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Aprile II – A convegno: con Dostoevskij, Rilke, Corbin, Bellocchio e l’Europa

18 Apr 14

A cura di Luca Ribolini

NON È PIÙ COME PRIMA DI MASSIMO RECALCATI. ELOGIO DEL PERDONO NELLA VITA AMOROSA

Un libro racconta la difficile via del perdono all’interno della coppia. Come tornare quelli di prima?
di Valeria Merlini, cultura.panorama.it, 7 aprile 2014
 
“Tradire. Ripagare per la fiducia accordata”. Ambrose Bierce, Dizionario del diavolo, 1911
Voi fanciulle che credete ancora alla favola del “per sempre” e del “vissero felici e contenti”, state alla larga da questo libro. O se decidete di aprirlo e di inoltrarvi nelle sue righe sappiate che lo fate a vostro rischio e pericolo.
C’era una volta l’amore cantato, l’amore sussurrato, l’amore devoto. Soprattutto devoto. Oggi la libertà sessuale e l’emancipazione femminile hanno scombussolato quello stereotipo della sofferenza amorosa, quello secondo la quale si consumava la passione coltivata segretamente. Tutto è più facile, più accessibile, le inibizioni svaniscono e un godimento sempre nuovo è il fine.
Non è più come prima (Raffaello Cortina editore) si interessa dell’amore che dura, delle sue pene e della sua possibile redenzione. Non si occupa degli innamoramenti che si esauriscono nel tempo di una notte senza lasciare tracce. Indaga gli amori che lasciano il segno, che non vogliono morire nemmeno di fronte all’esperienza traumatica del tradimento e dell’abbandono.
Cosa accade in questi legami quando uno dei due vive un’altra esperienza affettiva nel segreto e nello spergiuro? Cosa accade poi se chi tradisce chiede perdono e, dopo aver decretato che non era più come prima, vuole che tutto torni come prima? È veramente possibile in questi casi il perdono? Dobbiamo ridicolizzare gli amanti nel loro sforzo di far durare l’amore? Oppure possiamo confrontarci con l’esperienza del tradimento, con l’offesa subita, con il dolore inflitto da chi per noi è sempre stato una ragione di vita?
Massimo Recalcati, tra i più noti psicoanalisti in Italia, tralascia la patologia della scissione tra desiderio e godimento, piuttosto prende in esame un aspetto della vita amorosa tanto importante quanto accantonato dalla psicologia come quello del perdono. Tratta il perdono come una delle prove più alte e più dure che possono attendere gli amanti. Questo libro elogia il perdono come lavoro lento e faticoso che non rinuncia alla promessa di eternità che accompagna ogni amore vero.
 
Non è più come primadi Massimo Recalcati, Raffaello Cortina editore, 2014 (160 pagine)
 
http://cultura.panorama.it/libri/non-e-piu-come-prima-massimo-recalcati-elogio-del-perdono-nella-vita-amorosa?utm_source=twitter&utm_medium=social&utm_campaign=tweet 

CONVERTIRE IL BISOGNO IN DESIDERIO

di Marco Dotti, vita.it, 7 aprile 2014
 
Contemplando un busto di marmo di Apollo, esposto nelle sale del Louvre, a Rainer Maria Rilke parve di sentire una voce: Du mußt dein Leben ändern, «devi cambiare la tua vita». Quasi un imperativo etico che nel 1908 Rilke tradusse nei versi di apertura della seconda parte delle sue Nuove poesie: «il suo torso arde ancora (…) / non vi è punto, qui, che non ti veda. Devi cambiare la tua vita».
Ma che cosa significa cambiare la propria vita? La psicoanalista francese Françoise Dolto, allieva di Lacan e celebre per i suoi studi sull’infanzia, declinava in maniera del tutto particolare questa esortazione. Per cambiare vita è necessario convertire i bisogni in desideri. La ferita sul costato di Cristo – che la Dolto chiama “maestro del desiderio” – apre a un bisogno o, appunto, a un desiderio? Domanda cruciale, forse. Convertire i bisogni in desideri.. ma come? Non con una prova di forza, afferma la Dolto, ma passando attraverso ciò che di più fragile e debole conosciamo: l’esperienza quotidiana segnata dalla morte. Una morte che sperimentiamo ogni giorno. Ma, anche qui, di quale morte parliamo? Scrive la Dolto: «Siamo esseri che scoprono, un giorno dopo l’altro, la propria impotenza. Un’impotenza che è sempre una morte per il nostro desiderio che vorrebbe essere onnipotente». Ma è proprio in questa scoperta della debolezza – e solo lì – che il desiderio rinasce. 
Questa non-onnipotenza del desiderio, questa sua tensione fragile, è incarnata in Cristo che – conclude la Dolto – «risuscitato ci insegna che se cerchiamo in spirito e in verità, affrontando il dubbio e la sua prova, se superiamo la carne senza bandire i piaceri condivisi, senza fare l’economia dei rischi per il nostro corpo, oltre la morte troveremo la pienezza del nostro desiderio». Cambiare la propria vita potrebbe così significare aprirsi al rischio, senza farne economia o piegarlo all’utile.
Il bisogno ci fa arrestare su una soglia (andare avanti sarebbe solo compulsione, dipendenza, illusione). Ma il desiderio? Il desiderio ci spinge là dove le cose si fermano, dove anche l’uomo si ferma. Il desiderio ci trascina oltre. Allora, scrive Françoise Dolto con toni che ricordano Pascal, «o è il nonsenso, l’assurdo oppure è il senso che continua a interrogarci nel più profondo di noi stessi fin nel nostro inconoscibile; e questo, per me, è il campo di Dio». Il campo di Dio… La Dolto non ci chiede di credere o non credere, ma di riconoscere il cuore della scommessa e della sfida: che tutto abbia o non abbia senso, noi dobbiamo farci interrogare dal non senso come dal senso. Accogliere questa sfida, anziché incasellarla nella partita doppia della ragione senza fede o della fede senza ragione, sarebbe già un primo passo per “cambiare la nostra vita”. 
 
