GALASSIA FREUD
Materiali sulla psicoanalisi apparsi sui media
di Luca Ribolini

Gennaio 2014 IV - Film, immagini, pagine del passato e attuali, codici

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7 febbraio, 2014 - 09:26
di Luca Ribolini

TAVOLI. MASSIMO RECALCATI

di Pietro Bianchi, doppiozero.com, 20 gennaio 2014
 
Il luogo di lavoro di Massimo Recalcati non è il tavolo, ma lo studio dell’analista. L’analista non procede con l’addizione e l’accumulo, ma con la sottrazione. Il suo lavoro è quello di operare dei tagli e delle interruzioni nel discorso dell’analizzante in modo che il flusso di pensieri acquisisca una punteggiatura inedita.
Il tavolo dell’analista non è dunque il tavolo di chi prova a produrre l’evento del pensiero con l’accumulo del sapere, è invece il tavolo di chi opera coi detriti dell’atto analitico: quel sapere che viene fatto in frantumi durante l’analisi. Se infatti l’analisi produce un pensiero, non è dell’ordine del sapere, ma di quello della verità. E su questo tavolo vediamo tanti libri che hanno attraversato in modo singolare quella particolare esperienza del pensiero che è la psicoanalisi: Victor Tausk il cui suicidio a quarant’anni fu una pietra dello scandalo del primo movimento psicoanalitico; un lacaniano “militante” e di sinistra come Jorge Aleman; una žižekiana à la page come Alenka Zupančič, ma anche un filosofo molto vicino alla psicoanalisi come Silvano Petrosino. Ma vediamo anche ampiamente rappresentata quella procedura di verità eterogenea al sapere che è l’arte con Kounellis, le interviste ai protagonisti del movimento dell’Arte Povera, il libro sulla mostra dei post-classici e il Salò di Pasolini.
 Il tavolo dell’analista è quello di chi si siede al tavolo dopo aver finito di lavorare, quando i cocci dell’atto analitico (e di quella posizione destinata allo scarto che è l’analista) chiedono che di loro si faccia qualcosa. Forse è per questo che questo studio è attraversato da una luce diagonale e pomeridiana. Ha proprio ragione Žižek a dire che lo psicoanalista è come il filosofo hegeliano: si siede al tavolo a pensare solo quando si fa sera.
Per l’immagine vai al link:
 
http://www.doppiozero.com/materiali/speciali/tavoli-massimo-recalcati

FREUD ALL’AMATRICIANA. Sul divano dello psicoanalista? Ci sono le figlie: Tutta colpa di Giallini, padre premuroso e terapeuta sui generis nel nuovo film di Paolo Genovese

di Redazione, cinema.sole24ore.com, 20 gennaio 2014
 
Generalmente, per normali disturbi affettivi, sindromi dai nomi fantasiosi, ansie archeologiche, traumi ed eventuali la visita da un buon psicoanalista è consigliabile. Ma che cosa succede se il terapeuta è anche vostro padre? E’ lo spunto di partenza di Tutta colpa di Freud, nono tassello in regia di Paolo Genovese (Immaturi, Una famiglia perfetta), pure autore del romanzo omonimo da cui prende le mosse il film, e che segna il suo debutto editoriale.  Lo psicanalista in questione è Francesco Taramelli (Marco Giallini, al secondo film con Genovese), barba “freudiana” e un bello studio nel centro di Roma. Peccato che la terapeutica poltrona sia occupata il più delle volte dalle sue tre figlie, Marta (Vittoria Puccini), Sara (Anna Foglietta) ed Emma (Laura Adriana), ciascuna con il suo bel fardello subcosciente di problemi che il padre/analista deve suo malgrado portare con loro. Nello specifico, Marta è una libraia che si innamora di un “cleptomane per giunta sordo” (Vinicio Marchioni); Sara una lesbica che, dopo l’ennesimo rapporto fallito con una donna, decide di tornare etero; Emma, una maturanda che ha perso la testa per un uomo che ha la stessa età del padre (Alessandro Gassman).  “Volevo dar vita a una commedia sentimentale al femminile – dichiara genovese – che raccontasse l’esperienza della diversità dentro una famiglia. La cosa divertente è che la famiglia in questione non potrebbe avere mentalità più aperta, con un padre come Francesco che fa lo psicanalista. E invece i problemi nascono anche lì”. Non che l’amorevole e comprensivo padre non abbia meno grilli per la testa: divorziato da una vita – la ex è andata lavorare in una ONG in Cambogia – prende una cotta per un bella signora (Claudia Gerini, che ringrazia il regista e sceneggiatore per averle offerto “un ruolo così diverso dai miei, così elegante e pacato”) che scopre essere la moglie proprio dell’attempato fidanzato della figlia minore. Ora, che fare? Cercare di far scoppiare la coppia onde poter mettere le mani sul desiderato bottino oppure aiutarla a superare la crisi preservando così la figliola? “Personalmente avrei scelto la Gerini”, ironizza Giallini, che poi aggiunge: “Ho sempre desiderato essere padre di due maschietti per non dovere soffrire quello che soffre Francesco. Io le mie figlie le avrei legate”. Quanto al rapporto con la psicoanalisi, Giallini ammette di non averne mai avuto nessuno: “Non ho avuto tempo, ma un bel tipo come Francesco mi piacerebbe averlo come amico”.  Tanti i camei nel film, da Daniele Liotti ad Edoardo Leo (entrambi interpretano due tentativi di Sara di tornare eterosessuale), passando per Maurizio Mattioli (è il portiere dello stabile in cui lavora Giallini), senza dimenticare la presenza forte di una Roma da cartolina: “E’ la mia città e la amo – dice Genovese -. Sono pochi i film che raccontano il centro di Roma. Difficile girare lì con i permessi, Allen ne sa qualcosa. Ci sono zone come Via dei Coronari che meritavano di essere fotografate. I romani magari danno per scontato il centro della loro città, ma per tutti gli altri è diverso. Roma ha un fascino particolare”. Costato la bellezza di sei milioni di euro (colonna sonora ricchissima e internazionale, in cui  spicca il pezzo originale e omonimo firmato da Daniele Silvestri), prodotto da Medusa e Lotus, Tutta colpa di Freud uscirà il 23 gennaio in 400 sale. Distribuzione Medusa.
 
http://cinema.ilsole24ore.com/film-brevi/2014-01-20/freud-allamatriciana-00027233.php
  

