DIALOGHI SISTEMICI
Conversazioni a partire dalla clinica ma non solo, in cerca di differenze che fanno differenze.
di Massimo Giuliani

Potere, metafore e lupini

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22 novembre, 2013 - 11:24
di Massimo Giuliani

Lo scorso 21 giugno 2013 ero ad Asolo, alla prima giornata del laboratorio residenziale “Sostare in territori di confine”, organizzato dal Servizio di Alcologia dell'Ulss 8 con i locali ACAT e ARCAT. Mi era stato chiesto di parlare di “Sistema gerarchico non piramidale: disordine, potere, autoorganizzazione”.
Ecco come ho affrontato la questione.

Le conseguenze della metafora

Ho ascoltato da chi mi ha preceduto il riassunto del convegno precedente e vi ho trovato vari riferimenti al concetto di intelligenza collettiva. Mi pare un buon punto da cui partire per un contributo a una riflessione su cittadinanza attiva, reti, cooperazione. Dell’intelligenza collettiva ho letto la prima volta da un filosofo francese a cui sono grato perché mi ha aiutato molto a comprendere il virtuale e la rete. Si tratta di Pierre Lévy (1994; ne parlo anche in Giuliani, 2012).
Un’intelligenza collettiva è una mente sovraindividuale, il prodotto di persone che collaborano, che ascoltano e si ascoltano. Nessuno combatte per sé, nessuno prevale sugli altri.
Si tratta di un concetto che ci risulta non così ovvio: per qualche ragione, le metafore della lotta ci suonano più familiari di quelle della collaborazione. I nostri assunti sulle relazioni prendono forma per lo più dalla centralità della competizione, a dispetto del ruolo che pure la cooperazione ha avuto nell’evoluzione. Racconta Robert B. Livingstone nella sua conversazione col Dalai Lama (1992) che i botanici, condizionati anch’essi da questa premessa, battezzarono lupino un fiore azzurro che cresceva spontaneamente su pendici montane che non ospitavano altri fiori. Lupino, dunque, per via della sua presunta natura di lupo solitario, che teneva lontane le altre piante contendendo loro il nutrimento. Ci vollero anni per comprendere che quel fiore aveva sviluppato la capacità di crescere in luoghi poveri di minerali, lasciando alla propria morte una concentrazione di sali che permetteva ad altre piante più deboli di svilupparsi nello stesso posto. La metafora della competizione aveva ispirato una doppia calunnia: ai danni del lupino e del lupo stesso, anch’esso in realtà più incline alla cooperazione di quanto gli riconosca il luogo comune.
Le metafore non sono soltanto un modo più o meno creativo di spiegare delle cose: sono immagini attraverso le quali concettualizziamo e comprendiamo il mondo. Utilizziamo l’esperienza che abbiamo delle “cose”, di ciò che si vede, si tocca, si sente, per comprendere quello che non è una “cosa”, non si vede, non si tocca, non si sente. Così comprendiamo le relazioni (che “cose” non sono) attraverso la nostra esperienza del mondo fisico. E nel mondo fisico le “cose” occupano uno spazio, hanno un peso, una durezza eccetera. Sono governate da forze e urti.
Quando uno dice di una determinata persona: “è nel mio cuore”, usa una metafora spaziale. Come se quella persona fosse un contenuto e il cuore il contenitore. Ma nel mondo fisico i contenitori hanno una capienza finita e piuttosto definibile; nel mondo fisico i contenuti hanno un volume; se in un contenitore c’è una cosa non c’è spazio per un’altra. Se si divide un bene fisico fra più persone, ciascuna ne godrà per una parte, o per un tempo parziale. Ecco, il mondo non fisico non funziona così: per esempio quello che si condivide in realtà si moltiplica. Come dice quella vecchia canzone dei boy scout, se io dò un’idea a te e tu dai un’idea a me, non solo nessuno dei due ci rimette nulla, ma soprattutto avremo entrambi due idee.
Né c’è bisogno di ricordare che pensare in termini di forza invece che di cooperazione è spesso meno utile ad affrontare i problemi fra esseri umani, e produce più problemi di quanti ne risolva.
Ma c’è un altro piano di complessità nella questione: non solo se sia utile e conveniente pensare in termini di potere, ma se abbia senso. Gregory Bateson sosteneva che l’idea di potere fosse niente di più che il prodotto di quella fallace trasposizione di concetti dal mondo fisico a quello degli esseri viventi. L’idea del potere unilaterale presuppone che sia possibile il controllo, e il controllo presuppone una separatezza fra chi controlla e chi è controllato: che è una follia epistemologica, giacché qualunque ipotesi di separatezza del sistema più grande (e dunque di attribuzione di potere a una delle sue parti) è un non-sense. Un errore potente e duro a morire, che facilmente si autoconvalida, ma tuttavia un errore.

