsiasi cosa succeda. Testimoni del senso della vita con le loro azioni e poi capaci di lasciarli liberi nel viaggio pericoloso che è l’eredità. Papa Bergoglio che si genuflette di fronte al suo popolo e il Presidente Napolitano che accetta di prolungare il mandato sono esempi nitidi di uno stile della paternità (pubblica) che non coincide più con il potere del bastone».
Nel bellissimo Epilogo Leggere il dolore sulle foglie” si racconta a cuore aperto. Che figlio è stato?
«Ho avuto genitori di origini umili, senza istruzione. Non abbiamo mai fatto una vacanza, non mi parlavano, erano troppo impegnati a lavorare. Alla fine degli anni Settanta mi ritirai dalla scuola per dedicarmi anima e corpo alla militanza politica. Intanto mio padre, floricoltore, si spaccava la schiena nelle serre. Lui e mia madre hanno costruito un piccolo regno e hanno saputo lasciarmi andare. Loro, mia moglie e i miei figli, avuti contro la legge della medicina senza ricorrere ad aiuti, mi hanno insegnato che col potere del desiderio si spostano le montagne».
http://ricerca.gelocal.it/repubblica/archivio/repubblica/2013/05/12/padri-figli-sul-lettino-dello-psicanalista.html 

Video: Governo in abbazia, narcisismo di squadra. Perché il governo si è chiuso in abbazia
La spiegazione dello psicanalista Massimo Recalcati, video.repubblica, 13 maggio 2013 

 

Video: Massimo Recalcati ospite a Le storie – Diario italiano, di Corrado Augias, rai.tv, 15 maggio 2013
http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-da0cb79c-3b43-4ef7-86f7-e79e0719ac75.html

(Fonte: http://rassegnaflp.wordpress.com)

 

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