SELFIE, UNO SCATTO CHE COMUNICA

di Chiara Giaccardi, avvenire.it, 21 gennaio 2014
 
Molto è già stato scritto attorno a quella che l’Oxford English Dictionary ha eletto a parola dell’anno 2013: selfie. Le foto di sé, scattate coi dispositivi mobili per essere caricate sulle piattaforme social destano non poche preoccupazioni, forse per le connotazioni negative suggerite dai termini con la stessa radice (selfish significa egoista, egocentrico) o per un attaccamento eccessivo al vecchio paradigma trasmissivo della comunicazione, che isola il contenuto dal mezzo (mentre la comunicazione, oggi più che mai, è prima di tutto riduzione di distanze, costruzione di relazioni). In un recente articolo, per esempio, lo psicanalista Massimo Recalcati ha parlato di «certificazione di un’esistenza che dubita di se stessa», e di «foraggiamento narcisistico di un soggetto vuoto», mentre in una riflessione sul New York Times la psicologa Sherry Turkle ha colto un’ossessione per la documentazione che «mette in pausa» l’esperienza: l’ansia di “possedere” una traccia che certifichi la nostra esistenza ci impedirebbe viverla veramente. Documentare l’esperienza e fare esperienza sarebbero due movimenti che si annullano a vicenda: o l’uno, o l’altro. Sebbene queste posizioni colgano alcune derive, sempre possibili, del fenomeno, rischiano a loro volta di scambiare i pericoli per l’essenza, sulla base di quello che mi pare un duplice errore di prospettiva. Da una parte si scambia l’origine per la destinazione: l’autoscatto non mira a costruire uno specchio in cui rimirarsi, ma, casomai, a condividere un momento con altri. Il fine non è autoreferenziale, ma sociale. Non mi fotografo per certificare la mia esistenza, ma per condividerla, per entrare in dialogo. Essere è condividere. E non necessariamente ciò che si condivide è l’autoscatto col personaggio famoso, o l’immagine dove si è «al meglio di sé». Anzi, fa discutere, per esempio, la recente tendenza, da parte di alcuni personaggi del mondo dello spettacolo ma non solo, a condividereselfies scattate durante o subito dopo una malattia.
La seconda questione ha a che fare col tema della rappresentazione: se la fotografia è nata comemedium per parlare della realtà, e la dimensione del contenuto è sempre stata cruciale, la finalità della selfie non è rappresentare, ma comunicare. Non si tratta di un oggetto estetico, ma di un movimento dialogico. Non è solo un parlare di sé, ma è soprattutto un parlare a qualcuno. Un diario per immagini, nella consapevolezza che l’identità è relazionale, e che il messaggio più che “ti dico chi sono” è, casomai, “aiutami a capire chi sono”.
Vivere e condividere non sono due movimenti che si annullano a vicenda; al contrario. D’altra parte l’esperienza, ce lo ha insegnato tra gli altri Walter Benjamin, ha sempre la doppia componente di “immersione” (Erlebnis) e di “distanziazione”, rielaborazione, del vissuto (Erfahrung). La sospensione, la messa in pausa, la condivisione non solo non impediscono l’esperienza, ma ne sono la condizione, perché servono a elaborare, condividere, far sedimentare i significati di ciò che si vive.
Nella selfie dunque la fotografia non è un contenuto, ma un medium, un connettore, un invito al dialogo a partire dalla propria quotidianità, un mettere in comune che aiuta a tessere la trama della vita di tutti i giorni, intrecciando un racconto polifonico per immagini. Per questo credo che tacciare questa forma comunicativa di narcisismo, feticismo, asocialità sia non capire il bisogno autentico che essa esprime. Che è un bisogno giusto: casomai da coltivare, accompagnare, rendere più consapevole, ma non certo stigmatizzare.
Che la foto non risponda a un bisogno di possesso o di “eterizzazione” del quotidiano nel vano tentativo di sottrarlo alla banalità è testimoniato anche da applicazioni come Snapchat, che consentono di inviare ai propri contatti foto che durano solo pochi secondi. Il quotidiano è effimero, nessuno vuole negarlo, ma nondimeno può essere, seppur per un istante, messo in comune. Non tutto merita di permanere, ma molto merita di essere condiviso.
Attenzione, quindi, alle troppo facili svalutazioni di pratiche che rispondono a bisogni antropologici profondi. E attenzione a quell’etnocentrismo generazionale che porta a valutare con categorie inadeguate i nuovi fenomeni – a leggere il presente nello specchietto retrovisore, direbbe McLuhan – incorrendo in inevitabili errori interpretativi. Meglio cercare di vedere i fenomeni “dal punto di vista dei nativi”, come ci hanno insegnato gli antropologi. Non per adeguarsi, ma per costruire le condizioni di un dialogo intergenerazionale dal quale tutti abbiamo da imparare.
 
http://linkis.com/www.avvenire.it/Comm/y1fUO%20%E2%80%A6
  

STATO DI ECCEZIONE

di Sarantis Thanopulos, ilmanifesto.it, 24 gennaio 2014
Le offese siste­ma­ti­che rivolte a un mini­stro a causa del colore della sua pelle sono l’ennesimo segnale ina­scol­tato del declino del nostro paese. In un paese psi­chi­ca­mente sano que­sta vio­la­zione dei diritti di un cit­ta­dino e, al tempo stesso, della dignità delle isti­tu­zioni demo­cra­ti­che sarebbe stata san­zio­nata seve­ra­mente. Da noi tutto è per­messo per­ché le cose hanno perso la loro carat­te­riz­za­zione e spe­ci­fi­cità per ragioni di neces­sità che nes­suno sa chi ha sta­bi­lito. L’accidia che sog­giace al fer­vore dei cam­bia­menti spe­rati offu­sca la nostra vista.
A dispetto delle moti­va­zioni addotte l’accordo tra Renzi e Ber­lu­sconi è frutto degli inganni che que­sto offu­sca­mento pro­muove. Solo dove l’immobilità, tra­ve­stita da neces­sità, detta le regole è pos­si­bile che un cit­ta­dino sia ele­vato al di sopra dell’ordinamento giu­ri­dico diven­tando oggetto di un trat­ta­mento di ecce­zione che lo rende diverso dagli altri di fronte alla legge.
Oggi il nuovo che avanza fa in fretta a logo­rarsi. Per­fino quando difende prin­cipi impor­tanti e giu­sti lo fa a pre­scin­dere dall’insegnamento della sto­ria: le buone inten­zioni fini­scono nel nulla se sono per­se­guite con metodi sbri­ga­tivi e si appog­giano a intese oppor­tu­ni­sti­che rea­liz­zate sotto forma di ecce­zione dalle regole comuni. Viviamo nello spa­zio clau­strale di una sta­gna­zione totale che ricorda la situa­zione ango­sciante descritta da Bunuel in «L’Angelo Ster­mi­na­tore»: un gruppo di bor­ghesi non rie­sce a uscire dalla stanza nella quale è con­fi­nato, nono­stante le vie di uscita siano pie­na­mente acces­si­bili sul piano della realtà este­riore, a causa di forze inte­riori invi­si­bili legate all’inerzia che sot­tende le loro dina­mi­che (e la loro men­ta­lità) di gruppo. La feroce cri­tica di Bunuel, che andava al di là della denun­cia della società fran­chi­sta, della chiesa cat­to­lica e della bor­ghe­sia, è quanto mai attuale. Lo stato di ecce­zione in cui ver­siamo non è né quello di una legi­sla­zione di emer­genza né quello di una rivo­lu­zione che depone un ordi­na­mento giu­ri­dico per sosti­tuirlo con un nuovo. Ci tro­viamo piut­to­sto den­tro un pro­cesso di lenta ma ine­so­ra­bile alte­ra­zione della rela­zione tra l’anomia del desi­de­rio (nella sua forma sor­giva) e l’insieme delle regole che sosten­gono la sua socializzazione.
La posta in gioco in que­sta rela­zione è la pos­si­bi­lità di tra­sfor­mare il disor­dine di cui è foriera la pul­sione in quanto espres­sione di vita in un ordine che garan­ti­sce il rispetto e la per­ma­nenza del suo oggetto e quindi la sua sod­di­sfa­zione reale. Il disa­gio della civiltà deriva dal fatto che que­sta tra­sfor­ma­zione tende a slit­tare difen­si­va­mente nella costi­tu­zione di un ordine chiuso che sosti­tui­sce le rela­zioni di desi­de­rio con i rap­porti nor­ma­tivi, di forza. Dal momento che non può pre­ve­dere altro che la sua per­pe­tua­zione, la norma anta­go­nizza la libertà del desi­de­rio e quindi la sua sod­di­sfa­zione. Nella nostra epoca la repres­sione delle pul­sioni ha rag­giunto un limite intol­le­ra­bile creando un’imponente domanda di libe­ra­zione la cui sod­di­sfa­zione richiede una rivo­lu­zione del nostro modo di pen­sare le regole e il diritto. La resi­stenza al cam­bia­mento che que­sta pro­spet­tiva com­porta, ali­menta uno stato di ecce­zione per­ma­nente che non è a-nomia ma iper-nomia: dit­ta­tura di una norma non scritta che (come legge incon­te­sta­bile, «pura») rescinde il legame della regola con il godimento.
Sotto l’inconcludente effer­ve­scenza di super­fi­cie della nostra esi­stenza prende forma la vio­lenza più distrut­tiva: l’espansione di una mate­ria psi­chica inerte che sosti­tui­sce la carne viva del desi­de­rio e can­cella il movi­mento della vita.
http://ilmanifesto.it/stato-di-eccezione/