Il potere logora?

Bateson (1976) correggeva il detto per il quale il potere corrompe, affermando che non il potere, ma l’idea del potere corrompe. Noi, che della questione ricordiamo una vecchia (e un po’ più cinica) variazione sul tema, potremmo dire che in realtà il potere non logora né chi ce l’ha, né chi non ce l’ha, ma chi crede di averlo.
Per guardare al campo nel quale lavoro, l’intento di esercitare un potere, seppure a fin di bene, ha segnato alcune fasi della storia della terapia della famiglia. La base della terapia strategica (non a caso: in greco strategòs è il generale dell’esercito) era la convinzione che il terapeuta potesse controllare il cambiamento del sistema patologico attraverso strategie terapeutiche tese a creare un corto circuito logico intorno al sintomo. La terapia strutturale (derivata in parte dalla teoria dell’organizzazione) sosteneva un intervento normativo sui livelli gerarchici e i confini interni della famiglia: il sistema familiare disfunzionale era quello in cui i confini generazionali non erano rispettate. Ma, come avrebbe osservato più tardi, molto appropriatamente, Lynn Hoffman (1990), “le famiglie non sono strutturate necessariamente come l’esercito o la Chiesa più di quanto un terapeuta desideri essere un generale o un papa”.
La terapia sistemica dei primi tempi nasceva da un disciplina trasversale alle discipline scientifiche, la cibernetica. Cibernetica, dal greco (ancora!) kibernès, il timoniere. La cibernetica, dunque, come pratica di condurre la nave e dirigerne la traiettoria.
Non era ancora chiaro quello che fu lampante solo qualche tempo dopo: e cioè che il timoniere, nel suo sforzo di governare l’imbarcazione, è egli stesso soggetto alla forza dei flutti che si oppone alla nave. Il timoniere è dentro la nave, dipende dai suoi scuotimenti, ne segue le oscillazioni. È condizionato dalla sua sorte almeno quanto crede di condizionarla. Altro che potere unilaterale, altro che controllo.
Nacque così quel filone che avremmo chiamato “cibernetica del secondo ordine”, cioè la cibernetica del sistema che osserva il sistema osservato. Perché il secondo non esiste senza il primo, e questo è tutt’altro che esterno a quello. Con tanti saluti non solo al potere dell’osservatore/terapeuta, ma anche alla sua presunta oggettività.
Gli approfondimenti successivi approdarono a un’ulteriore conclusione tale da mettere in imbarazzo quanti pensassero ancora alla terapia come l’arte di cambiare il prossimo: e cioè che siamo sì connessi, che siamo certamente in una rete di influenze reciproche, ma che siamo anche sistemi chiusi e autonomi, entità complesse autoreferenti che costruiscono da sé la propria identità. Bradford Keeney illustra molto bene una conseguenza di questa fatto:

“Malgrado l’organizzazione di un sistema autonomo sia chiusa, possiamo interagire in numerosi modi col sistema nella sua totalità. Un osservatore, così come un clinico, può interagire con un sistema toccandolo, gettando cose contro di esso (...) Queste interazioni costituiscono delle perturbazioni alla stabilità del sistema intero, che, in risposta, compenserà o non compenserà”. (Keeney, 1983)

