GALASSIA FREUD
Materiali sulla psicoanalisi apparsi sui media
di Luca Ribolini

Aprile I - Presentazioni e rappresentazioni: sogni, lavori, Goldoni, Brando, Von Trier

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11 aprile, 2014 - 14:44
di Luca Ribolini

ZOJA: “DALL’AFFETTO AI PRANZI INSIEME, LA FAMIGLIA INFINITA È UNA RISORSA CONTRO LA DERIVA”

Parla lo psicanalista junghiano, narratore dei nuovi rapporti genitori-figli
di Maria Novella De Luca, repubblica.it, 1 aprile 2014
“C’è qualcosa di buono e di pericoloso insieme nella famiglia allungata. C’è l’affetto, il sostegno, ci sono valori spirituali importanti. Ma nel permanere troppo in un guscio protetto, tra conflitti che non esplodono, il rischio per i giovani è quello di ritrovarsi a vivere in un ambiente depressivo e ripiegato su di sé”. Un nido troppo caldo cioè, che non permette di spiccare il volo. Per Luigi Zoja, psicanalista junghiano, narratore dell’anima e dei miti, dei padri che cambiano nel Gesto di Ettore e dunque dei nuovi rapporti genitori-figli, la “famiglia infinita” è un contenitore di chiaroscuri, di forze e di sentimenti contrastanti.
Zoja, come si vive in queste famiglie dove figli non vanno più via?
“Credo che nello stile mediterraneo ci siano dei forti aspetti positivi. La solidarietà, il sostegno tra generazioni. La cura dei più deboli di cui si fa ancora eroicamente carico la famiglia. Il cibo, lo stare insieme come aiuto reciproco. In questo noi siamo diversi da tutti gli altri. Positivamente diversi”.
E i giovani come si sentono? Non c’è qualcosa di regressivo nel coabitare così a lungo?
“Sì, se la convivenza viene protratta per troppo tempo. I conflitti magari non esplodono, ma questo non vuol dire che non ci siano, o che non si respiri un’atmosfera depressiva. Non credo ad esempio che gli adulti siano neutri rispetto alla vita sessuale dei figli, ai loro comportamenti, che forse non condividono. Però c’è tolleranza. I genitori e i nonni sostengono con enorme generosità le nuove generazioni, ma il paradosso è che così i giovani diventano poco adattabili, più conservatori, meno inclini a rischiare”.
Un po’ viziati insomma?
“I ragazzi chiedono e cercano la loro autonomia, ma certo è diverso vivere con un clan di adulti, invece che con altri ventenni in un rapporto alla pari. Misurandosi, sfidandosi. Ma in un momento tanto drammatico, in questa crisi economica sempre più dura, a me sembra che la cultura familiare ancora così forte Italia, sia una straordinaria risorsa contro la deriva psicologica e sociale”.
Ma come si comportano i genitori verso figli ormai adulti e i figli verso madri e padri di cui si sentono già pari?
“È evidente che non esistono più le regole del patriarcato, nemmeno in queste nuove famiglie allungate. C’è la coppia dei genitori e quasi sempre un figlio unico. Ma la coppia, là dove è rimasta integra, non è più un fronte comune come accadeva nelle generazioni precedenti, ma privilegia con il figlio un rapporto autonomo. E il fatto che questi siano adulti non è un problema: le relazioni sono trasversali, sono generazioni cresciute già in un rapporto paritario con il mondo dei grandi”.
Lei ha parlato dello stile mediterraneo…
“È un modo di dimostrare l’affettività. Il cibo ad esempio. Fondamentale nelle famiglie italiane. È un prendersi cura gli uni degli altri. I giovani mangiano a casa, nelle famiglie si cucina. I ragazzi inglesi consumano da soli e davanti alla tv cibi precotti e hanno uno dei tassi di obesità più alti in Europa. Devo dire che dopo molti anni oggi mi ritrovo in certi messaggi della Chiesa. La crisi rischia di aumentare la frammentazione in cui viviamo, i vecchi abbandonati negli ospizi, i malati in ospedale, in questo senso la famiglia è uno scudo, uno schermo buono”.
Anche se i “ragazzi” restano a casa fino a 35 anni?
“Naturalmente no. Lo sforzo deve essere quello di aiutarli ad uscire. Abbiamo di certo qualcosa da imparare dai paesi anglosassoni dove l’autonomia dei giovani è considerata fondamentale. Senza perdere però la grande forza della nostra cultura mediterranea, dove la famiglia è ancora oggi il porto affettivamente più saldo”.
http://www.repubblica.it/cronaca/2014/04/01/news/luigi_zoja_dall_affetto_ai_pranzi_insieme_una_risorsa_contro_la_deriva-82439901/?rss

 

LE GIORNATE DI «GENIO E REGOLATEZZA» CHE HANNO RESO GRANDI ARTISTI E PENSATORI. Come impiegavano il tempo Flaubert e Kant? Leggevano e sgobbavano

di Paolo Di Stefano, Il Corriere della Sera, 1 aprile 2014
Genio e sregolatezza? Genio e follia? Qualche volta, ma prima di tutto, sempre: il lavoro. Se nelle giornate dei grandi scrittori, pensatori e musicisti del passato cercate la ricetta magica della genialità, resterete delusi. Non c’è quasi niente che li renda simili. Freud amava giocare a carte, Auden passava ore a sbevazzare, Flaubert non rinunciava alla chiacchierata con mamma, Kant non si faceva mancare la passeggiata serale, Dickens marciava per tre ore, Mozart impiegava un’oretta per vestirsi, a Thomas Mann piaceva la pennichella pomeridiana. Ognuno è genio a modo suo; del resto: non c’è niente di più individuale del talento. L’unica costante è la cosa più terre-à-terre che si possa immaginare: il lavoro. L’accensione del genio si realizza solo nella banalità del metodo. Tutti dormono con regolarità, neanche il brivido dell’insonnia che farebbe tanto genio alla Hemingway. È vero che Milton si svegliava alle 4 del mattino, ma andava a nanna alle 9 di sera, con le galline. E se proprio si deve trovare una stravaganza, rivolgetevi a Balzac, che alle sei del pomeriggio era già a ronfare. Ma se all’una di notte era sveglio come un grillo con la penna (d’oca) in mano, aveva pur dormito sette ore piene.
A chi gli chiedeva il segreto delle sue composizioni, il poeta Paul Valéry rispondeva che il primo verso viene da Dio, il resto è una fatica disumana (o umanissima). Pensate che cosa ne sarebbe stato del talento di Mozart se non avesse sgobbato — tra composizione, concerti, lezioni — 12 ore al giorno. Certo, è anche vero il contrario: 12 ore al giorno di lavoro senza talento non bastano a fare un Mozart e neanche un Darwin. Ed è pur vero che Flaubert dedicava alla scrittura non più di 5 ore (fino alle tre di notte), ma ne impiegava almeno altrettante a leggere: provate voi a leggere per cinque ore al giorno! C’è poco da fare, i risultati, anche per i geniacci, si giocano sulla costanza, sulla regolarità. Geni e regolatezza. A volte regolatezza inutile, se un giorno Oscar Wilde esclamò sconsolato: «Oggi ho impiegato tutta la mattinata a mettere una virgola e tutto il pomeriggio a toglierla». Sudate carte? Sudatissime. La morale della favola è: che fatica e soprattutto che noia essere un genio.
http://rstampa.pubblica.istruzione.it/rassegna/rassegna.asp
 

STA NASCENDO LA STATUA DELLA RESPONSABILITÀ! La visione del grande intellettuale austriaco Viktor Frankl sta divenendo realtà grazie allo scultore americano Gary Lee Price ed alla Statue of Responsibility Foundation. La Statua della Libertà avrà presto una compagna sulla Costa Ovest degli States