QUANDO FREUD ENTRÒ NELLE AULE GIUDIZIARIE
di Sebastiano Triulzi, la Repubblica, 26 gennaio 2014*
 
Un successo crescente arride a romanzi e serie televisive che celebrano il connubio tra psicoanalisi e criminologia, ma la loro integrazione ha radici più profonde. Questa è la convinzione di Rubén Gallo, docente alla Princeton University, che ha dedicato alla prima penetrazione – un po’ “selvaggia”, a suo dire, riecheggiando Bolaño – delle opere di Freud in Messico,un libro sorprendente come un giallo (Un Edipo stalinista, impreziosito dall’introduzione di Luciana Castellina). L’indagine ha origine dalla presenza di un testo di diritto penale messicano datato 1937 nella biblioteca di Freud, il cui autore, Raúl Carrancá, era un giurista avido di letture freudiane. Gallo svela che egli fu il primo ad utilizzare la psicoanalisi come arma contro il crimine con l’analisi psicolegale, ricevendo l’incoraggiamento dello stesso Freud. Soprattutto, applicò tale tecnica a Ramón Mercader – l’assassino di Trockij plagiato dall’amante della madre, spia di Stalin – tracciandone un profilo e una causa («un complesso di Edipo manifesto»), che la Storia ha poi confermato. Un exemplum di come il Messico fu laboratorio d’una utopia radicale, l’unione tra marxisti illuminati e giudici freudiani.
Un edipo stalinista, di Rubén Gallo, il Saggiatore, pagg. 112, euro 14
*Articolo segnalato da www.spiweb.it
 
http://www.spiweb.it/index.php?option=com_content&view=article&id=4313:quando-freud-entro-nelle-aule-giudiziarie-la-repubblica-26-gennaio-2014&catid=726&Itemid=353
 

GIORNATA DELLA MEMORIA, PER RICORDARE L’INCONCEPIBILE

di Riccardo Calimani, europaquotidiano.it, 27 gennaio 2014

Il 27 gennaio del 1945 i soldati dell’Armata Rossa aprivano i cancelli di Auschwitz, il lager dove erano stati sterminati un milione e mezzo di ebrei, zingari, omosessuali, oppositori politici e prigionieri di guerra. Ricordare oggi quella giornata, come avviene ogni anno dal 2000, ci costringe a ripensare con intensità ad avvenimenti lontani che molti non hanno vissuto direttamente, per coglierne un ammonimento: non gli ebrei, ma tutti noi, gli europei, tutti gli uomini, dobbiamo impegnarci per continuare a reagire, costruire gli anticorpi per evitare che un individuo, qualsiasi individuo, possa essere di nuovo perseguitato. Ricordare è porsi domande senza fine e non pretendere che le risposte siano definitive, perché alla domanda «come è stato possibile?» non si può dare una risposta convincente.
Trovare una spiegazione una volta per tutte sarebbe comodo, perché ci permetterebbe di chiudere quel capitolo e smettere di soffrire. Ma chi non ricorda il proprio passato è destinato a riviverlo, ha scritto George Santayana. Nel caso della Shoah esiste un modo solo per ricordare veramente: cercare di capire l’inconcepibile, ma non concludere mai la ricerca per capire ciò che non è neppure pensabile su quelle terribili vicende e, nello stesso tempo, agire prima che accada perché a nessuno accada mai più. Se una teoria per cercare di spiegare quel momento storico è una aspirazione, l’unica vera catarsi può essere data dall’azione, dalla lotta contro la sopraffazione prima che divenga totalitarismo: mai più Lo sterminio nel cuore d’Europa fu tragedia ebraica, anche se solo sei dei venti-ventiquattro milioni di vittime per ordine di Hitler erano ebrei, ma ogni uomo deve sentirsene partecipe. E Auschwitz deve restare monito di tutta l’umanità: ha dimostrato che lo sterminio di massa è possibile. Non sono state le vittime a chiamarlo olocausto. Se lo si chiama con il suo nome, assassinio di massa, la repulsione è immediata. «Se invece – notava lo psicoanalista Bruno Bettelheim – viene designato con un termine tecnico inconsueto, bisogna prima tradurlo di nuovo nella nostra testa in un linguaggio emotivamente significativo». È un modo per «padroneggiarlo intellettualmente laddove i fatti nudi e crudi (…) ci sopraffarebbero emotivamente». I nazisti stessi parlarono di «soluzione finale».
Oggi che il negazionismo sembra compiere un nuovo passo avanti, non si può abbassare la guardia. Non perché sia una questione che riguardi gli ebrei o perché il negazionismo neghi l’incredibile, ma per i pericoli che questo pensiero comporta, pericoli immensi, che preparano il terreno alla possibilità che nuove tragedie si ripetano. Penso alla comunità mussulmana, alla popolazione rom. La Shoah, lo sterminio, ha colpito non solo milioni di ebrei, ma anche sinti e rom, omosessuali, disabili, malati mentali, antinazisti e innocenti civili. Esiste oggi l’antisemitismo? Anche qui non ci sono, né ci possono essere, risposte univoche. Il pregiudizio esiste ed è diffuso non solo contro gli ebrei, ma anche verso numerosi gruppi sociali. Tutti ne siamo colpiti, perché si tratta di una generale legge di economia del pensiero: quando il malessere sociale aumenta occorre uno sfogo per l’aggressività degli scontenti. Certo, si deve sempre considerare quanta ignoranza ci sia sulla materia (in molti, anche di livello culturale elevato, non saprebbero definire le parole “cristiano” o “ebreo”), ma è bene anche ricordare che c’è stata una lunga tradizione di antigiudaismo cristiano che solo da mezzo secolo è andato scemando, ma che, purtroppo, certe recenti prese di posizione dottrinarie rischiano di alimentare nuovamente. Nel corso della evacuazione del ghetto di Riga nel dicembre 1941 i nazisti colpirono Simon Dubnow, illustre storico ebreo. Aveva 81 anni. Si dice che le sue ultime parole pronunciate in jiddish siano state: “Shreibt un farshreibt”, “Scrivete e consegnate”.