Dunque certamente abbiamo la facoltà di influenzare un sistema; ma in che modo esso utilizzerà la nostra perturbazione, cosa quel sistema, diverso da qualunque altro, deciderà di fare a compensazione dello squilibrio indotto, su questo non abbiamo alcuna voce in capitolo. Se così stanno le cose, la pretesa di poter controllare il comportamento del prossimo, o anche solo di prevederlo, appare sempre più distante dalla realtà delle cose.
È interessante notare come, mentre nello studio dei sistemi si faceva avanti questa consapevolezza, in molti altri campi dell’attività umana si sentisse il bisogno di sostituire ai tradizionali modelli verticali e piramidali delle relazioni una nuova metafora orizzontale e reticolare (e abbiamo detto all’inizio che una metafora ha delle conseguenze sul modo in cui pensiamo la realtà). Nel campo della critica letteraria il decostruzionismo si opponeva all’idea del critico “esperto” come unico soggetto titolato a scoprire la struttura nascosta dell’opera letteraria (Hoffman 1990, cit.). Nel campo delle professioni di cura si discuteva il ruolo esclusivo di esperto del professionista (Anderson e Goolishian, 1992), nel campo della comunicazione il web si preparava a introdurre un modello di comunicazione “da molti a molti” accanto a quello “da uno a molti” tradizionalmente dominante nei media di massa (Giuliani e Nascimbene cit., 2009, e Giuliani cit., 2012).

Il mondo piccolo. E orizzontale

Le nuove possibilità di acquisire conoscenza hanno riconfigurato in maniera profonda e irreversibile il nostro rapporto con le autorità, almeno quelle culturali e dell’informazione. Uno dei più utilizzati strumenti di aggregazione di sapere oggi è Wikipedia, un’enciclopedia compilata dagli stessi utenti, che investono la propria competenza in una impresa di cui sono utilizzatori essi stessi insieme a un enorme numero di navigatori della rete.
Il mondo diventa sempre più piccolo e potenzialmente abbiamo la possibilità di raggiungere qualunque altro individuo del pianeta in un numero esiguo di passaggi: la teoria dei sei gradi di separazione (secondo la quale ciascuno di noi è connesso a qualunque altro individuo attraverso un numero massimo di cinque conoscenti intermedi; Barabási, 2002) oggi appare già datata: i social network fanno scendere il numero medio di passaggi necessari a 3,9 e probabilmente mentre lo cito è già un numero sovrastimato.
Non solo. Nel “mondo piccolo” e orizzontale in cui siamo così altamente interconnessi, quando uno ha il “potere” non ce l’ha solo per sé. Come è possibile? Che razza di potere paradossale è quello che si condivide con gli altri? La realtà è che — a proposito di paradossi — se è vero che la rete è così democratica come ci piace pensare, è proprio perché i suoi “nodi” non sono per niente tutti uguali! Nella grande rete molti nodi hanno un numero piccolo o medio di connessioni. Alcuni ne hanno un numero alto, pochi altissimo. Avete presente Facebook? Se avete dieci contatti, probabilmente potete godere — a vostra insaputa magari — di un numero ragguardevole di potenziali connessioni in virtù del vostro amico (anche uno su quei dieci) che ne ha alcune centinaia, o addirittura migliaia. E così ogni singolo contatto in più di un vostro amico aumenta esponenzialmente il vostro grado di connessione.
Paradossalmente i nodi più facili da raggiungere, proprio per via delle loro fittissime connessioni con la rete, sono in teoria quelli che ci appaiono irraggiungibili: il Presidente degli Stati Uniti, o il vostro cantante preferito, o l’autore di quel libro di successo. Questi non li trovate più in cima a una piramide alla cui base ci siete voi: sono proprio accanto a voi, è sufficiente guardare un po’ più in là. E proprio grazie al tramite di questi nodi altamente interconnessi (gli hub) i vostri gradi di separazione dal resto della rete si abbassano sempre più.
Se nella rete la vera ricchezza è l’interconnessione (vi risulterà evidente quando cercherete un lavoro o semplicemente la ricetta della paella), la ricchezza di pochi è dunque la ricchezza di tutti.
È una dimensione in cui le cose accadono in modo totalmente controintuitivo. Se nella vita di tutti i giorni, nel lavoro o in una coda alla posta, siamo portati a pensare che il nostro vantaggio stia nell’imporci sul prossimo, la rete “premia” invece la collaborazione e l’amicizia ben più della competizione. Da qualche anno faccio corsi per gli psicologi che intendono aprire nel web uno spazio di informazione o di promozione della propria attività. Mi capita che mi rivolgano domande tipo: «ma se metto un link al sito del mio collega non rischio di fargli pubblicità?». Ci sono colleghi che citano altri professionisti, che li intervistano, che usano il proprio spazio web per instaurare una conversazione. E così non solo riempiono il proprio sito di contenuti interessanti, attirando attenzione su di sé, ma diventano i signori di Google. I motori di ricerca privilegiano i nodi interconnessi, e snobbano i binari morti. In rete non facciamo strategie di marketing: semplicemente, comunichiamo. E più comunichiamo, più siamo aperti e disponibili, più esistiamo.
Per concludere, pensare in termini di rete anziché di piramide ci induce a rivedere le metafore attraverso le quali siamo abituati a concettualizzare le nostre relazioni. Dove prima pensavamo a un “centro”, ora dobbiamo contemplare un numero infinito di “nodi” (la rete è multicentrica). Dove prima avevamo familiarità con il “trasmettere”, oggi pensiamo al “condividere”, che è meno lineare e più complesso. Il modo in cui si sta riconfigurando la nostra idea di relazione di cura ci suggerisce di sostituire alle vecchie pratiche esperte qualcosa che assomigli di più a pratiche collaborative. E le nostre conoscenze dei modi in cui i sistemi si auto-organizzano spontaneamente ci suggeriscono — sempre più ci suggeriranno, nel campo delle organizzazioni — di pensare che oltre a quella gerarchica esiste una modalità eterarchica di distribuzione della responsabilità (von Foerster e Pörksen, 1998).
Grazie a tutti.