di Mattia Baglieri, huffingtonpost.it, 2 aprile 2014
 
In Austria tutti conoscono il pensiero e la figura, profondissimi, di Viktor Frankl. In Italia, invece, le sue numerose opere hanno interessato dal Secondo Dopoguerra una cerchia ben più ristretta: i libri del grande psichiatra e filosofo viennese (Vienna, 1905-1997) sono stati tradotti e pubblicati soprattutto per piccole case editrici grazie all’impegno incessante di Eugenio Fizzotti, sacerdote salesiano. È tempo, come sta accadendo negli Stati Uniti, che l’opinione pubblica diffusa si arricchisca del contributo analitico di questo profondo osservatore del nostro tempo, qual era Frankl, già discepolo della prima ora di Sigmund Freud e fautore della Terza Scuola di Psicoterapia viennese, dopo la Psicanalisi dello stesso Freud e la Psicologia Individuale di Alfred Adler. È tempo che il messaggio di questo critico appassionato del pensiero heideggeriano venga disancorato da una rilettura prettamente religiosa cui lo psichiatra austriaco (ebreo di nascita e fede) viene ancora troppo spesso confinato in Italia e che l’interpretazione della sua opera sia calata in una prospettiva pienamente mondana.
Il contributo di Frankl, infatti, può “dare senso alla vita” di tutti noi (per prendere in prestito parole che diedero il titolo ad un suo libro). Frankl nacque a Vienna nel 1905, negli anni del Ginnasio conobbe Freud e a soli 19 anni un suo articolo apparve sulla rivista diretta dal più celebre psichiatra di tutti i tempi, la Internationale Zeitschrift für Psychoanalyse. Si iscrisse poi alla Facoltà di Medicina, per specializzarsi in Neurologia. Ancora negli anni dell’Università fondò nella capitale austriaca un centro di ascolto e di supporto per i giovani che aveva il fine precipuo di prevenire il suicidio tra le giovani generazioni. Venne deportato in numerosi campi di concentramento, tra cui Auschwitz-Birkenau, in seguito all’annessione dell’Austria da parte della Germania hitleriana. La sua famiglia fu completamente sterminata, le memorie della madre, del padre, della moglie rimangono solo nel capolavoro indiscusso di Frankl, che in Italia porta il titolo Uno psicologo nei lager (in inglese il titolo originario suona eloquentemente Man’s search for meaning: “l’uomo alla ricerca di significato”, Ares, Milano 2009, ventesima edizione). Ritornato a Vienna, Frankl si sposò qualche anno dopo la morte della prima moglie Tilly Grosser, ed ottenne l’incarico di Primario in Neurologia al Policlino di Vienna. Conferenziere instancabile, insegnò anche nei più prestigiosi atenei del mondo: da Harvard, a Pittsburgh, a Stanford. Il fondatore della Logoterapia o Analisi Esistenziale, discreto pianista con l’hobby degli occhiali, a novant’anni aveva ricevuto più di 20 lauree ad honorem e scritto 34 libri per il pubblico più diffuso, tradotti in decine di lingue.
La visione di Viktor Frankl sostiene che il concetto di libertà sia sempre da declinarsi in termini di responsabilità e di servizio. Amante della scultura, gli venne l’intuizione di accompagnare la Statua della Libertà che sta a presidio del sistema ideale liberale statunitense con una Statua della Responsabilità sulla Costa Ovest degli States. “La libertà – sostiene Viktor Frankl in molte sue opere – rappresenta solo una parte della storia, solo una parte della verità. La libertà è solo l’aspetto negativo di un fenomeno il cui lato positivo è la responsabilità. Auspico, per questo, che la Statua della Libertà sull’East Coast degli Stati Uniti sia presto accompagnata da una Statua della Responsabilità sulla Costa Ovest”. Oggi che il sogno di Viktor sta diventando realtà, abbiamo incontrato lo scultore della Statua della Responsabilità Gary Lee Price che si è prefisso di dare realizzazione pratica al sogno di Viktor Frankl.
Gary, ci descriva il progetto 
“Ho cominciato a lavorarci nel 1997, su richiesta dell’imprenditore Kevin Hall, che nel 2002 sarebbe diventato fondatore e presidente della Statue of Responsibility Foundation. La Statua della Responsabilità sarà composta da due mani sovrapposte, realizzate in bronzo ed acciaio inossidabile, strette in una fraterna mossa di supporto: un uomo dà una mano a un altro. Nel 2004, insieme ad una delegazione dagli Stati Uniti, ho visitato la vedova di Viktor, Ellie Frankl, nella casa dei Frankl, a Vienna. Tra le lacrime, dopo avere preso visione dei miei primi prototipi, mi ha mostrato la scultura preferita di Frankl “L’uomo che soffre”: era un busto di uomo in legno, le due mani, tese verso l’alto, chiedevano aiuto. “Hai dato risposta all’interrogativo di Viktor: Dov’è la mano che dà aiuto a quest’uomo?” mi confidò Ellie.”
A che punto è il lavoro? Quanto costerà la realizzazione del progetto?
“Dopo aver già realizzato innumerevoli piccoli prototipi, sto ultimando la versione alta cinque metri, nel campus della Utah Valley University ad Orem. Realizzerò anche un secondo prototipo di 10 metri, mentre in cinque anni è previsto l’avvio dell’opera definitiva, che sarà alta novanta metri. L’opera sarà affiancata da un centro per i visitatori ed una terrazza panoramica verrà realizzata sulla punta della statua. Tra le città in lizza per ospitare il grande monumento figurano San Diego, Los Angeles, San Francisco e Long Beach in California; Portland in Oregon e Seattle nello Stato di Washington. Tutte queste città sono affacciate sul Pacifico o a pochi chilometri da esso, ma il mio Utah è stato dichiarato ufficialmente il “luogo di concepimento” della Statua della Responsabilità. Il costo complessivo della realizzazione si aggira sui 300 milioni di dollari. Sul sito statueofresponsibility.com ci sono tutte le informazioni artistiche riguardo all’opera e le modalità attraverso cui dare un contributo”.
Qual è il messaggio che vuole infondere attraverso la sua opera?
“Vorrei riproporre la stessa visione del pensiero di Viktor Frankl: è necessario oggi più che mai connettere l’umanità. Questa statua è molto più di un monumento: essa è un movimento. È arrivato il tempo per realizzare la visione di Frankl, i cittadini di questo mondo sono pronti. È tempo di prendersi davvero cura di chi ci sta vicino. È tempo, per ciascuno di noi, di rispondere alla domanda che si poneva Frankl dinanzi al busto dell’”Uomo che soffre”: sono io la mano che ti aiuta.”
http://www.huffingtonpost.it/mattia-baglieri/sta-nascendo-la-statua-dell...
 

MARLON BRANDO, NEL SUO ELEMENTO NATURALE. A 90 anni dalla sua nascita e quasi 10 dalla sua morte è uno dei più grandi miti del cinema mondiale