http://www.europaquotidiano.it/2014/01/27/giornata-della-memoria-per-comprendere-linconcepibile/

ADDIO ALLO PSICANALISTA FREUDIANO DEI CRIMINI E MISFATTI DI WOODY ALLEN

di Redazione, qn.quotidano.net, 27 gennaio 2014
Martin Bergmann, psicanalista freudiano, saggista, professore e, per bizzarra circostanza del destino, attore nel film Crimini e misfatti di Woody Allen, è morto a Manhattan a 100 anni. Lo annuncia oggi il New York Times.
Bergmann non aveva mai avuto contatti diretti con il regista di Manhattan, un celebre habitué del lettino dello psicanalista, quando entrò nel cast del suo film del 1989. Fu un suo studente della New York University, che conosceva il direttore del casting, che suggerì di includerlo nel ruolo del filosofo Louis Levy su cui il cineasta interpretato da Allen stava girando un documentario. 
Bergmann risultò un’ottima scelta: presentato a Allen rispose alle sue introspezioni su amore, vita, morte in venti minuti di colloquio al termine del quale, come riferì nel 1989 il Philadelphia Inquirer, il regista diede allo psicanalista la parte.

(Vedi I video in basso)

http://qn.quotidiano.net/spettacoli/cinema/2014/01/27/1016798-morto-psicanalista-crimini-misfatti.shtml

FRANCIA E ITALIA: SCANDALI E DIVERSI TRATTAMENTI. Da Strauss-Kahn a Hollande: perché, a Parigi, queste questioni vengono trattate diversamente 

di Bruno Vespa, panorama.it, 28 gennaio 2014

Mettiamo che accada in Italia. Un uomo politico diventa presidente della Repubblica. Convive con una signora, non la sposa pur essendo celibe e non ha alcuna intenzione di sposarla. Ha avuto quattro figli da un’altra donna, senza sposarla, e si gode la sua libertà. Eletto al Quirinale, vi trasferisce la sua compagna che riceve tutti i riguardi dovuti a una first lady: ufficio, segreteria, consiglieri e perfino capo di gabinetto. Ma il nostro presidente, lo sappiamo, è un uomo libero. Nella testa e nei sentimenti.
Per cui allaccia una relazione con un’attrice e per due anni la vede di nascosto in un appartamento alla Fontana di Trevi, poche centinaia di metri dal Quirinale. Finalmente un settimanale di gossip lo scopre mentre si reca dalla nuova amante protetto da un casco da motociclista. E fotografa il corazziere che ha il compito di portare alla romantica alcova i cornetti per lacolazione. Ne viene fuori uno scandalo, all’estero, più che in Italia in cui i grandi giornali parlano della vicenda poco e di malavoglia: ogni persona ha diritto alla sua vita privata, anche se si tratta del presidente della Repubblica.
La signora convivente la prende ovviamente male: non vuole restare al Quirinale con il fedifrago, ma non se ne torna a casa propria o da mammà. Prima si ricovera in ospedale e poi (scortata da un drappello di corazzieri motociclisti) si trasferisce nella tenuta di Castelporziano e lì aspetta di discutere le condizioni del trattato di pace. Sapendo che prima o poi al Quirinale rischia di finirci la nuova amante.
È immaginabile tutto questo? No. È invece immaginabile che i giornali di tutto il mondo, a cominciare da quelli francesi, massacrerebbero un sistema che permette queste cose e gli stessi giornali italiani sarebbero impietosi. Perché in Francia non accade? Perché la Francia non è l’Italia. Uno psicanalista francese, Jean-Pierre Winter, autore del saggio Uomini politici sul lettino, prende atto che François Hollande è un traditore seriale e dubita che la sua immagine ne risentirà: molti uomini, in fondo, hanno l’amante. D’altra parte nemmeno i quattro immediati predecessori di Hollande si son fatti mancare niente.
François Mitterrand ha avuto per un ventennio una seconda famiglia che alloggiava in una residenza statale, viaggiava su mezzi dello Stato ed era protetta dalla polizia. Solo poco prima che morisse, il settimanale Paris Match ebbe il coraggio di rivelare l’esistenza di una figlia segreta del presidente, ormai adulta. Jacques Chirac veniva chiamato «tre minuti e una doccia» per la rapidità e la frequenza delle sue avventure sessuali.
Come il nostro Benito Mussolini, che riceveva frettolosamente le sue devote «visitatrici fasciste» sul tappeto della Sala del Mappamondo. Valéry Giscard d’Estaing staccava i telefoni e se ne andava a spasso con belle attrici su auto sportive. E Nicolas Sarkozy, dopo essersi separato dalla moglie, ha piazzato Carla Bruni all’Eliseo. Nessun problema per nessuno. La Francia non è l’Italia.