Riferimenti
Françoise Dolto (dialoghi con Gérard Sévérin), I Vangeli alla luce della psicoanalisi. La liberazione del desiderio, et al edizioni, Milano 2012.
http://blog.vita.it/secondaclasse/2014/04/07/convertire-il-bisogno-in-desiderio/ 
 

QUANDO GLI ADULTI ‘DISTRUGGONO’ IL TEMPO DEI BAMBINI

di Luigi Ballerini, 7 aprile 2014, ilsussidiario.net

Overwhelmed, sovraccarichi, si intitola il libro di Brigid Shulte, giornalista del Washington Post, che ha acceso un dibattito sul tempo anche da noi. E overwhelmed siamo davvero tutti, a ogni età, bambini e ragazzi compresi.
Preda dell’horror vacui siamo tentati di riempire ogni spaziettino delle nostre agende pur di non avere il rischio di fermarci un attimo. Sotto l’assedio dell’angoscia, infatti, quell’attimo libero potrebbe essere percepito come un vuoto insopportabile, un male da cui liberarci, un fastidio da sedare. E allora via con una bulimia di attività che non vede pari nei tempi passati, dove la soddisfazione cede il passo all’efficienza e dove ogni possibile piacere si trasforma automaticamente in dovere. Ci lamentiamo tanto di questo modo di vivere che non sopportiamo, eppure trascuriamo quanto in realtà sia da noi attivamente procurato e mantenuto.
I giovani, persino i bambini, hanno spesso giornate che il Ceo di una multinazionale non invidierebbe loro. Sveglia, scuola, compiti, calcio-tennis-catechismo-chitarra-inglese, ancora compiti, gioco, cena, doccia-denti-cartella, televisione-tablet-computer, sonno. Tutto programmato, anzi rigidamente schedulato come si usa dire. Ottimizzare il tempo sembra la parola d’ordine delle nostre giornate, dove ottimizzare significa unicamente organizzare, farci stare tutto il possibile e se ci riusciamo anche di più, per un profitto che via via si diluisce fino a smarrirsi del tutto e sparire. E così in quel tempo che Zygmunt Bauman aveva correttamente definito liquido finiamo per affogarci dentro davvero.
Pensiamo un attimo ai bambini. Ne incontro sempre più che alla scuola dell’infanzia fanno già ripetizioni e lezioni private; la prescrittura e la prelettura sono ormai diventati dei dogmi pedagogici indiscutibili, soprattutto indiscutibili per il fatto che i genitori li reclamano a viva voce, facendone anche criterio di scelta delle scuole. Occorre anticipare tutto, i bimbi devono arrivare a scuola sapendo già leggere e scrivere, possibilmente anche in una seconda lingua. Il pensiero che scorre sotto traccia è che così avranno più chance, così saranno più bravi e soprattutto saranno già i primi, perché primi nella vita bisogna per forza essere.
Consideriamo la diffusione dell’eduteinment, il gioco educativo. Persino il momento del gioco – libero per sua natura, già di per sé capace di attivare e sollecitare l’immaginazione, la fantasia, la sperimentazione di panni nuovi e diversi – ha bisogno di essere invaso e occupato da una preoccupazione pedagogica. Allora ti faccio giocare sì, ma con i giochi educativi che nel contempo ti insegnano qualcosa, che non ti fanno perdere tempo, che ti portano avanti, che senza che tu te ne accorga ti istruiscono.
Il giocattolo, sempre più sofisticato e tecnologico e certificato dagli esperti, finisce per rendere il gioco un’esperienza unidirezionale, precostituita, a suo modo ripetitiva pur nella sua (limitata) variabilità, ultimamente prevedibile. Abbiamo dimenticato come invece i bambini trovino piacere a giocare con i materiali di risulta degli adulti. Pezzi di stoffa, legnetti, ritagli di pasta, materiali vari della vita dei grandi, nelle loro mani si trasformano in realtà magnifiche, imprevedibili, incalcolabili.
Per loro, come per noi, avere segmenti di tempo non pre-occupato non è una affatto una maledizione né uno spreco, è l’opportunità di chiedersi cosa si può fare, l’occasione per farsi venire un’idea in proprio, per farsi venire voglia di qualcosa. Leggere un libro, ad esempio, sottratto all’imperativo cui viene di solito associato, si può costituire come un’iniziativa individuale, lo stesso vale per concedersi di pensare senza necessariamente far agire il corpo.
Dentro la tentazione funzionalistica che ci assale ogni atto, ogni istante acquisisce valore solo se orientato a preparare ciò che verrà dopo, in una consunzione dell’esistenza che sposta continuamente in un luogo altro e in un tempo altro il momento della soddisfazione. La soddisfazione, invece, è esperienza nel qui ed ora dell’istante, ha il sapore di una conclusione che permette la riattivazione del moto, ma non dentro una prospettiva di rimando eterno, quanto nel rilancio dell’iniziativa.
Permetterci e permettere ai nostri giovani di vivere bene il tempo è un favore che possiamo farci. Il moto umano non è un moto perpetuo, è un moto a meta. E il moto va pensato, costruito, agito e anche assaporato, nel tempo.
http://www.ilsussidiario.net/News/Educazione/2014/4/7/SCUOLA-Quando-gli-adulti-distruggono-il-tempo-dei-bambini/489164/
  