di Giulio D’Antona, linkiesta.it, 2 aprile 2014
Dal 3 aprile 1924 almeno fino al 9 novembre 1957, Marlon Brando non aveva mai aperto un romanzo. Niente narrativa, soltanto manuali di respirazione yoga, meditazione, filosofia e pensiero buddista. «L’appartamento dell’hotel Miyako era una di quelli arredati secondo il gusto giapponese, al contrario degli altri. C’erano due camere, un bagno e un solarium. Senza sovrapporle lo scompiglio degli averi di Brando, la camera sarebbe stata un’immagine perfetta per un catalogo di arredamento orientale. I pavimenti erano rivestiti di tatami, punteggiati di discreti cuscini di seta. C’era un dipinto raffigurante alcune carpe nel loro elemento naturale e dietro a esso stava un vaso pieno di gigli e foglie rosse. La più grande delle due stanze – quella interna – che gli occupanti usavano come una sorta di ufficio e dove lui dormiva e mangiava, conteneva un lungo tavolo laccato e un giaciglio. In queste stanze il contrasto tra arredo giapponese e occidentale – il primo incentrato sulla mancanza di oggetti, un’assenza totale di messa in mostra dei possedimenti, l’altro fondato sull’esatto opposto – era evidente, perché Brando sembrava non voler utilizzare gli spazi di stoccaggio dell’appartamento, divisi dal resto degli ambienti da porte di carta di riso. Tutto quello che possedeva era lì, da vedere. Magliette, da lavare, calzini, scarpe e maglioni e giacche e cappelli e cravatte, sparsi in giro come i vestiti di uno spaventapasseri fatto a pezzi. E macchine fotografiche, una macchina da scrivere, un registratore, una stufetta elettrica in funzione con soffocante efficacia. Qui e là frutta spizzicata. Una scatola delle famose fragole giapponesi, grandi quanto delle uova. E libri». A scrivere è Truman Capote, sul New Yorker, dopo aver raggiunto Brando in Giappone. Descrive un uomo di trentatré anni, all’apice del successo, tanto in alto nella scala gerarchica dell’industria cinematografica da superare di una spanna i produttori e potersi permettere un contratto privato con una major – la Warner Brothers. Talmente in alto da essere già un’icona, da avere già accumulato abbastanza metri di pellicola da lasciarsi andare con il fare di una star consumata. Senza mezzi termini, qui parliamo di una leggenda, raccontata da un’altra leggenda.
Brando si trovava in Giappone da più di un mese, stava partecipando alle riprese di Sayonara, di Joshua Logan. Un paio di anni prima aveva vinto un Golden Globe e un Oscar come miglior attore protagonista per Fronte del porto, ma era stato già nominato dall’Academy per tre volte – Un tram che si chiama desiderioViva Zapata! e Giulio Cesare – e Sayonara gli avrebbe valso la quarta nomination, senza contare l’Henrietta Award – un premio della stampa internazionale che fino al 1980 ha eletto il miglior attore del mondo –, del 1956. Miglior attore del mondo, a trentadue anni.
Capote andava a scrivere di colui che si era elevato sulla massa brulicante dell’industria in sviluppo, assieme a pochi altri, e si preparava a entrare nell’Olimpo per non uscirne più. Era una mosca bianca, una forma inedita di genio brullo. «Alcuni della compagnia pensavano che la protezione sociale applicata su Brando dal suo stretto giro di collaboratori – tre o quattro persone, guidate da Marlon Brandon Sr. in veste di manager – gli impedisse di entrare in contatto con lui bene come avrebbero voluto. Durante il tempo passato in Giappone si è distinto sul set come un piacente giovanotto, piacevolmente trasandato, sempre pronto a cooperare con i compagni – soprattutto gli attori – anche se spesso non socialmente disponibile. Che preferiva, durante le lunghe e noiose pause tra una scena e l’altra, stare seduto in disparte e leggere libri di filosofia o scribacchiare su un quadernetto a righe. Dopo la giornata di lavoro, anziché accettare gli inviti dei colleghi per una bevuta, un piatto di pesce crudo in un ristorante e un giro furtivo nel vecchio quartiere delle geyshe di Kyoto, invece di contribuire all’atmosfera da grande famiglia, di festicciole bonarie che generalmente contraddistingue il lavoro di una produzione all’estero, tornava al suo hotel e ci restava».
«Brando è una delle persone più eccitanti che io abbia conosciuto dopo Greta Garbo. È un genio, ma non so come è fatto. Non so niente di lui» diceva nella stessa occasione Joshua Logan. E se è vero che i più grandi fan dell’industria sono quelli che ci vivono dentro, Brando è stato la più grande ed eclatante eccezione. Mancavano ancora una ventina d’anni alla seconda volta da miglior attore protagonista – per Il padrino, nel 1973 – cui avrebbero fatto seguito altri due Henrietta, diversi Golden Globe e l’eterna luce a illuminare il più grande, largo e comodo tra i viali del tramonto. Scelto, non imposto, alla fine degli anni settanta, con la lucidità di un uomo maturo e la frenesia di un ragazzino. Anticipato dal suo personaggio perduto e in declino: il colonnello Kurtz di Apocalypse Now. Come è noto, l’Oscar per Il padrino non lo avrebbe ritirato, per protesta a favore dei nativi americani, unico caso nella storia del cinema. Ecco, il Brando raccontato da Capote nel 1957 è già il ritratto, riconoscibile e chiaro, di quello che poi sarebbe diventato. È la storia di una persona prima che di un attore, fedele a se stessa. Libera di scegliere e contenta di farlo.
L’importanza dell’esercizio delle proprie scelte è sempre stato un punto fondamentale della carriera di Marlon Brando, che difficilmente si è prestato a comparsate o ha accettato ruoli che non sentiva lo rappresentassero. E anzi, il fatto di approvare il ruolo, di non uscire da quelle che erano le sue idee e le sue predisposizioni è stata la cosa che lo ha, probabilmente, trasformato nell’icona che è.
«Torta di mele, è tutto quello di cui ho bisogno. Dovrei essere a dieta ma riesco a mangiare solo torta di mele e cose del genere» dice Brando a un Capote incuriosito e pungente, che guarda entrare e uscire una cameriera ridacchiante – «i giapponesi ridacchiano, è tutto quello che fanno, e le donne ridacchiano ancora più degli uomini» – che a ogni passo sembra dover inciampare nel kimono svolazzante. La cosa delle torte di mele è un perfetto esempio di come doveva essere parlare con lui intorno ai suoi trent’anni. Diceva quello che pensava e faceva i film che gli piacevano, come gli piaceva farli. Certo, molto ha aiutato il fatto di essere un fenomeno vivente, gradevole da osservare e estremamente preciso e meticoloso nel suo lavoro. Però la libertà assoluta di scegliere di assomigliare al proprio personaggio, di diventare il proprio personaggio, è un valore aggiunto al quale non tutti gli attori possono aspirare, anzi probabilmente molto pochi, oggi. È qualcosa che va di pari passo con la coscienza di sé, con la consapevolezza delle proprie capacità e dei propri limiti, e in certi casi della loro esasperazione.
«Sei mai stato in analisi? – chiede Brando a Capote a un certo punto, quando finalmente l’intervista entra nel vivo. All’inizio ero spaventato. Avevo paura che potesse distruggere gli impulsi che mi rendono creativo, un artista». Consapevolezza di sé, appunto. «Una persona sensibile capta cinquanta segnali dalla stessa fonte dalla quale chiunque altro ne coglierebbe solo sette. Le persone sensibili sono molto vulnerabili. È così facile abusare di loro, ferirle. Perché sono così sensibili. Più sei sensibile più è facile che ci rimarrai male, che ti riempirai di cicatrici. Non evolvere mai. Non permettere a te stesso di provare niente, perché proveresti sempre troppo. L’analisi aiuta. Comunque gli ultimi otto, nove anni sono stati un casino…». È come sentire parlare una rockstar, un genio incompreso, un eccellente reietto. È difficile dipingere addosso a queste parole la faccia di Brando, fargli indossare la maglietta bianca e il giubbotto di pelle, dargli quello sguardo che chiunque riconoscerebbe pur non avendolo mai visto recitare. Ma è allo stesso tempo una grande prova dell’umanità che chiunque lo conoscesse gli attribuiva e per la quale anche oggi, a dieci anni dalla sua morte e novanta dalla sua nascita, nessuno si sognerebbe di togliergli un centimetro di quanto ha guadagnato. Di quanto ha costruito. E l’industria, commossa, ringrazia.
http://www.linkiesta.it/marlon-brando-truman-capote
 

L’ALTRA METÀ DEL SESSO. Da Freud a Sex and the City. Tra tabù e falsi miti la scoperta del piacere femminile è stata una conquista. Così è saltata la costruzione artificiale fatta sulla natura: madre, monogama, fedele, priva di fantasie erotiche. E la convinzione che la vecchiaia sia l’età dell’astinenza

di Natalia Aspesi, la Repubblica, 2 aprile 2014
OGNI volta che un uomo si occupa di sessualità femminile, a partire dal mitico Freud, si resta di sale: ma come, se lo raccontano ancora, ce lo raccontano ancora, che le donne non sono come da secoli se lo dicono e ce lo dicono? La loro signora non gli ha mai dato una sveglia? Non hanno mai letto i testi fondamentali degli anni ‘70, scritti ovviamente da donne in cui solo alle donne (gli uomini non li leggevano), si spiegava che “non era per piacere a Dio”, ma trovando una persona volonterosa e creativa, maschio solitamente, si poteva godere scompostamente “per piacer mio”, come si vede oggi in ogni pubblicità di yogurt gustato da femmine. Proprio nel paese del serioso giornalista Daniel Bergner che crede di sapere cosa vogliono le donne, gli Stati Uniti, uscì nel 1971 (poco dopo in Italia da Feltrinelli) “Our bodies, ourself”, in cui un collettivo femminile di Boston ce la raccontava tutta. Per le donne una rivelazione, sia per chi non ne sapeva niente e sperimentava il suo corpo nel sesso solo come un vuoto soporifero, sia per chi in certe situazioni si vergognava se le veniva da gridare, terrorizzando l’inconsapevole collaboratore. Il libro conteneva anche orrifici grafici di quella cosa là, assolutamente sconosciuta sia alla proprietaria che a chi se ne riteneva l’utente. Anche da noi i gruppi di autocoscienza si obbligarono a mettere uno specchietto tra le gambe per vedere questa cosa invisibile, che si era costrette tra brividi a trovare bellissima. Quel saggio fu radicale, disse di smetterla di credere o far finta di credere all’illusione maschile di possedere uno strumento penetrativo salvifico e in grado di far felici le donne già al primo sguardo. Disse, sorpresa! che il vero piacere femminile era nel clitoride, sempre che si trovasse qualcuno con la pazienza di rintracciarlo: o di seguire gli ordini della proprietaria che per conto suo l’aveva già favorevolmente sperimentato.
Da quel momento i testi scritti da donne sull’argomento furono una valanga, comprese le inchieste anni ’70 di Nancy Friday sulle fantasie masochiste femminili, che si riallacciavano al magistrale e a suo tempo proibito Histoire d’O( anni ‘50), della porchissima studiosa di monachesimo Paulin Reage. Lo smascheramento di massa della sessualità delle donne, silenziosamente, mandò all’aria, almeno teoricamente, tutta la costruzione artificiale sulla loro natura: madre (o puttana), monogama, fedele, priva di fantasie erotiche, nemica della pornografia (anche se ormai scritta da donne e letta quasi solo da donne).
Da anni ormai al cinema sono più le scene in cui è lui ad abbassarsi goloso sotto la vita di lei, che intanto mugola, di quelle in cui è lei a farlo su di lui (che spesso non mugola). Resta indimenticabile un film inglese molto divertente accolto però con una certa pruderie, Hysteria (2011) che racconta dell’invenzione fine Ottocento dell’antenato del vibratore: adottato dai medici come cura all’isteria, cioè a quella perniciosa malattia che era l’impossibile godimento delle donne. La televisione ha portato in tutto il mondo l’intelligente, spiritosa, coraggiosa serie Sex and the city, 94 puntate dal ‘98 al 2004, ridate anche da noi decine di volte e sempre illuminante: scritta da donne ha raccontato benissimo il bisogno d’amore femminile attraverso l’accumulo di avventure sessuali e talvolta pure sentimentali, sino all’immancabile finale, quello non cambia mai, del “vissero felici e contenti”.
Ma in generale la maschilità è zuccona, smemorata, fragile ed egoista: ancora sono in tanti, anche cervelloni, a immaginare l’erotismo come un servizio addirittura sociale, pure a spese dei contribuenti, che si prenda per esempio carico degli anziani insaziabili, senza neppure obbligarli non si dice a pagare, ma almeno a meritarselo con una certa capacità di seduzione o di risvegliare in buone Signore della Lampada un senso di cura e abnegazione. Giovani però, perché il maschio vecchio tende a sfuggire le coetanee: non è di una donna che queste persone, hanno bisogno, ma di un contenitore che accolga senza orrore lo sfacelo del loro corpo. E le anziane? Hanno imparato da secoli a nascondere i loro non riconosciuti piaceri, a soddisfarli oppure a farne a meno, quasi sempre con grande contentezza, magari dopo decenni di noiosissimo sesso coniugale. Hanno maggior senso di dignità del loro corpo, hanno avuto quello che hanno avuto e va bene così. Però sono tante le coppie invecchiate insieme, e lo scrivono a Questioni di cuore, che continuano ad amarsi, con la meravigliosa tenerezza che nasce dall’abitudine, dal rispetto, dalla riconoscenza reciproca per quella gioia inestricabile che ha insegnato a due corpi ad armonizzarsi oltre la bellezza e la giovinezza.
http://www.zeroviolenzadonne.it/rassegna/pdfs/02Apr2014/02Apr201440617eee0f9d0f5db31de848942a77e5.pdf