http://news.panorama.it/esteri/Scandalo-Sessuale-Hollande-Francia-Italia

PSICOANALISI PER LIBRAI. LE CINQUE REGOLE AUREE PER FAR FELICI I LETTORI

di Stefano Bolognini, L’Unità, 29 gennaio 2014
 
OGNI CLIENTE È DIVERSO DAGLI ALTRI, E DEL RESTO OGNI LIBRERIA È DIVERSA DALLE ALTRE: per locazione, dimensioni, atmosfera, disposizione dei libri, metodologia di funzionamento commerciale e stile relazionale nel servizio al cliente.
Ciò premesso, è però vero che si possono distinguere (parlo appunto da cliente…) due grandi tipologie di libreria: quella di solito più grande in cui il cliente si aggira tra i banchi e gli scaffali in relativa autonomia, consultando i librai prevalentemente per la ricerca di un titolo ben predefinito, e quella più intima, di stampo più personalizzato, in cui il libraio viene interpellato per ricevere un’indicazione, un suggerimento, un consiglio non ben precisati a priori.
Il cliente, a sua volta, può essere corrispondentemente classificato in due grandi gruppi: clienti che sanno già cosa vogliono e chiedono aiuto per il reperimento di un oggetto ben preciso, e in questo caso la sequenza del contatto con il libraio è di regola piuttosto tecnica: «aiutami a trovare ciò che ho già scelto»; e clienti che non sanno già cosa vogliono, ma sentono di cercare qualcosa di non ancora definito chiaramente e che sono alla ricerca del loro «plancton» culturale.
Lo psicoanalista sa che questi ultimi non sanno di sapere già cosa vogliono, ma profondamente qualcosa già vogliono, anche se non lo sanno: sono inconsciamente indirizzati dai loro desideri e bisogni verso oggetti culturali che daranno rappresentazione descrittiva o narrativa a ciò che si muove dentro di loro senza una forma ben precisa, e che è in attesa di un testo che “li incontri” e li renda reali.
L’incontro in questione (tra il cliente «vagante» e il testo che darà rappresentazione ai suoi desideri e bisogni) necessita, per realizzarsi, di un campo relazionale appropriato: la libreria, i libri e il libraio possono costituirlo, in un insieme che favorisca il riconoscimento dell’oggetto adatto e il suo acquisto.
In generale, c’è una profonda equivalenza psicologica inconscia tra l’atto del leggere e il nutrirsi: si tratta di «prendere dentro» qualcosa di non materiale ma non poi così astratto, perché alle parole o alle figure corrispondono emozioni ancora non conosciute e pensieri che, una volta entrati, faranno parte del mondo interno della persona.
Questa analogia consiste non solo e non tanto nel senso di «incorporare» il cibo (cioè di introdurlo nella cavità orale), quanto nel senso di «farlo entrare dentro» in profondità, digerirlo e assimilarlo adeguatamente: noi chiamiamo questo processo «introiezione», e questa parola tecnica ci serve per distinguerlo appunto dall’ingurgitamento precipitoso e maldigerito.
Chi entra in una libreria entra, in un certo senso, in un vero e proprio ristorante della mente; può essere eccitato e attratto dalla ricchezza dell’offerta (in certi ristoranti che espongono i piatti più diversi verrebbe voglia di assaggiare tutto), ma può essere anche spaventato dall’eccesso spaesante di possibilità di scelta e può ricercare una dimensione più intima in cui poter valutare ed assaggiare ciò che sarà poi introdotto al proprio interno.
È però anche vero che la dimensione meno confidenziale di una libreria ampia e a libera circolazione senza assistenza immediata al cliente può favorire un senso di libertà esplorativa, e può preservare da effetti collaterali indesiderati come un certo disagio sperimentato da alcune persone quando, chiedendo un consiglio, sentono di dover mettere in mostra una loro incompetenza: non tutti sanno accettare di chiedere.
Questa difficoltà riguarda soprattutto i soggetti che definiamo «narcisisti»: sono gli uomini o le donne che «Non devono chiedere. Mai».
Per amor della clinica, vi devo anche segnalare che i clienti a funzionamento paranoide, invece, temono che il libraio possa intrudere nella loro mente e condurli a scelte pilotate, come se il libraio avesse in mente un piano diabolico volto a controllare i desideri o le scelte individuali; ma queste sono eccezioni che cito più per gusto narrativo che per reale incidenza statistica; né si richiede che il libraio faccia una valutazione psichiatrica dei suoi interlocutori!
Quello che invece si raccomanda è che nell’incontro anche di pochi secondi il libraio si renda percettivo verso alcuni specifici aspetti della relazione che si stabilisce di volta in volta con il cliente che lo consulta:
1. Evitare possibilmente la relazione «alto-basso»
In molti casi il libraio è oggetto di un transfert del tipo: «adulto (che sa) bambino (che non sa e che dunque è costretto a chiedere)». È molto importante che il libraio percepisca se la richiesta è rivolta con fastidio per questa temporanea micro-dipendenza o se al contrario il cliente gradisce di essere consigliato e «nutrito» (attraverso il consiglio tecnico) dalla persona competente.
Ovviamente, nel primo caso conviene ridurre il peso di tale dipendenza (vedremo come), mentre nel secondo caso è da evitare viceversa un sentimento di «abbandono» nel cliente bisognoso.
2. Dare valore alla personalizzazione della richiesta
Questo significa che la libreria non deve risultare simile ad una mensa che tende a rifilare a tutti un menu standard, ma dovrebbe piuttosto concedere qualche secondo di interlocuzione in favore del cliente per confortare la sensazione che qualcuno sia disponibile a «cucinare qualcosa di speciale per lui». Questo riguarda, ovviamente, soprattutto il paziente sperduto che cerca un suggerimento o un’indicazione, che non è in contatto con i propri bisogni e sente di volere qualcosa ma non sa bene che cosa.
3. Comunicare il fatto (vero!…) che in un libro c’è un mondo
Per alcune persone un libro è un insieme rilegato di carta stampata; per altri, è la porta su un mondo che si dispiega nella mente dei lettori, veicolandovi scenari, temperature emotive, colori, storie, relazioni, e comunque parti già sperimentate o solo potenziali del proprio Sé.
Il libraio somministra qualcosa che può avere gli effetti trasformativi di un farmaco o, come dicevo, di un alimento; non dico che ad esso si dovrebbe accludere un “bugiardino” (compresa la descrizione degli effetti collaterali: l’ultimo libro che ho letto «Montenegro» di Bato Tomasevic, mi ha tenuto in una condizione piuttosto alterata di commozione per una intera settimana…), ma la seconda e la quarta di copertina possono essere intese come qualcosa di analogo.
Un libro può essere qualcosa che ti cambia la vita, o per lo meno che la arricchisce potentemente: è un mondo interno di altri che si mescola con il nostro e lo trasforma.
La libreria come farmacia della mente, come ristorante dello spirito, come officina delle idee, come apertura di porte su laboratori, giardini segreti, cattedrali silenziose, fiere di paese, stanze private, e via dicendo. Ma io so che i librai queste cose le sanno, e sono certo che svolgono il loro lavoro più che altro per questo, oltre che per avere una professione che consenta loro di guadagnare e di vivere.
4. La dimensione «Timeless»
A differenza dei compratori su Internet, che di solito compiono acquisti ultra-mirati e programmati, e che non vogliono intermediari di sorta tra loro e l’acquisto, quelli che si rivolgono alla libreria abbisognano di una paradossale situazione: da un lato richiedono competenza, efficienza commerciale e rapidità nell’esaudire le aspettative del cliente; dall’altro, sembrano entrare viceversa in una dimensione «senza tempo», dove il vagabondare esplorativo tra un banco e l’altro induce a perdere il senso del tempo. Per comprendere meglio questa realtà soggettiva dell’esploratore di libreria, è utile rifarsi alle sensazioni dell’infanzia quando non si era a scuola e ci si abbandonava al gioco o comunque a momenti sospesi, senza tempo appunto. La libreria consentitemi un altro paragone apparentemente incongruo può diventare qualcosa di analogo ad un campeggio estivo, nel quale il tempo è scandito più da movimenti interni che da ritmi coscienti esterni: l’orologio, in libreria, perde la sua centralità, e questo va bene. Si regredisce al punto giusto, e le difese si allentano, consentendo alla curiosità e al desiderio di emergere dal magma del non sentito e del non pensato (o non pensabile, fino a che non si crea la situazione adatta). Secondo me in nessuna libreria dovrebbe esserci alla parete un orologio.
5. L’importanza della dedica
E per finire, un dettaglio che non dovrebbe mancare: un libro destinato a costituire un dono dovrebbe sempre essere accompagnato da una dedica, non dovrebbe mai essere «sbolognato» anonimamente come un oggetto di pura rilevanza quantitativa.
Il destinatario del libro sta per ricevere qualcosa di potenzialmente molto significativo: è consigliabile che chi lo regala gli manifesti qualcosa di più personale e «pensato» che non la semplice consegna di un pacchetto più o meno costoso. Non so come si potrebbe favorire l’usanza della dedica, ma so che si dovrebbe.
 
http://www.zeroviolenzadonne.it/rassegna/pdfs/29Jan2014/29Jan201468fc4fb30ba8d79f61ba6467c525351c.pdf
 
 