“LA SOPHIA ETERNA” DI HENRY CORBIN 
di Redazione, ilfoglio.it, 9 aprile 2014

Doveva ispirarsi al Simposio platonico l’incontro tra oriente e occidente che, sotto un albero di cedro,  si svolgeva una volta l’anno in una villa ad Ascona sul lago Maggiore a casa di Olga Fröbe-Kapteyn, studiosa di filosofia indiana. Eranos, banchetto in greco, fu il nome suggerito per queste conversazioni da Rudolph Otto. Dal 1949 ne divenne animatore Henry Corbin, il più importante studioso dell’islam nel Novecento. “Genio tutelare” fu Carl Gustav Jung, che  partecipò a quasi tutti gli incontri. Luminari provenienti da tutto il mondo, studiosi di religioni, filosofi e poeti liberi da qualunque pregiudizio si riunivano a discutere intorno a un tema. “A proposito di un recente libro di C. G. Jung” è il sottotitolo di questo breve saggio che Corbin dedica a una delle opere più famose e controverse dello psicanalista svizzero: Risposta a Giobbe, scritta da Jung nel 1952 all’età di 72 anni. Corbin ricorda nella sua prefazione il fascino che emanava dalla conversazione che lui, un “metafisico”, intratteneva con lo psicologo Jung. Formazioni e storie molto diverse che riuscivano a completarsi e in cui il cuore del dialogo era la realtà dell’anima che, dissolta dalla psicanalisi di Freud, era invece difesa con grande vigore da Jung. Realtà che per Corbin diviene il “mundus imaginalis”, il mondo dell’Anima. E’ proprio attraverso il drammatico rapporto che Dio instaura con Giobbe che emerge la consapevolezza dell’uomo. L’uomo che Dio ha così ingiustamente fatto oggetto delle più tremende tribolazioni, sente nella sua interiorità l’ingiustizia divina di cui è vittima e non esita a interrogare Dio, a chiedergli conto delle sue azioni. L’uomo è in balia di Dio. Yahweh mostra il suo arbitrio, si comporta male ispirato dal suo figlio prediletto, quel Satana che gli instilla il peggiore dei dubbi, mettere alla prova la probità di Giobbe uomo per bene timorato di Dio. La vicenda si svolge in tre atti. Giobbe fa esperienza, nella sua anima, della Tenebra che avvolge Dio, fa tragica esperienza dell’irrazionale. Qui Dio si presenta all’uomo privo di Sophia. E questi sfida Dio, gli chiede conto del suo comportamento, forte della sua innocenza. Ma l’azione divina si sottrae a ogni giudizio morale, mostra tutta la sua temibile forza demiurgica: “Io sono il Creatore”. Il secondo atto introduce un testimone a favore di Giobbe, Sophia, amica degli umani. La sua assenza nel primo atto ha dato luogo a un mondo in cui prevale lo  strapotere maschile, quello brutale di Yahweh e in cui l’elemento femminile è relegato al ruolo di sposa sottomessa proprio delle società patriarcali. Con Giobbe la religione del timore diventa altro, l’apparizione di Sophia mostra l’aspetto luminoso e benefico di Dio. Dio si affida a Sophia per realizzare quella miracolosa metamorfosi con la quale “paga” il suo debito con Giobbe, soffrire della stessa sofferenza che gli  ha inflitto, divenire un secondo Adamo, essere generato dalla seconda Eva, unica esclusa dal peccato originale. La vergine concepirà colui che è destinato a patire sulla Croce. Corbin, ripropone l’interpretazione che Jung ha dato di questo evento epocale per la storia dell’umanità, ribaltando la tesi tradizionale del sacrificio compiuto dal figlio di Dio per riscattare i peccati dell’umanità. Per Jung la crocefissione, scrive Corbin, “non è un risarcimento del debito umano verso Dio, ma la riparazione di un’ingiustizia divina verso l’uomo”. Il terzo atto è rappresentato dall’apocalisse di Giovanni in cui si annuncia una seconda nascita del Figlio, non ripetizione della nascita del Cristo, ma sua continuazione nell’uomo nella cui anima abita quella Sophia invano cercata da Giobbe nell’ira di Yahweh contro di lui. Solo così, con il Filius sapientiae verrà definitivamente tolto il lato d’ombra del furore divino.
Henry Corbin, La sophia eterna, Mimesis, 83 pp., 4,90 euro
 