 

BERGNER: “DESIDERI E TRASGRESSIONI, QUEL CHE LE DONNE SOGNANO”. Parla l’autore di Che cosa vogliono le donne: “Mi premeva analizzare i troppi fraintendimenti sul tema”

di Leonetta Bentivoglio, repubblica.it, 2 aprile 2014
La copertina del volume reca il disegno di due gambe femminili spalancate, in forma di V maiuscola, e famelicamente rivolte verso il titolo: Che cosa vogliono le donne. Come se le parole mirassero a guizzare proprio lì, nell’incavo finale. L’idea sarebbe quindi che il genere femminile vuole solo quello. Forse esistono anche signore che preferiscono lavorare, riflettere, andare in bicicletta e persino (ahi, sacrilegio!) provare sentimenti. Ma è dedicato all’esercizio di una sessualità totalizzante il saggio dello scrittore e giornalista americano Daniel Bergner, collaboratore del New York Times Magazine e della New York Times Book Review. Dati alla mano, Bergner intende dimostrarci appassionatamente che le donne godono, concupiscono, hanno uno scrigno gigantesco di elucubrazioni scabrose, se la spassano con il porno, possono infischiarsene di relazioni stabili e insomma sono biologicamente predisposte al sesso nonché infedeli per natura. La loro indole monogamica, motivata da esigenze congenite tipo l’accudimento della prole, sarebbe una scemenza inventata dai maschi. Davanti a tale mappa ardente, ora tradotta in italiano nel libro Che cosa vogliono le donne  -  Contro i luoghi comuni su sesso e tradimento (Einaudi Stile Libero), gli Stati Uniti scatenarono l’anno scorso un vero e proprio caso. Che la constatazione abbia suscitato un putiferio è quanto meno sorprendente. Come se fosse ancora credibile la fiaba vetusta del maschio libidinoso e della femmina indifferente al richiamo dell’eros e impregnata solo di romanticismo. Tuttavia il tono massimalista di Bergner merita un approfondimento.
Come si può generalizzare tanto, Mister Bergner?
“Le variazioni individuali riguardo al desiderio sono infinite, ed è di questo che tratta il mio saggio sulle parafilie, Il lato oscuro del desiderio. Ma ciò che mi premeva in “Cosa vogliono le donne” era analizzare i troppi fraintendimenti sul tema. Se il titolo suona generico, l’ambizione del mio lavoro era quella di ascoltare scienziate e donne normali per provare a contraddire opinioni tanto diffuse quanto devianti”.
Fin dagli anni ’60 il pensiero femminista ha messo in crisi gli equivoci generati dalla sociobiologia e dalla psicologia dell’evoluzione, che negavano la tendenza delle donne al sesso a prescindere dalla riproduzione. Eppure lei sembra voler lottare per il riconoscimento della forza della sessualità femminile.
“Bisogna farlo. Le donne con cui mi sono confrontato nella mia indagine mi hanno fatto comprendere fino a che punto i nostri pregiudizi culturali mistifichino l’esperienza del desiderio. Betty Friedan, con “La mistica della femminilità”, scrisse un libro pionieristico, e ancor prima ci sono stati i testi di Simone De Beauvoir. Ma non si concentravano completamente sull’eros, rispetto al quale la nostra cultura è stata sempre resistente”.
Perché ha deciso di votarsi all’analisi della sessualità femminile?
“Perché l’eros è il centro di ciò che siamo. Uno scienziato con cui ero in contatto per Il lato oscuro del desiderio un giorno mi disse: “Dovresti parlare con mia moglie sulle sue ricerche”. Così ho incontrato Meredith Chivers: immersa nel suo laboratorio, s’impegnava a scardinare i falsi miti che influenzano la visione del- la sessualità femminile. Il mio dialogo con lei è durato otto anni. Intanto si sviluppavano le mie ricerche e le mie interviste a donne delle quali narro le esperienze”.
Lei racconta che sono numerose le eterosessuali che coltivano fantasie omosessuali, mentre ciò non accade nei maschi etero.
“Questa realtà, scientificamente confermata, è stata una delle ragioni per cui la ricerca di Meredith mi ha conquistato. Nel suo laboratorio le donne avevano una reazione fisica molto intensa alle scene pornografiche che mostravano donne con donne, o donne da sole. Gli uomini invece non hanno questo genere di reazione”.
La sua inchiesta afferma che fantasie di stupro sono presenti in un’alta percentuale di donne. Non è una dichiarazione rischiosa?
“Spero che gli uomini siano abbastanza intelligenti da capire che c’è un’ampia differenza tra ciò su cui capita di fantasticare e ciò che vogliamo che accada. Questo è vero nel regno del sesso così come negli altri campi del vivere. La fantasia è una finestra potente affacciata sul desiderio: è il motivo per cui ho descritto certe fantasie riportate dalle mie intervistate. Il che, ovviamente, non deve indurre affatto a giustificare lo stupro”.
Sono stati davvero registrati sperimentalmente tre tipi di orgasmo femminile: vaginale, cervicale e clitorideo?
“Il dibattito si trascina da anni, e probabilmente durerà per sempre. Ho trascorso molto tempo con scienziati che isolavano diverse tipologie di orgasmo in maniera assolutamente tecnica: la scienza può essere comica e sexy. L’idea che l’orgasmo vaginale sia antifemminista appartiene a una prospettiva politica. L’ottica politica e quella erotica non sembrano andare d’accordo”.
“Cosa vogliono le donne” parla del leggendario punto G, spiegando che non è chiaro se esista o no…
“Alla scivolosità di questo tema contribuiscono vari fattori. Uno l’ho appena menzionato: secondo la vecchia scuola femminista parlare dell’orgasmo vaginale significa cadere in una trappola patriarcale freudiana. C’è poi un aspetto che è emerso con insistenza dalle mie ricerche: gli scienziati non hanno fatto per niente un buon lavoro per capire le caratteristiche dell’anatomia genitale femminile. Questa scoperta è stata per me stupefacente”.
Vuol dire che sono ancora ignoranti sull’orgasmo femminile?
“Lo sono molto, e temo volutamente. Fino a una decina d’anni fa, la scienza non conosceva la struttura sottostante al clitoride e la sua interazione con la parete vaginale. Questo suona molto tecnico, mentre il mio è un libro umano. Ma il dato ci fa capire quanto si sia svicolato da queste ricerche”.
http://www.repubblica.it/cultura/2014/04/02/news/bergner_desideri_e_trasgressioni_quel_che_le_donne_sognano-82544301/

 

