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ISOLE CHE PRIMA NON C’ERANO

26 Gen 14

A cura di Gianni Guasto

Molte volte, durante il lavoro psicoterapeutico, mi è capitato di incontrare nei sogni, nelle fantasie, nei ricordi di un altro, un "trapianto estraneo", cioè un "oggetto" incistato e di provenienza esterna.

Si tratta sempre di residui di esperienze traumatiche che persistono, incapsulati e disomogenei rispetto alle emozioni autoctone, nella mente di chi ha subito una grave intrusione, che rimane incapace di farvi fronte come di liberarsene. Quasi sempre, si tratta di esperienze che non possono essere totalmente dimenticate né compiutamente ricordate. Rimangono lì, come antiche schegge di legno conficcate sotto pelle, tenacemente avviluppate dai tessuti circostanti che le sequestrano per impedire loro di procedere nel cammino distruttivo che hanno intrapreso. Spesso sono ancora molto dolorose, e rendono la circolazione del sangue, delle sostanze nutritive (e, nel nostro caso, dei pensieri) impossibile o comunque molto tortuosa o paralizzante.

Ogni volta che ciò mi è capitato, mi sono trovato immerso in una rotta non prevista dalle carte nautiche consegnatemi in dote dai Maestri di navigazione, dai quali avevo appreso a muovermi lungo percorsi sicuri e per vie ampiamente sperimentate. Ma le isole sconosciute possono essere state dimenticate da cartografi troppo distratti o ignoranti, oppure essere piovute dal cielo come meteoriti sprofondate nel mare e poi riemerse come atolli spinti da imprevedibili movimenti tellurici.

Spesso, incontrando persone che avevano ricevuto dolorose pressioni dai loro genitori o dai loro partner, sono stato colto dalla tentazione di offrire loro una soluzione interpretativa del conflitto che, almeno presumibilmente, doveva aver dato avvio all'azione invasiva dell'aggressore, ma non ero mai andato oltre, per un improvviso senso di inadeguatezza che seguiva a quell'idea, troppo difforme da quanto mi era stato insegnato.

Fin dalla giovinezza, infatti, avevo imparato che la psicoanalisi non può essere predicata da un pulpito, né le sue interpretazioni diventare oggetto di una pedagogia stantia e approssimativa, o di ingenui slogan pubblicitari. Dire a qualcuno come si sarebbero dovute interpretare le emozioni di qualcun altro che gli stava vicino e che lo infastidiva sarebbe stato non soltanto scorretto a causa dell'assenza dell'interessato, ma anche inutilmente declamatorio. No, una tale strategia sarebbe potuta scaturire soltanto da chi avesse un'infarinatura superficiale di psicoanalisi, non ne avesse alcuna esperienza, e volesse vendere idee farlocche a un qualsiasi prezzo: una banale e disonesta attività commerciale, insomma.

Eppure, nonostante questa tranquilla consapevolezza, quella tentazione tornava a ripresentarsi di tanto in tanto. Finché l'altra sera, è accaduto qualcosa che mi ha fatto pensare e vedere il problema sotto un altro aspetto.

È accaduto che Guia, una donna di quarant'anni laureata in legge che occupa un ruolo di un certo rilievo in una multinazionale, mi abbia raccontato il seguente episodio: "un giorno, quando ero alle scuole elementari, mio padre si avvicinò a me mentre ero intenta ai compiti di aritmetica, e mi chiese che cosa stessi facendo. 'Sto tentando di fare le divisioni', risposi. 'Ma continuo a non capirne la procedura'.

A quelle parole, mio padre (che non ha mai ottenuto neppure il diploma di terza media) si infuriò: 'devi capirla', disse, 'assolutamente! Se entro un'ora non avrai terminato i compiti e bene, non mangerai!'. Io rimasi annichilita. Non ricordo assolutamente che cosa sia accaduto dopo".

Dire "ti ordino di  comprendere", ho commentato laconicamente, è lo stesso che dire "ti ordino di essere felice". Oltre non sono andato, ma mi è tornata la voglia di indagare quel senso di rabbiosa impotenza che aveva colto l'uomo di sorpresa.

Più tardi, non smettevo di pensare al senso di impotenza di chi si trova di fronte all'esperienza del non capire, e a quante volte una persona priva di cultura possa sentirsi angosciata di fronte all'ignoto che per chi non ha studiato può moltiplicarsi a dismisura e assumere forme e dimensioni inquietanti o addirittura spaventose.  Per questo le reazioni possibili possono variare dalla diffidenza paranoide verso chi sa (che in genere viene trattato come fosse un ladro di conoscenze) e verso ciò che si potrebbe sapere, oppure attraverso la svalutazione di tutto ciò che è cultura. E gli esempi storici di intolleranza verso i prodotti dell'intelligenza sarebbero innumerevoli.

 

Ma al di là di questi pensieri che ben poco aiuto avrebbero potuto offrire a Guia, che aveva soltanto il desiderio di rendermi partecipe di un sentimento di atterrita impotenza che non aveva mai potuto condividere prima con nessuno, una questione di metodo si è affacciata alla mia mente liberando la mia curiosità imprigionata da un eccesso di norme disciplinari ("igieniche" ero sul punto di scrivere) apprese durante gli anni della formazione.