ESCE ILLMITZ, OPERA PRIMA E INEDITA DI SUSANNA TAMARO

di Donatella Trotta, ilmattino.it, 29 gennaio 2014
È una storia di formazione densa e lieve «Illmitz», opera prima sinora inedita di Susanna Tamaro allora poco più che ventenne, da oggi finalmente in libreria (Bompiani, pp. 112, euro 14) dopo essere stata rifiutata, 33 anni fa, da molti editori, malgrado autorevoli sostenitori tra i quali Claudio Magris, al quale il manoscritto arrivò attraverso la madre maestra, amica della nonna anch’essa maestra di Susanna Tamaro. Un ”caso“ del quale «Il Mattino» parla con l’autrice, nella sua casa nella campagna di Orvieto dove da tempo la scrittrice vive coltivando le sue passioni dominanti.
«Illmitz» racconta in prima persona il viaggio di un ragazzo tormentato, sospeso «tra euforia e cinismo», da Roma a un paesino dell’Austria ai confini con l’Ungheria, sospeso tra Occidente e Oriente. Un viaggio fisico, ma anche e soprattutto interiore. Perché è un viaggio di ricerca – delle proprie radici non soltanto familiari, di sé, del senso dello stare al mondo, ma anche della propria vocazione – che si trasforma, per il protagonista preda di un «malessere profondo», in cammino di iniziazione e consapevolezza. Sino all’agnizione finale per il giovane io narrante senza nome, un 25enne che si definisce «macinasogni», «parente delle ombre», «più albero che uomo», «intrappolato nel gelo» del suo corpo perché «figlio di un concetto e non del calore umano»: quel calore che solo la materna sensualità della sua ragazza, Cecilia, riesce a dargli trasformandolo così, dopo molti incontri ed esperienze, in «eroe dello stupore».
Ma a stupire, oggi, è il «gran rifiuto» di pubblicare questo libro da parte di molti editori di allora. Il perché lo ipotizza l’autrice stessa: «Forse – spiega – i tempi non erano maturi per accoglierlo, come, paradossalmente, oggi che viviamo momenti di grandi rivolgimenti, fragilità, maturazioni; gli anni Ottanta invece, segnati dal craxismo, sono stati anni per certi versi spaventosi, anni nei quali la sensibilità degli artisti già intravedeva il ghigno della morte». Ed è allora una piacevole sorpresa la scoperta che un libro concepito da una giovanissima Tamaro alla sua prima prova narrativa conservi intatta tutta la forza – e la coerenza – di un romanzo metaforico breve, dalla cifra stilistica asciutta, precisa e nitida, costellata di simboli, oltre che di nuclei tematici cari all’autrice (e sviluppati intanto in altri 22 libri, di cui 4 per ragazzi): il disagio esistenziale e di civiltà, l’inquietudine, la solitudine dei diversi, la tragedia dell’infanzia, uno smarrimento che Heidegger chiamava “spaesatezza” (”Heimatlosigkeit“), il rapporto con la natura.
«Sono colpita anch’io, rileggendolo per la prima volta dopo trent’anni, perché c’è in nuce tutto il mio mondo», ammette la scrittrice: «È stato come trovarmi di fronte a una nana bianca, stella di piccole dimensioni destinata per contrazione di energia a esplodere generando mondi e corpi celesti nuovi…». Metafora astronomica che ben si attaglia peraltro all’autrice di un best seller come «Va’ dove ti porta il cuore»: 14 milioni di copie vendute in vent’anni esatti, 9 in Italia e 5 all’estero, con traduzioni in 43 Paesi (Susanna Tamaro festeggerà il ventennale di «Va’ dove ti porta i cuore» registrando con la sua voce la lettura del libro in uscita negli audiolibri da Emons il 12 febbraio, euro 14,90): «Quello è stato il mio libro più conosciuto ma anche il più misconosciuto, per la sua apparente semplicità ingiustamente tacciata da molti detrattori di buonismo e sentimentalismo», sottolinea Susanna Tamaro. Che aggiunge: «Dopo quell’inaspettato successo planetario, avrei potuto strizzare l’occhio al mercato, e invece il mio libro successivo è stato ”Anima Mundi“, che solo un folle poteva concepire… Un ulteriore segno di fedeltà al mio desiderio di indagare le inquietudini dell’animo umano, dare un senso al dolore».
Proprio quelle che agitano il protagonista di «Illmitz»: meta del suo viaggio e luogo dell’anima, per le sue ascendenze familiari. «Illmitz – spiega Tamaro – è un paesino esiste davvero, ed è appunto il limite, il confine. Non solo tra Oriente e Occidente ma anche, allora, tra paesi comunisti e non. La genesi del libro l’ho raccontata nel mio ultimo libro autobiografico ”Ogni angelo è tremendo“, quasi una chiusura del mio cerchio esistenziale, senza il quale peraltro non si può capire nemmeno la mia opera prima, scritta di getto in venti giorni su 4 quaderni a righe delle scuole elementari, quasi senza correzioni, in una locanda di Illmitz dove mi rifugiai dopo un soggiorno a Vienna con il mio innamorato di allora. Quando ci salutammo, vidi una corriera con destinazione, appunto, Illmitz. Vi salii. E fu una specie di magia, uno stato di grande grazia che mi portò in quei giorni di sosta tra Austria e Ungheria a forare il muro di opacità del reale dal quale è poi sgorgato il racconto».
L’inconscio gioca una parte importante nel testo, orchestrato tra il flusso di coscienza dell’io narrante, inserti ricorrenti di sogni rivelatori del protagonista, citazioni fiabesche, descrizioni d’ambiente e di personaggi (tra i quali spiccano soprattutto la sorella del protagonista, Agnese, figura di rarefatta luminosità, morta bambina per mettere alla prova il suo angelo custode, e il vicino di casa Angelo, detto Frankenstein per la sua grave disabilità mentale) funzionali al racconto. Che nella sua alternanza di incanto e disincanto sembra avere accenti a tratti leopardiani: «Leopardi è un mio grande maestro e ispiratore – ammette Tamaro -, per anni ho letto il suo Zibaldone, riflettuto sul suo pensiero della natura matrigna che nella mia traiettoria ha avuto una diversa evoluzione». Paradossale invece il rapporto con la psicanalisi, che sembra permeare l’ispirazione della Tamaro ma in modo molto critico: «È vero – sorride la scrittrice, nipote di Italo Svevo -. Nel libro c’è un grandissimo rapporto con la parte inconscia del protagonista, con i suoi sogni, con il mistero e il mondo delle ombre. Una dimensione che ho respirato in famiglia: un fratello di mia nonna era in cura da Freud, di cui è stato traduttore un cugino della stessa nonna; e tuttavia in famiglia si è sempre criticata ferocemente e con ironia la dispendiosa pratica psicanalitica. La potenza creatrice dei sogni abbiamo sempre preferito lasciarla ai poeti e agli artisti».
Ma quanto ha influito sulla vocazione della scrittrice, triestina figlia di terre di confine, il suo Dna mitteleuropeo? «Moltissimo – replica Tamaro –. ”Illmitz“ trasuda anche molta cultura tedesca: filosofica e poetica, fatta di spietata stringatezza e lucidità, esplorazione di altre dimensioni e soprattutto di ricerca della poesia, tanto che avevo concepito il libro, condensato in poche pagine, quasi come un poemetto. Scrivere allora – aggiunge – ha significato ricomporre le mie radici, che affondano in diverse lingue ed etnie: da bambina ero immersa nei suoni del francese, del tedesco, dello sloveno, nutrita di echi ebraici. Ho dovuto fare un lungo e durissimo lavoro di scavo, per assorbire e ricomporre quegli idiomi fino a trovare una lingua mia, che desse un nome esatto alle cose rispondendo anche alle mie passioni scientifiche naturalistiche, dove l’esattezza richiede un grande rigore. Anche per questo ho soggiornato a Vienna, in Ungheria, in un kibbutz in Israele, oltre che in Italia. Perché la scrittura è una terra di miraggi e bisogna saper discernere per sapere chi ti sta chiamando, e in quale direzione andare».
Nel libro non manca tuttavia una componente fantastica, con uno sguardo della giovanissima autrice già allora particolarmente attento a quella chiaroscurale dimensione dell’infanzia alla quale Tamaro sembra continuare ad appartenere ancora oggi, per parafrasare Antoine de Saint Exupery, «come a un paese»: è così? «Già – osserva la scrittrice -. L’ombra fiabesca che aleggia nel testo, legata soprattutto alla figura della piccola Agnese, che evoca me da bambina, è forse il preludio alla mia produzione di libri per bambini e ragazzi: scrivere per loro è particolarmente difficile ma, per me, soprattutto oggi, necessario». In che senso? «I bambini vivono una situazione educativa catastrofica: molti di loro mi confessano di trovare conforto nei miei libri, ma mi impressiona sapere ad esempio che un’opera come ”Cuore di ciccia“, che negli anni Novanta si leggeva in terza elementare, oggi lo si legge in seconda media, altrimenti non viene compreso. È molto triste: segno di una semplificazione banalizzante, di un appiattimento dell’intelligenza critica che dietro il paravento delle nuove tecnologie, ma non solo, mortifica l’elaborazione di un pensiero divergente e di rapporti umani autentici».
Per il futuro allora dobbiamo aspettarci da Susanna Tamaro un nuovo libro per ragazzi? «Certo. Ci sto già lavorando. Ma non so ancora in che direzione mi porterà».