LIBERTÀ E OMOLOGAZIONE, NON RASSEGNARSI ALL’INDIFFERENZA

di Giancarlo Ricci, avvenire.it, 2 aprile 2014
La logica dell’indifferenza, oggi così endemica, sembra infiltrarsi nei settori più sottili della coscienza dell’uomo contemporaneo. Il quale, probabilmente, presume di esercitare una sua piena libertà: quella appunto di attenersi all’indifferenza. E di potersi accomodare, così, in un gaudente cinismo. Che cos’è l’indifferenza se non il modo più economico, anestetico e rassicurante di convivere con l’alterità e la diversità? In realtà, l’umano non si rassegna all’indifferenza; anzi, la sua natura lo spinge a cercare la differenza, l’alterità, l’altrove.
Se oggi pare accadere il contrario è in quanto la società del cosiddetto benessere ha stravolto l’idea di libertà. Essa si è ripiegata su se stessa fino a diventare autoreferenziale ed esente da responsabilità. La tendenza all’individualismo, all’edonismo, alla creazione di una barriera protezionistica verso il prossimo hanno permesso il trionfo dell’indifferenza. Si tratta in effetti di un impoverimento, quasi di una sorta di collasso della soggettività. L’uomo contemporaneo tende a rinunciare a un’idea grande di libertà per garantirsi piccole felicità rassicuranti.
Facciamo un esempio, che fa riferimento al fascicolo – Educare alla diversità nella scuola – che il Dipartimento delle Pari opportunità e il Miur propongono agli insegnanti di tutte le scuole. Come Avvenire ha ampiamente riferito, troviamo domande, esercizi, questionari, risposte e suggerimenti intorno alla questione dell’omofobia e della discriminazione. Vi sono alcune domande (retoriche) tra cui questa: «Perché alcuni individui sono attratti da persone dello stesso sesso?». Risposta: «Per la stessa ragione per cui altri individui sono attratti da persone del sesso opposto» (p. 23). Sembra l’inizio di una barzelletta, purtroppo non è così. Riuscirà questa risposta a placare la feconda curiosità degli studenti? Non credo proprio. Ma non importa.
Quel che conta è che l’individuo, finalmente libero da pregiudizi, potrà ritenersi esente da ogni omofobia e discriminazione. Il nostro insegnante prosegue la lettura dello stesso fascicolo. Si ferma poi, pensoso, su un’altra frase: «L’età avanzata, la tendenza all’autoritarismo, il grado di religiosità, di ideologia conservatrice, di rigidità mentale costituiscono fattori importanti nel delineare il ritratto di un individuo omofobo» (p. 11). Il nostro si sente attanagliato da frenetici dubbi: quali di queste cinque caratteristiche potrebbe riguardarmi da vicino? Ben presto, per ciascuna delle suddette caratteristiche a rischio di omofobia, trova un rimedio.
E pensa: farò più palestra per combattere l’età avanzata, sarò più accondiscendente per smussare la tendenza all’autoritarismo, frequenterò di meno la mia parrocchia per diminuire il grado di religiosità, sarò un po’ più progressista per addolcire la posizione conservatrice, rinuncerò a qualche mio principio morale per attenuare la rigidità mentale. Alla fine, non sarò più omofobo, mai più. Ma appena giunge a simile conclusione gli viene da constatare che, in effetti, non lo è mai stato. Non ha mai spinto nessuno a rinunciare alla propria differenza. E quindi? In lui a questo punto irrompe un barlume di libertà, di quella libertà che cresce sul terreno di verità calpestate: non si precipita a chiudere il fascicolo per passare, impassibile, oltre, ma si prende la libertà di parlarne ad altri, di discuterne, di confrontarsi, di sentire ulteriori pareri.
Insomma, la libertà che oggi viene proposta sembra davvero una trappola: se la eviti, sei considerato un retrivo; se invece la pratichi assiduamente, puoi compiacerti di fronte al (tuo) modo di essere un uomo illuminato, all’altezza dei tempi. Ma ti inganni. Infatti, come da sempre gli umani sanno, la libertà non è gratuità. Non è “all inclusive”, tutto compreso, e già pronta all’uso. Non è un bene di consumo. Non si lascia consumare perché ogni volta esige una riconquista. La libertà è una pratica della differenza.
http://www.avvenire.it/Commenti/Pagine/non-rassegnarsi-all-indifferenza.aspx
 

COSA RESTA DEI PADRI? Un incontro del Centro Culturale con Massimo Recalcati, Franco Nembrini e Giacomo Poretti su una figura che sta scomparendo. Quella del papà. Un problema che non è nostalgico, ma «che ha bisogno di uomini che testimonino una vita»

di Francesca Mortaro, tracce.it, 4 aprile 2014 
Cosa resta dei padri nella nostra società? Una domanda che non si può ignorare, con la quale è urgente misurarsi. Tre padri a confronto, chiamati in causa dal Centro Culturale di Milano, cercano di dare una risposta. Massimo Recalcati, Franco Nembrini e Giacomo Poretti. Uno psicoanalista, un professore e un comico.
«Siamo nell’epoca del tramonto irreversibile del padre», Recalcati cita un articolo di Eugenio Scalfari, che già nel 1998 metteva in luce una situazione grave. «I padri latitano», prosegue riprendendo il filo rosso del suo libro Il Complesso di Telemaco, genitori e figli dopo il tramonto del padre: «Si sono eclissati o sono diventati compagni di gioco dei loro figli». In questo contesto, l’immagine del padre moderno decaduto e frammentato contrasta in maniera evidente con quella integra e sicura del padre-padrone che sapeva farsi rispettare, che sapeva dettar legge in casa e che sapeva anche “suonarle” ai figli, se ce n’era bisogno. «Personalmente non ho nessuna nostalgia del pater familias», ammette Recalcati: «Il suo tempo è irreversibilmente finito, esaurito, scaduto. Il problema non è dunque come restaurare l’antica e perduta potenza simbolica, ma piuttosto interrogare ciò che resta del padre nella sua dissoluzione».
E per rispondere bisogna capire bene chi sono i figli di oggi e qual è il loro rapporto con i genitori. Per Recalcati la gioventù non si rispecchia più nella figura di Edipo e quindi nella sua «invocazione alla trasgressione della Legge», ma piuttosto in quella di Telemaco e nella sua «invocazione della Legge». Telemaco aspetta sulla riva del mare che il padre ritorni. «Ma questa attesa non è una paralisi melanconica», assicura Recalcati. «Nel complesso di Telemaco in gioco non è l’esigenza di restaurare la sovranità smarrita del padre-padrone. La domanda di padre che oggi attraversa il disagio della giovinezza non è una domanda di potenza e disciplina, ma di testimonianza. Oggi c’è bisogno di padri-testimoni». E, a pensarci bene, essere padri-testimoni non è un fattore meramente biologico, il padre non lo è per una questione di sangue, ma per un gesto di adozione. Lo statuto vero della genitorialità sono i genitori adottivi. Un esempio su tutti? San Giuseppe. «Essere genitori adottivi», spiega Recalcati, «significa guardare il figlio senza avere progetti su di lui. Senza possesso. Significa lasciarlo andare».
È così anche per Franco Nembrini, rettore dell’istituto la “La Traccia” di Bergamo, che parte dalle provocazioni lanciate da Recalcati e racconta di sé: «Un giorno stavo lavorando a casa e mio figlio mi guardava in silenzio. Non mi chiedeva niente a parole, ma, in verità, mi stava chiedendo tutto». Il padre, in ogni gesto, testimonia la bontà della vita e un figlio inevitabilmente ne viene segnato. Allora il compito è quello di far vedere con la propria esistenza che «valeva la pena venire al mondo», e di aver fiducia nei figli, «loro sono venuti al mondo come noi, con lo stesso cuore». Il problema di una generazione terribile, insopportabile e senza speranza la si trova descritta ai tempi di Esiodo, nel medioevo, nel corso di tutta la storia. «Che educare sia qualcosa di difficile lo sappiamo da sempre, il problema dell’educazione è che non bisogna avere il problema dell’educazione». E poi lancia una domanda: «La mia generazione, quella del ’68 ha cercato di cambiare il mondo, ha cercato di raddrizzare le cose che non andavano, poi sappiamo tutti com’è andata. Oggi i giovani si lamentano, ma non reagiscono. Dicono che tutto fa schifo compresi loro. Siamo in una società dove si sottovalutano e si colpevolizzano?».
Giacomo Poretti sottolinea il confronto tra «il padre di una volta e quello moderno». Lo fa leggendo una lettera scritta di suo pugno e indirizzata al padre: «Caro papà, a fare i padri oggi ci si sente come Renzi, tutti fanno il tifo per te, ma in fondo vogliono mandarti a casa. Fare il papà è difficile: i figli fanno domande impossibili. È più facile fare il premier». La lettura mette in evidenza il comportamento di tanti papà oggi, secondo Poretti: «Lavorano tanto per regalare l’iPhone ai figli, devono dar loro tutto, sono pieni di oggetti inutili». E conclude: «Caro papà, insomma oggi è dura fare il nostro mestiere. Stanno anche per abolire la nostra festa, come sono state abolite certe parole ritenute vecchie e in disuso. Così, anche noi, stiamo rischiando di diventare desueti».
Recalcati torna a rispondere a Nembrini, spiegando che il nostro tempo vive una mutazione antropologica senza precedenti. Bisogna analizzarla con attenzione altrimenti si rischia di non capire e di non mettere a fuoco le problematiche importanti. Per esempio il rapporto padre-figlio è stato completamente rovesciato. «Oggi il bimbo detta legge in famiglia», afferma lo psicoanalista: «È diventato un dio da osannare, i genitori gli danno tutto ciò che vuole. Perché porre limiti al godimento istantaneo? Siamo in una società dove la rinuncia è priva di senso, dove dire “no” sembra un delitto». E poi ci sono le nuove malattie dei genitori, mai viste prima: la paura di non essere amati dai figli. «Mio padre non si è mai chiesto se lo amavo», spiega Recalcati: «Ero io piuttosto a chiedermi se contavo qualcosa per lui. Per essere amati facilmente bisogna dire sempre “sì”, ed è quello che fanno i genitori oggi. Questo li detronizza. È sparito il conflitto generazionale, non c’è lotta tra padre e figlio, anzi sono diventati amici». L’altra malattia dei genitori è l’ossessione per la riuscita, per la prestazione del figlio. Non si tollerano più i fallimenti, gli errori, le imperfezioni fisiche: il bimbo deve essere capace, il migliore se possibile in ogni ambito, bello, perfetto. «Quando una cultura cancella il fallimento si distrugge, perde di vista il fatto che l’essenziale nella vita non è essere perfetti, ma amare la stortura, le bizzarrie». Il disagio giovanile è legato a questo rapporto rovesciato con i genitori. I giovani sono depressi, senza slancio, senza desiderio. «Siamo di fronte a giovani che hanno tutto, ma non desiderano niente», dice ancora Recalcati: «E sono dipendenti dagli oggetti tecnologici. Vivono un’apatia frivola e una connessione continua. Ma come possiamo fare per sconnetterli. Per riaccendere in loro la vita? Con la nostra passione, con la nostra vita. Avviene per contagio».
Il riaccendersi della persona è un miracolo che avviene in modi e momenti misteriosi. Nembrini racconta ancora di un ragazzo della sua scuola, uno “scapestrato”, su cui nessuno avrebbe scommesso. L’unica cosa che sapeva fare era suonare. Alla festa della scuola gli insegnanti salgono sul palco con lui ad eseguire un brano. Alla fine il ragazzo scende cambiato e il giorno dopo scrive due righe al suo rettore: «Ieri sera ho scoperto che la passione può vincere tutto. Non ho più paura se vivrò come stasera. Ora sono sicuro che posso farcela». «I ragazzi non vedono l’ora di far fatica, ma nessuno glielo chiede», commenta Nembrini.
Poretti, alla fine dell’incontro, riporta un altro episodio: «Volevo farvi conoscere la storia di Massimiliano Verga. Nel suo libro Zigulì racconta un fatto molto personale che mi ha colpito». Uno dei figli di Massimiliano, Moreno, ancora piccolo ha un ictus, diventa cieco e perde ogni capacità relazionale. Da lì in poi, tutta la famiglia inizia a fare delle analisi per capire se c’è una causa genetica che spiega la malattia. Il padre dello scrittore, invece, si rifiuta per un po’ di fare qualsiasi esame. Poi, un giorno, confessa al figlio di non essere il padre biologico. Da questa scoperta drammatica Massimiliano si accorge che, nonostante la questione di sangue, quello era stato per lui un vero padre, l’aveva cresciuto. Chi è allora il genitore? Colui che ti testimonia una vita. «Il mio esempio di padre è san Giuseppe», conclude Poretti: «La sua fede è un esempio. Noi non ci siamo creati da soli, non abbiamo nemmeno fatto i nostri figli. Loro sono un regalo e noi non siamo altro che il tramite di un grande amore».
http://www.tracce.it/default.asp?id=329&id_n=40488