Pochi giorni prima, avevo partecipato a un seminario con Carlo Bonomi, uno storico della psicoanalisi che sta compiendo uno sforzo ragguardevole per esplorare le origini di tale disciplina scientifica, attraverso tutto ciò che è possibile comprendere dei misteriosi fantasmi e delle angosce che agitavano Freud e i suoi seguaci. In particolare, Bonomi si sofferma sulla complessa relazione fra Freud e Ferenczi, caratterizzata dall'autoritarismo del primo in conflitto con il bisogno di dipendenza del secondo e con la "scapestrata" (Haynal) genialità di quest'ultimo, che, se da un lato gli faceva germogliare continuamente idee nuove, dall'altro non lo proteggeva dalla paura di disobbedire al Maestro. Per provare a superare questo grave handicap, Ferenczi tentò varie strade: dall'autoanalisi, all'analisi con Freud, a un lungo percorso introspettivo condotto mediante la corrispondenza con il Maestro, fino al progetto di un'"analisi reciproca"  (il primo, a cui ne sarebbero seguito altri) che avrebbe dovuto vedere lui e Freud messi su un piano di parità, e in cerca di una reciproca trasparenza: un'idea che, per quei tempi non era neppure troppo balzana dato che, complici la novità della disciplina, la scarsa disponibilità di analisti e l'imprecisione di regole ancora non codificate, l'abitudine di interpretarsi, fra colleghi, i sogni o addirittura di analizzarsi a vicenda, era largamente praticata. 

In questo cammino complesso e doloroso, Ferenczi, tentò, secondo Bonomi, di lottare contro un "corpo estraneo" eterogeno, cioè appartenente alla conflittualità di Freud, un "oggetto" mentale altrui, spinoso, urticante, doloroso, con il quale Ferenczi fu costretto a confrontarsi per lunghi anni,  pur non essendo "roba sua", in quanto apparteneva alla conflittualità nevrotica del sia pur illustre interlocutore.

L'individuazione del "corpo estraneo" ovvero del nucleo conflittuale di Freud che entrò in collisione con la fragile autostima di Ferenczi, determinandone per molti anni la sottomissione, è l'oggetto della ricerca di Bonomi. Ferenczi non ne venne mai a capo, ma il suo lungo e doloroso tirocinio gli permise di individuare alcune strategie fondamentali che i bambini vittime dell'invadenza psicologica distruttiva degli adulti mettono in atto per proteggersi e padroneggiare ciò che li tiranneggia e di cui essi non riescono a venire a capo.

Fra queste vi è la strategia del "poppante saggio", ovvero del bambino che diventa "psicologo" dell'adulto, affinando inconsciamente la propria sensibilità e il proprio acume introspettivo, per tentare di comprendere o almeno di prevedere le mosse di un genitore folle o gravemente disturbato, e per non dover soccombere continuamente alla tentazione di attribuire a se stesso l'origine di tutti i disfunzionamenti familiari la cui natura resta incomprensibile alla sua mente.

A causa di difficoltà di questo tipo, l'infanzia di Guia ha terribilmente sofferto, ma la sua strategia di resistenza  si è come impantanata a metà del guado: Guia è allo stesso tempo una donna di valore professionalmente dotata, e una figlia che patisce l'autoaccusa di trascurare i propri genitori ormai anziani, mentre lei, per ragioni di lavoro, vive in una città neppure troppo lontana da loro. Ma questo senso di colpa altro non è che il tentativo mal riuscito di dare un senso alla fonte di angoscia che, durante l'infanzia, ha fatto sentire Guia atterrita e completamente sola. Così che le difficoltà del padre sono trasferite in lei, trasformandosi, a scapito di una notevole intelligenza e di una raffinata preparazione culturale (Guia parla quattro lingue), in un paralizzante senso di inadeguatezza e di "ignoranza", che oggi emerge in forma di preoccupante insicurezza.

Riflettendo su tutto questo insieme di cose, mi sono chiesto se non sarebbe terapeutico favorire la funzionalità del "poppante saggio" (wise baby), per consentire ai nostri pazienti di fronteggiare i corpi estranei eterogeni trapiantati nella propria mente. Occorre aiutarli a uscire dal circolo vizioso della colpa e della depressione che genera ulteriore sentimento di inadeguatezza. Perché, nonostante i buoni studi e i successi universitari, non è assolutamente detto che Guia non si senta ancora interiormente colpevole per essere incapace di comprendere il meccanismo delle divisioni. Perché l'Inconscio non conosce il Tempo, e perché la rabbiosa angoscia ereditata dal padre la costringe ancora a guardare ai propri successi scolastici e professionali come se fossero sempre insufficienti, e in qualche modo "illegittimi".

Forse solo guardando il padre in profondità come chi sia in grado di individuare il conflitto nell'uomo, Guia potrà sentirsene superiore, e, per far questo, io, suo psicoterapeuta, dovrei trasformarmi, almeno per un momento, in un "supervisore", in un modo lontanamente somigliante al lavoro che faccio con gli allievi terapeuti, che mi portano i loro casi clinici perché li aiuti a comprenderli. 

In fondo, lo ha scritto anche Winnicott, commentando un lavoro di Lacan nel quale il Francese attribuiva allo "stadio in cui il bambino si guarda allo specchio" l'avvio della capacità di riconoscere se stessi.

Uno sguardo rivolto in uno specchio? Certamente, commentava Winnicott, ma solo a patto di considerare come uno "specchio" il volto della madre nel quale il bambino impara a comprendere come la madre lo guarda, a riconoscere se stesso distinguendosi da lei e a identificarsi.

 

Così, forse, potremmo smettere di aver paura di essere eccessivamente "pedagogici" con i nostri pazienti, ricercando con essi l'origine del "corpo estraneo", l'isola che prima non c'era e che li ha indebitamente invasi, senza esser mai appartenuta a loro.

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