http://www.ilmattino.it/CULTURA/LIBRI/illmitz-susanna-tamaro-opera-prima/notizie/483783.shtml

IL FESTIVAL DELLA MENTE CAMBIA STRADA. COGOLI LASCIA, TOCCA A PIETROPOLLI CHARMET . Lo psicologo veneziano chiamato a sostituire la storica direttrice della più importante manifestazione sarzanese. Cavarra: “Ci concentreremo sull’universo giovanile”
di Redazione, cittadellaspezia.com, 30 gennaio 2014
“Voglio innanzitutto esprimere un vivo ringraziamento a Giulia Cogoli, una professionista che ha svolto in questi anni un lavoro importantissimo per il nostro territorio, portando il Festival della Mente a diventare un evento di primissimo piano nel panorama culturale italiano. Oggi, dopo dieci anni di successi, si apre una fase nuova che ci dà l’occasione di rilanciare il Festival con rinnovato entusiasmo”. Il sindaco di Sarzana Alessio Cavarra saluta la storica direttrice della manifestazione sarzanese e accoglie il nuovo responsabile Gustavo Pietropolli Charmet, medico veneziano trapiantato a Milano dove si è specializzato in psichiatria presso la Clinica Universitaria nel 1968? Per circa quattro anni ha lavorato in comunità terapeutiche a conduzione psicanalitica per giovani psicotici. ?Ha lavorato come assistente aiuto e primario incaricato presso l’Ospedale Psichiatrico Paolo Pini di Milano e presso l’Ospedale Psichiatrico di Bergamo. Ha diretto per qualche tempo in qualità di primario il Servizio Psichiatrico dell’Ospedale di Vimercate. Nel 1979 si trasferisce all’Università Statale di Milano, Facoltà di Lettere e Filosofia nell’Istituto di Psicologia diretto dal Professor Franco Fornari. Ha ricoperto l’incarico di assistente ordinario e poi di docente associato di Psicologia Dinamica prima all’Università Statale e poi presso la Facoltà di Psicologia dell’Università di Milano Bicocca presso la quale ha anche diretto la Scuola di Specializzazione di Psicologia del Ciclo di Vita. Nel corso degli anni Settanta ha effettuato un training di formazione psicoanalitico presso il Centro milanese di Psicoanalisi dal quale si sono poi dimesso. Nel 1985 con l’appoggio di Franco Fornari, assieme con i giovani assistenti dell’epoca, ha fondato l’Istituto Minotauro di cui è stato Presidente per ventisette anni, fino al 2011. L’Istituto tuttora in funzione aveva l’obiettivo di verificare l’utilità del modello del Codici Affettivi nella analisi delle istituzioni, nell’educazione alla pace e nelle pratiche psicoterapeutiche rivolte ad adolescenti in crisi. Da circa venticinque anni è presidente del CAF Onlus Centro Aiuto al Bambino Maltrattato e alla Famiglia in Crisi. Nel corso degli anni Novanta è stato nominato dal Consiglio Superiore della Magistratura Giudice Onorario del Tribunale per i Minorenni. Attualmente è socio della Cooperativa Minotauro, docente della Scuola di Psicoterapia dell’Adolescenza ARPAD Minotauro, Milano e Responsabile scientifico Comunità Residenziale per i disturbi della condotta alimentare Casa per la Salute della Mente di Brusson, Valle Aosta e Direttore Scientifico dell’Osservatorio Giovani IPRASE di Trento. È direttore scientifico della collana “Adolescenza, educazione, affetti” dell’editore Franco Angeli Editore di Milano.
“Il rilancio – prosegue Cavarra – avverrà concentrandosi sull’universo giovanile, ambito che ci sta particolarmente a cuore e rispetto al quale questa amministrazione vuole lasciare un segno tangibile. Ho condiviso con l’avvocato Melley la volontà di dar vita a questa nuova impostazione poiché la ritengo un’occasione di crescita determinante per la nostra città.
Vogliamo coinvolgere operativamente e dal punto di vista organizzativo le energie locali, che sono molte e che, ne sono certo, unite alla grande competenza di Pietropolli Charmet, saranno garanzia di un rilancio vero e dell’inizio di una nuova stagione di successi”.
http://www.cittadellaspezia.com/Sarzana/Cultura-e-Spettacolo/Il-Festival-della-Mente-cambia-strada-151072.aspx

“TUTTO SUA MADRE” DI GUILLAUME GALLIENNE. FILM COMICO E SOVVERSIVO SU UN (NON) OMOSESSUALE
di Eliseo del Deserto, tempi.it, 30 gennaio 2014