 

LEGGERMENTE: GALIMBERTI INTERVIENE SUL TEMA: “DIO NEL SOGNO. NOTTE, INCONSCIO, VERITÀ E FOLLIA”. Il teatro della Società di Lecco, ieri sera ha ospitato uno degli incontri previsti per “Frammenti di Filosofia”
di Giorgio Gaviraghi, resegoneonline.it, 6 aprile
Tutti a lezione dal prof. Galimberti, docente di filosofia della storia presso l’università Ca Foscari di Venezia, relatore del nuovo incontro promosso dalla kermesse letteraria Leggermente. Il professore è intervenuto sull’originale tema: “Dio nel sogno. Notte, inconscio, verità e follia”, a partire dal suo libro “Cristianesimo. La religione dal cielo vuoto”, edito da Feltrinelli nel 2012.
Galimberti ha esordito ricordando che il sogno è divenuto importante, anche dal punto di vista scientifico, a partire da Freud. Il padre della psicanalisi ha introdotto, infatti, la parola inconscio. «Egli diceva che noi abbiamo una doppia soggettività: una si chiama io, la nostra parte conscia; l’altra è l’inconscio. Esso è una regione in cui è collocata la nostra soggettività specifica, cioè quella che ci prevede come funzionari della specie forniti di 2 caratteristiche o pulsioni: la pulsione sessuale, che interessa l’economia della specie, e la pulsione aggressiva atta alla difesa della prole». Le due soggettività sono tra di loro in conflitto e rappresentano ciò che già i greci chiamavano dimensione tragica.
«Fatte queste premesse», ha continuato il relatore, «sostengo una cosa molto semplice: il sogno è il luogo in cui l’inconscio si manifesta, perché quando dormiamo la coscienza non è più vigile ed in questa non vigilanza della coscienza, vengono fuori tutte le figure dell’inconscio. Il sogno è, poi, l’assoluto teatro della pazzia, il luogo dell’emersione della follia che ci abita. Questo perché nel sogno sono sospese tutte le regole della ragione, dal principio di non contraddizione, a quelli d’identità e di causalità; non funzionano né lo spazio né il tempo».
Ma cosa c’entra tutto questo con la religione, con Dio? «L’inconscio, caratterizzato come luogo dell’emergenza della follia, non è altro che il riverbero di quel più grande scenario che è quello del sacro. Il sacro è abitato da potenze superiori, luogo dove venivano relegate tutte quelle cose che gli uomini non riuscivano a dominare.  Essi nascono quando si separano dagli dei, quando creano delle regole (la ragione) a cui gli dei non si attengono. Eraclito lo dice con estrema chiarezza: il dio è guerra e pace, sazietà e fame; si vede qui come si sfugge al principio di non contraddizione. Gli dei stanno perciò al di là della ragione, stanno nella follia, anzi sono la proiezione su grande schermo della follia che ci abita».
Nel mondo greco la dimensione del sacro, della follia che proiettiamo fuori di noi, ma che ci abita profondamente, trova la sua chiave di lettura nella tragedia. «Pensiamo», ha ripreso il filosofo, «alla vicenda di Edipo. Egli va incontro alla pazzia, si è mescolato con il sacro e perciò la sua vicenda è tragica». I nostri sogni sono perciò, secondo Galimberti, il grande schermo dove va in scena la sacralità, che non soggiace alle regole di ragione, e dove emerge la nostra follia.
«La stessa dinamica», ha continuato il professore, «accade nella tradizione giudaico-cristiana. Si pensi alla vicenda di Abramo che riceve il folle ordine di uccidere il figlio. Dio è al di là del bene e del male, non distingue queste cose, è al di là delle leggi morali. Però noi abbiamo perso la consuetudine con il sacro, perché siamo diventati cristiani e con il cristianesimo Dio è diventato uno di noi; non è più quindi al di là, nel regno della follia. Abbiamo perciò perso la possibilità di visualizzare la dimensione sacrale-folle che ci abita, ma anche se eliminata, questa dimensione continua a lavorare latentemente in noi».
Il cristianesimo ha perso questa dimensione del sacro e quindi ha perso la possibilità di aiutare l’umano ogni volta che il sacro lo invade, sostituendo la terribilità del sacro con la misericordia dell’amore. Dio non è più terribile, ma è misericordioso, è amore. In conclusione il professore ha lanciato una domanda sibillina: «Sopravvivrà il cristianesimo alla fine dell’occidente e l’occidente alla fine del cristianesimo? Io penso proprio di no».
http://www.resegoneonline.it/articoli/Leggermente-Galimberti-interviene-sul-tema-Dio-nel-sogno-Notte-inconscio-verit-e-follia-20140406/

NON È PIÙ COME PRIMA
di Antonio D’Orrico, lettura.corriere.it, 6 aprile 2014

La tesi del libro è la seguente. Anche l’amore è diventato consumista per cui, in caso di guasto (tradimenti, ecc.), non lo si ripara ma lo si butta via e si passa a un modello di ultima generazione (bypassando il doveroso periodo di lutto). Morto un papa se ne fa un altro. Ci sono però quelli che vogliono l’amore eterno, quelli che (come scrisse Paul Éluard, citato da Lacan) credono in un amore animato dal «duro desiderio di durare». Detta in questi termini (più consoni, visto il contesto, a un doppio senso d’avanspettacolo o leghistico), sembra una cosa pertinente alla sfera sessuale prima che a quella sentimentale. Bisogna stare attenti alla qualità delle parole. La psicoanalisi, in fondo, è un mestiere da correttori di bozze in vista di un (impossibile? interminabile?) editing della vita. Ovviamente chi persegue l’amore eterno deve essere disposto a perdonare nell’eventualità che il partner si macchi di qualche colpa. Ma perdonare non è facile, è un percorso lungo e travagliato, come dimostra la storia che chiude il libro sulla crisi del matrimonio tra un certo O. e la moglie M., raccontata come un caso clinico freudiano. L’elogio del perdono amoroso è, secondo me, la parte meno interessante del testo (anche perché sa di cattolicizzazione del discorso analitico). In generale, non arriverò a dire che Recalcati possa diventare per la psicoanalisi quello che Alberoni è stato per la sociologia (e anche per la psicologia) ma il rischio (della banalità del bene) lo corre. Le parti più belle sono, a mio avviso, quella (di matrice lacaniana) sull’uomo e la donna come due universi sconosciuti; quella sulla tragica gelosia del giovane calabrese (con suggestioni proustiane) e quello sulla depressione come viltà etica (ancora Lacan, qui severo come un padre della Chiesa censuratore dell’accidia). Si sospende il voto in attesa delle prossime sedute.
Autore: Massimo Recalcati
Editore: Raffaello Cortina
Prezzo: € 13
Voto: Sospeso
http://lettura.corriere.it/books/non-e-piu-come-prima
 