Bibliografia

  • Anderson H., Goolishian H. (1992), Il  cliente è l'esperto: il non sapere come approccio terapeutico, in Mc Namee, Gergen K. (1992), La terapia come costruzione sociale, Franco Angeli, Milano, 1998.
  • Barabási, A.-L. (2002), Link. La scienza delle reti. Einaudi, Torino, 2004.
  • Bateson, G. (1976), Verso un’ecologia della mente. Adelphi, Milano.
  • von Foerster, H. e Pörksen, B. (1998), La verità è l’invenzione di un bugiardo. Colloqui per scettici. Meltemi, Roma, 2001.
  • Giuliani, M. e Nascimbene, F. (2009), La terapia come ipertesto. Antigone Edizioni, Torino.
  • Giuliani, M. (2012), Il primo terremoto di Internet. L’Aquila: blog, social network, narrazioni del trauma nello show della “ricostruzione”. Su amazon.it.
  • Hoffman, L. (1990), “Constructing realities: An art of lenses”. In Family Process (29, 1-12). Trad. di Giuliani, M. e Valle, A. sul sito InfoSistemica.
  • Keeney, B. (1983), L’estetica del cambiamento. Astrolabio, Roma, 1985.
  • Lévy, P. (1994), L’intelligenza collettiva. Per un’antropologia del cyberspazio. Feltrinelli, Milano, 2002.
  • Livingstone, R. B. (1992), “Sviluppo del cervello umano”. In Hayward, J. W. e Varela, F. J., Ponti sottili. Conversazioni del Dalai Lama con i grandi scienziati dell’Occidente sulla natura e i poteri della mente. Neri Pozza Editore, Vicenza.
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