Un film sovversivo almeno per tre ragioni: la prima è che la storia racconta di un ragazzo che ha dovuto assumersi il carico di riaffermare la propria eterosessualità, in una società e in una famiglia che aveva decretato la sua omosessualità. Sono più o meno queste le parole che il protagonista, interprete contemporaneamente di sé stesso e di sua madre, pronuncia in una delle scene  finali del film (ma tradotte diversamente nel libro edito da Frassinelli). [1] E’  una storia in cui, con le dovute eccezioni, tutti i ragazzi che sono stati  “bambini diversi” si possono riconoscere: il bullismo, la negazione per  lo sport, in particolare per il calcio, i travestimenti femminili, la confidenza  con la madre e il desiderio di non tradirla, la distanza emotiva dal padre, la debolezza per il proprio migliore amico.
Non manca una descrizione piuttosto cruda di un certo modo di “fare  conoscenza” nel mondo omosessuale.
Film sovversivo perché comico. Guillaume Gallienne non è un pivello. E’ membro della Comédie Française e uno degli attori francesi più amati. L’attore racconta la sua epopea con autoironia ed umorismo, impossibile trattenere le  risate. Anche nei momenti più drammatici, Guillaume (oltretutto regista e  sceneggiatore del film) porta fino alla commozione, ma subito ne smorza la  tensione, con uno scherzo, un’irriverenza, una gag.
La vera rivoluzione del film però, sta nel “non detto”, così evidente da non passare inosservato. La testimonianza di una vita è così schiacciante! Qualunque omosessuale ci si potrebbe riconoscere. Certo conosciamo tante testimonianze di  omosessuali che sono diventati etero, ma qui non c’è nessuna professione di fede, nessuna egodistonia, nessun trauma che porta a cercare un’altra identità.  E’ soltanto una presa di coscienza, non il rifiuto di una condizione, non  il “pentimento di un finocchio”, come lo accusa sua madre, ma  l’amore per una donna, Amandine che lo porta ad uscire dalla sua identità  fittizia e scoprirsi eterosessuale.
E’ interessante anche leggere le interviste fatte all’attore, così come  leggere la postfazione del libro. Repubblica ad esempio chiede a Guillaume Gallienne di giustificare il suo innamoramento per Jeremy, il suo migliore amico, durante gli anni del college. Guillaume risponde: “Se anche lui si fosse innamorato di me forse la mia vita sentimentale avrebbe preso  un’altra direzione. Invece non lo ha fatto, ed ho incontrato Amandine che oggi è mia moglie e la madre di mio figlio.”[2]. Ma io vorrei fare un’altra domanda, che nasce proprio dal “non detto” del film, la vorrei fare a Repubblica, a tutti quelli che lottano per dei presunti diritti della comunità  gay ed anche a voi: ma se Guillaume non avesse avuto l’intelligenza e la sensibilità di interrogarsi sulla sua identità, se non avesse incontrato Amandine, se non ci fosse stato un altrettanto intelligente psicanalista (come è  scritto nella postfazione al libro[3], nel film lo si vede appena, ma è uno dei  personaggi più intensi.) [4], se non avesse avuto un istruttore di equitazione  così paterno, come avrebbe potuto Guillaume scoprire di non essere omosessuale come sua madre, tutta la sua famiglia e la società aveva deciso che lui fosse?
Queste le parole di Guillaume nel testo teatrale: “… a me interessa  raccontare la storia di un ragazzo che, con la scusa di essere nato in un’epoca  in cui i tabù sessuali venivano meno, si ritrova addosso l’etichetta di un certo  orientamento sessuale…” [5]. E’ questo il risultato della libertà di cui parla la nostra società così moderna? Mi fermo con le domande, per non diventare polemico andando oltre le intenzioni dell’autore.
Termino rivolgendomi a tutti quei ragazzi che come me stanno cercando la loro  vera identità: leggete il libro e andate a vedere il film (che non tradisce traducendo, ma moltiplica i significati del testo), morirete dalle risate e piangerete (forse proprio dove altri rideranno), ma soprattutto capirete chi siete davvero!
1. Gallienne Guillaume, Les garçons et Guillaume, à table!, Les Solitaires  Intempestifs, Édition, 2009, Besançon – France, trad it. Tutto sua Madre,  Sperling & Kupfer Editori, per Edizioni Frassinelli, Milano, 2014.
2.  www.repubblica.it/spettacoli/cinema/2014/01/22/news/guillaume_gallienne-76545323
3. Gallienne Guillaume, Tutto sua Madre, p. 99
4. Nel libro si parla anche di una logopedista che lo aiuta a ritrovare la  sua voce. Ibi, pp. 65-66 e p.99
5. Ibi, p. 89
(Vedi il II video in basso)

http://www.tempi.it/tutto-sua-madre-di-guillaume-gallienne-film-comico-e-sovversivo-su-un-non-omosessuale#.Uu3vAcFd7IU
 

«LA REALTÀ CHE CI CIRCONDA È COMPLESSA E ABERRANTE». PER LO STUDIOSO BAHARIER DOBBIAMO AFFIDARCI AL PENSIERO SPIRITUALE

CULTURA. L’esperto di pensiero ebraico mette in guardia sulle deviazioni imposte dalle religioni e dalla filosofia
di Carlotta Vedovato, triesteallnews.it, 31 gennaio 2014
 
Al Politeama Rossetti lo studioso di ermeneutica biblica e di pensiero ebraico, nonché matematico e psicoanalista Haim Baharier (nella foto) è riuscito a stupire il pubblico fin dalle prime battute. Con un incipit del tutto originale, quale l’intonazione struggente e lirica di una melodia hassidica, la sua lezione si è configurata, infatti, come un viaggio profondo finalizzato alla scoperta e alla conoscenza della spiritualità dal punto di vista laico.
L’arte maieutica di questa insigne personalità ha scavato all’interno dell’espressione spiritualità dietro la quale sono stratificati secoli di cultura e abitudini di linguaggio, partendo da un’iniziale definizione che la ritrae come un qualcosa che noi assimiliamo all’ideale e all’etereo: «È un qualcosa che fa la differenza, che noi stessi mettiamo in relazione alla parola anima e che soprattutto associamo alle religioni e quindi a ciò che ha a che vedere con la fede».
Successivamente, la riflessione, costellata di sapienti aneddoti e aforismi di matrice ebraica, ha portato alla scoperta di un problema piuttosto grave a cui assistiamo oggigiorno: l’esistenza di due deviazioni della spiritualità. Nel primo caso le religioni mirano a considerarsi superiori, potenti e tali da esercitare una supremazia sulla spiritualità stessa; nel secondo caso è la filosofia che tende a imprigionare la spiritualità nell’idealismo per cui si può parlare di «una prigionia dorata nell’immateriale». Lo studioso di ermeneutica, nell’ambito di queste osservazioni ha anche focalizzato l’attenzione sul reale pericolo di assuefazione alla spiritualità da parte delle cosiddette «ortodossie religiose».
Di che cosa abbiamo bisogno per parlare consapevolmente e con accuratezza di tale fondante concetto di spiritualità? Di fiducia, proprio quella che ebbe il popolo di Israele nei confronti di Adonai e Mosè nell’attraversare il mare dei Giunchi (Bibbia, Pentateuco, Esodo), come ha asserito lo stesso Baharier.
Inoltre, si è rivelato brillantemente versatile nell’intrecciare l’ermeneutica biblica e la tradizione del pensiero ebraico con la psicoanalisi, così da esplicitare con finissimo acume il rapporto che intercorre tra la spiritualità religiosa e i sogni, spaziando da Freud alla Bibbia. Pertanto ha istituito una suggestiva comparatio tra la natura effimera del sogno e la sazietà del corpo con questo indimenticabile aforisma: «Il sogno è il pane dell’anima come il pane è il sogno del corpo». In seguito, attraverso un appassionante eloquio è riuscito ad approfondire ulteriormente la tematica centrale della conferenza richiamandosi alle originali riflessioni di grandi maestri, quali il lituano Israel Salanter e Léon Ashkenazi, quest’ultimo padre della rinascita del pensiero ebraico in Francia.
Capace di suscitare la nostra attenzione sulla complessa e aberrante realtà che ci circonda, non possiamo non condividere la considerazione secondo cui l’esistenza dei bisogni materiali induce noi stessi ad approfondire il nostro pensiero spirituale, come aveva acutamente compreso il già citato I. Salanter quando afferma: «Che le tue necessità materiali siano i miei bisogni spirituali».
 
http://www.triesteallnews.it/index.php/cultura/5617-la-realta-che-ci-circonda-e-complessa-e-aberrante-per-lo-studioso-baharier-dobbiamo-affidarci-al-pensiero-spirituale.html

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