LO STORDITO E LA NINFOMANE. SU NYMPHOMANIAC DI LARS VON TRIER

di Pietro Bianchi, leparoleelecose.it, 6 aprile 2014
1.  Sul sito web del magazine americano di costume Vice qualche tempo fa veniva riportata l’esistenza di un tumblr – cioè di un blog costituito da sole fotografie – dal titolo alquanto curioso: Indifferent Cats in Amateur Porn.[1] L’autore di questo incredibile blog aveva passato il tempo a raccogliere svariate immagini di siti porno amatoriali di ambientazione casalinga dove improvvisamente e involontariamente irrompeva sulla scena il gatto di casa. Indifferente alle improbabili performance erotiche che stavano accadendo attorno a lui, il gatto in questione facendosi tranquillamente i fatti suoi, creava un effetto di distanziazione alquanto comico. In un genere dove lo sguardo è di solito completamente attratto dagli organi sessuali, la comparsa di un gatto vendicava la presenza della scena riportandola in primo piano ed esponendo la performance sessuale a un involontario e irresistibile effetto ridicolo.
Un simile effetto di esposizione della sessualità al ridicolo ce l’abbiamo guardando la celebre locandina di Nymphomaniac, che da mesi rimbalza per migliaia di siti web e social network, dove si vedono i volti in primo piano dei personaggi del film nel momento dell’orgasmo. Quando vediamo messe in serie l’una accanto all’altra quelle strane espressioni facciali che sembrano sfigurate dal piacere, facciamo esperienza di una strana decontestualizzazione della sessualità dalla sua intimità, che la fa apparire come qualcosa a metà tra il comico e il disgustoso. Una volta lo scrisse anche Slavoj Žižek, parlando di quell’esperienza “probabilmente nota a molti, quando accade che, mentre si è impegnati in un’attività sessuale, tutto ad un tratto ci si sente stupidi; si perde il contatto con essa… Come a dire ‘mio dio, cosa ci faccio qui, a fare questi stupidi movimenti ripetitivi?’.”[2]
Lo sguardo sulla sessualità che von Trier costruisce per noi in Nymphomaniac è proprio questo: una minima perdita di contatto, quando il corpo non è più trascinato dal desiderio e non fa più Uno con esso, ma inizia a guardarsi dal di fuori e a interrogarsi. Questo è il motivo per cui Nymphomaniac non è tecnicamente un film pornografico, perché manca l’ingrediente fondamentale della pornografia che è l’eccitazione che viene provocata nello spettatore. Nel film di von Trier si guarda il sesso dal di fuori, senza alcuna partecipazione desiderante.
Si tratta di un problema che il cinema ha sempre avuto ogniqualvolta ha deciso di far vedere un rapporto sessuale non simulato sullo schermo. Lo ricordava alla presentazione di The Canyon a Venezia Paul Schrader, uno che da Hardcore ad Autofocus si è più volte misurato con l’immagine del sesso, e che molto onestamente ammetteva dopo tanti anni che “no, non è possibile avere entrambe le cose”. O si cerca l’identificazione con una storia oppure c’è il sesso esplicito sullo schermo. Tertium non datur. L’eccitazione del corpo dello spettatore non va di pari passo con l’attenzione del suo sguardo per la storia.
Von Trier invece vince la sua scommessa: riesce a fare un film pieno di immagini di sesso esplicito (purtroppo molte di esse sono tagliate nella versione uscita in sala in Italia) senza fare un film pornografico. Come fa? Utilizzando i dispositivi di straniamento che ha sempre usato nei suoi film: dalla scenografia coi gessetti di Dogville, alle trovate metafilmiche de Il grande capo, alle ricorrenti (e spesso ridondanti) divisioni in capitoli. Così in Nymphomaniac vediamo spezzoni di video di pesca quando “la caccia di uomini” di Joe – la protagonista della storia di ninfomania al centro del film – viene paragonata alla pesca in una delle tante divagazioni del film. O vediamo dei numeri in sovraimpressione per contare “i colpi” che vengono dati da Jerôme durante lo sverginamento di Joe. O ancora durante la gara tra Joe e la sua amica B per chi riesce ad avere più rapporti sessuali con degli sconosciuti durante un viaggio notturno in treno, vediamo il resoconto del punteggio con un montaggio extra-diegetico di una lavagna. Il sesso insomma viene ridicolizzato o rappresentato sopra le righe o drammatizzato oltre misura (come nel capitolo Delirium della prima parte o in quello sui rapporti sado-maso di The Eastern and the Western Church (The Silent Duck) nella seconda parte del film) secondo il tipico stile di von Trier che passa da un registro comico a uno drammatico cercando il disorientamento dello spettatore. Questi espedienti, che mettono a distanza i corpi che vediamo sullo schermo da ogni nostra partecipazione, aiutano però a elevare la sessualità a problema teorico. Perché è di questo che ci parla il film: di un problema teorico. Ovvero del tipo di rapporto che si instaura con quell’evento traumatico e fuori-senso che è la sessualità.
Nymphomaniac non racconta infatti di una storia di ninfomania (un nome che tra l’altro indica una categoria clinica inesistente), non parla cioè del modo con cui una donna verrebbe posseduta da un desiderio erotico indomabile. Quello che vediamo sullo schermo sono piuttosto due diversi modi di rapportarsi alla sessualità che si confrontano lungo tutta la durata del film. Uno rappresentato da Joe, e l’altro da Seligman.
2. Il film comincia con una donna di mezza età (Joe, interpretata da Charlotte Gainsbourg) che vediamo sdraiata per terra sotto la pioggia, priva di conoscenza, tumefatta e picchiata. La raccoglie dalla strada un vecchio signore gentile ed educato, Seligman (interpretato da Stellan Skarsgård) che la porta a casa, le offre un tè e le chiede di raccontare che cosa le sia capitato. Inizia così un lungo flashback, diviso per capitoli (cinque nel primo volume, tre nel secondo), dove Joe racconta della sua presunta dipendenza dal sesso. Presunta perché per tutta la durata del film non usciremo mai dalla mediazione narrativa di Joe. Anzi, i singoli capitoli vengono tutti scatenati da un dettaglio/pretesto presente nella stanza: l’esca da pesca per il primo The Compleat Angler; la forchetta con cui viene servito il rugelach per il capitolo su Jerôme; le iniziali che Joe intravede sull’etichetta di un quadro per il capitolo su Mrs. H; o la macchia di tè sul muro che ricorda la forma di una pistola per il capitolo finale. Quando Joe re-incontra Jerôme casualmente dopo anni trovando dei pezzi di una sua fotografia in un parco, Seligman si alza in piedi innervosito dicendo “ci sono dei dettagli assolutamente irrealistici nella tua storia su Jerôme, non so se posso crederci”, al che Joe risponde “pensi che otterrai di più da questa storia se ci credi o se non ci credi?” Von Trier, come spesso fa con i suoi inserti metafilmici, vuole lasciarci tutti gli elementi per dubitare sulla veridicità di questa storia.
Questo dubbio serve innanzitutto a ri-centrare la storia. Perché il vero protagonista di Nymphomaniac non è Joe, ma Seligman. È il suo rapporto con la sessualità il centro del film. Joe[3] rappresenta un alter-ego, ovvero il modo con cui Seligman deve confrontarsi con una dimensione della sessualità a lui incomprensibile e che tuttavia tenta di riportare a una dimensione di senso. Il confronto tra i due protagonisti infatti si struttura seguendo uno schema che si ripete uguale per tutto il film: Joe racconta un aneddoto di una pratica sessuale estrema o un dettaglio moralmente discutibile che costituirebbe una prova del fatto che lei sia un essere umano spregevole, e Seligman che trova delle giustificazioni. Joe racconterà allora di come sia stata capace di usare il potere datole dal suo corpo approfittandosi degli altri per una sua egoistica soddisfazione personale: ad esempio quando ha fatto sesso orale in treno con un uomo che stava andando a casa dalla moglie con la quale aveva deciso di fare un bambino, per una banale scommessa il cui premio era una scatola di cioccolatini. Di fronte a un tale racconto Seligman le spiega che forse è stato meglio così perché trattenere lo sperma per troppo tempo causa la morte degli spermatozoi e che in questo modo lei potrebbe aver involontariamente risparmiato a quell’uomo un figlio con dei problemi. Quando Joe racconta di essersi eccitata di fronte alla morte del padre, Seligman le spiega che spesso di fronte a un’emozione forte si reagisce in modo sessuale e così via. Ogni racconto di Joe provoca in Seligman un tentativo di giustificazione sempre più articolato, che a volte scomoda persino i numeri della serie di Fibonacci o le strutture armoniche della musica polifonica medioevale.
Seligman è una specie di pitagorico; uno che trova in tutti gli eventi del mondo una ricorrenza, un ordine, un significato. Tutto il contrario di Joe che invece si identifica con uno scarto, con ciò che per struttura si trova completamente fuori dal senso. Per il primo la sessualità è completamente oscurata dal senso, dall’ordine, dalla perfetta organizzazione del mondo; per l’altra è invece un assoluto fuori-senso, un rifiuto di ogni possibile moralità. Uno è tutto rivolto al proprio ordine apollineo e razionale, l’altra è presa dall’eccesso di un corpo che non riconosce alcuna regola, nemmeno quella del dovere di essere madre. Siamo allora di fronte a un problema del bilanciamento tra corpo e mente? Sessualità sfrenata e astinenza? Maschile e femminile?
3. La psicoanalisi ci ha insegnato che la vita sessuale non riguarda soltanto gli organi genitali, ma l’interezza del corpo e della vita libidica, cioè il rapporto che un essere umano instaura con il proprio godimento. Quando Freud iniziò a curare i sintomi nevrotici tramite il processo analitico ipotizzò che al fine di una guarigione fosse possibile riportare questi strani “eventi di corpo” che la medicina non riusciva a comprendere, a una causa e a un senso. L’analisi doveva ricondurre le formazioni sintomatiche superficiali al loro significato profondo nell’inconscio. Tuttavia Freud ben presto comprese che c’era qualcosa che impediva di esaurire un sintomo nel suo significato: qualcosa tendeva a ritornare e a ripetersi. Anche quando un sintomo guariva, qualcosa di esso non scompariva e si riproponeva in altra forma. Il sintomo era molto di più del suo significato.
Il concetto di pulsione di morte venne allora a sostituire la topica superficie/profondità che aveva fino ad allora orientato la ricerca psicoanalitica. Qualcosa insisteva superficialmente nel sintomo e impediva la sua riduzione a un significato: il suo nome era sessualità. Lacan anni dopo tentò di formalizzare la sessualità come uno squilibrio fondamentale che caratterizzava l’essere umano. Una sorta di asimmetria costitutiva che impediva ai sintomi di essere ricondotti a un senso e a un significato. L’inconscio non era più qualcosa che poteva spiegare i sintomi, ma semmai qualcosa di profondamente riluttante al senso. Al posto dei termini segno e significato venne preferito quello di significante, per sottolinearne la profonda ambiguità, la sua possibilità di essere detto in modi diversi tra loro. La sessualità prende forma in questa strutturale ambiguità nei confronti del senso; in una riluttanza ad essere tradotto nei termini di significato, di causa, di origine.
Lo vediamo nel rapporto di Seligman con i racconti perversi di Joe. Messo di fronte all’insensatezza del godimento del corpo, l’atteggiamento di lui è quello di difendersi riconducendo tutto a una causa spiegabile e a una buona ragionevolezza. Ma lei non ci vuole sentire, perché il suo corpo ne costituisce invece la faccia rovesciata. Joe è l’identificazione con lo scarto: è l’altro assoluto del senso. E non a caso con il passare del tempo, riuscirà a dare forma alla sua soggettività soltanto come oggetto-scarto del godimento dell’Altro (come si vede nel capitolo sado-maso del volume due). Joe è un oggetto che vuole soltanto godere, senza se e senza ma. Assumendo una posizione perversa, è totalmente indifferente a colui che ha di fronte durante l’amplesso. Il suo corpo è soltanto uno strumento di godimento, fino a che non diventerà tumefatto e pieno di lividi per l’eccesso di abuso sessuale.
4. Se Seligman rappresenta una forma di vita dove tutto si esaurisce nel senso e nel significato, e il corpo sessuato viene completamente negato, mentre Joe rappresenta un assolutamente altro dal senso, un puro oggetto di godimento sessuale: è possibile trovare una mediazione tra i due? È Seligman che dovrà cedere alla tentazione del corpo, o è Joe che dovrà guardare al di là del suo godimento autistico e distruttivo, e rinunciare alla sua pratica ninfomaniaca? Che cos’è il sesso per Lars von Trier? L’assolutamente Altro dal senso? La forza distruttiva dionisiaca che alla fine non può che soggiogare e traumatizzare anche il pitagorico Seligman, che riesce a trovare un senso e una ricorrenza anche nelle pratiche di godimento più inspiegabili?
Non vogliamo svelare come deciderà di svolgere questo problema Lars von Trier alla fine di Nymphomaniac (se non rilevare come teoricamente sia di gran lunga insufficiente). Ci basti però notare come Jacques Lacan tenti di risolvere questo problema in un modo che crediamo molto più soddisfacente. Nel testo de Lo stordito Lacan dice che è proprio “Freud [che] ci mette sulla strada di come l’assenza di senso [ab-sens] designi il sesso.”[4] Nel gioco di parole ab-sesso che si trova nel prosieguo del testo, dove si condensano i termini di assenza, senso e sesso, Lacan trova una terza via tra l’esaurimento dell’esperienza della sessualità nel senso (come vorrebbero Seligman o le psicoterapie che pensano di regolare il sesso all’interno della ragionevolezza della cura) e la sua riduzione a oggetto non-sense, fieramente esterno alla dimensione del significato e della morale, come invece mostra di fare Joe. Perché la sessualità non è la forza distruttrice dionisiaca alla quale non ci si può che sacrificare, ma è un principio trascendentale di separazione. È il fatto che tra la riduzione a significato di Seligman e l’oggetto fuori-dal-senso e perverso di Joe vi sia uno spazio da abitare. Questa spazio non è una mediazione al ribasso tra le due – essendo l’una perfettamente esterna all’altra, non c’è minimo comune denominatore – ma è l’incolmabile distanza tra le due. Tra Seligman e Joe, Lacan direbbe che la sessualità non sta né nell’astinenza dell’uno né nella perversità non-sense dell’altra, ma nella differenza che si crea tra le due. Il vero corpo sessuato è allora la stanza dove avviene il racconto, dove nell’incontro di una narrazione e di una tensione tra significato e insensatezza si gioca la vera impossibilità del rapporto. Un’impossibilità che però in qualche modo prende corpo. Il vero rapporto sessuale sta allora nello spazio di quel racconto, in quella storia che sembra creare qualcosa a partire da un incontro impossibile. La compulsività della sessualità di Joe, così come l’astinenza di Seligman sono allora non due modi di vivere la sessualità, ma due modi per difendersi dalla sessualità. Perché la vera sessualità non è tanto quella che usa (in qualunque modo) il corpo che abbiamo, ma quella che è capace di costruirne uno inedito a partire da un impossibile.
 
[1] http://www.vice.com/read/indifferent-cats-in-porn
[2] Citato nel documentario The Pervert’s Guide to Cinema (Sophie Fiennes, 2006)
[3] La grafia indica senza alcun dubbio che si tratti di un nome maschile (il femminile sarebbe Jo).
[4] Jacques Lacan, Lo stordito, in Id., Altri scritti, Einaudi, Torino 2013, p. 448.
http://www.leparoleelecose.it/?p=14600 

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NON È PIÙ COME PRIMA. CON MASSIMO RECALCATI

da Fahreneit, radio3.rai.it, 2 aprile 2014
Cosa accade nei legami duraturi quando uno dei due vive un’altra esperienza affettiva nel segreto e nello spergiuro? Cosa accade poi se chi tradisce chiede perdono e, dopo aver decretato che non era più come prima, vuole che tutto torni come prima? Dobbiamo ridicolizzare gli amanti nel loro sforzo di far durare l’amore? Oppure possiamo confrontarci con l’esperienza del tradimento, con l’offesa subita, con il dolore inflitto da chi per noi è sempre stato una ragione di vita? Massimo Recalcati indaga l’amore, il tradimento e il perdono nel suo ultimo saggio.
Vai al link e clicca su “ascolta”
http://www.radio3.rai.it/dl/radio3/programmi/puntata/ContentItem-370730c1-d916-4b5e-924f-cce042d88e60.html


 
Video

CLASSICI CHE PASSIONE: LECTIO MAGISTRALIS DI MASSIMO RECALCATI

Lezione di Massimo Recalcati, Milano, 2 aprile 2014, Teatro Franco Parenti - “Non è più come prima”

RECALCATI, NEMBRINI, PORETTI, FRANGI: “COM’È DIFFICILE ESSERE PADRI”

Video dell’incontro del 4 aprile 2014 tenuto al Centro Culturale di Milano

 
Fonte: http://rassegnaflp.wordpress.com 

 

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