http://www.ilfoglio.it/recensioni/938  

NELLO STUDIO DI FREUD SPUNTANO DUE CARTOLINE DELLA CERTOSA. Le Due Torri e un paio di monumenti funebri del cimitero monumentale fanno capolino su una parete della sua casa in una foto-ritratto del padre della psicoanalisi

di Redazione, ilrestodelcarlino.it, 10 aprile 2014
 
Scorci di Bologna fanno capolino alle spalle di Sigmund Freud in una foto che lo ritrae nella sua casa viennese. Appese alla parete si scorgono alcune cartoline ben riconoscibili di vedute italiane che Freudaveva acquistato nei diversi luoghi visitati. In mezzo a panoramiche di Venezia e Ravenna, ecco che spuntano le Due Torri e due particolari di monumenti funebri del cimitero della Certosa. A illustrare il viaggio di Freud in Italia a fine Ottocento e la sosta bolognese è Cecilia Cristiani sul sito dell’Associazione Amici della Certosa.
Il padre della psicoanalisi ha visitato Bologna nel 1896 e in un telegramma indirizzato alla moglie Martha e datato 1 settembre scrive: “Trattoria dopo aver scoperto mezza città. Città stupenda, pulita, con piazze e monumenti colossali. Visitato un Museo Civico, Alex morto, io fresco come una rosa. Giornata bellissima, non calda, il vino già delizioso. Qui certo occasione per comperare paccottiglia. Chiese ed arte qui per fortuna meno coercitivi. Penso con gioia alle torri pendenti e all’Università nel pomeriggio. Resto qui ancora domani, mercoledì 2/9, perciò spedito telegramma per avere notizie.”
Il giorno seguente invia una nuova cartolina postale alla moglie in cui dice: “Ieri molto piacere per il telegramma. Vista una chiesa molto bella e il Campo Santo, di cui comperate 2 foto”. Il ‘Campo Santo’ è proprio la nostra Certosa e la “chiesa molto bella” di cui parla è quella di San Girolamo. Le foto invece sono state realizzate da Pietro Poppi la cui ditta fotografica era famosa per le riproduzioni di vedute urbane e di opere d’arte tra le quali una vasta quantità di opere scultoree della Certosa. I due monumenti scelti da Freud sono opera di Carlo Monarie di Augusto Rivalta. Freud acquista la riproduzione della tomba Lanzi Bersani che Monari esegue nel 1883. Dall’epigrafe si legge che il monumento è dedicato a Clementina Lanzi Bersani, qui attorniata dai figli (fig.3), sposata due volte, muore “compiuti i nove lustri della sua età virtuosamente vissuta”. L’altra foto ritrae il monumento di Achille Minghetti realizzato da Augusto Rivalta da collocarsi all’incirca attorno al 1872. La rappresentazione celebra la morte prematura di un bambino della famiglia. I fratellini sono descritti in modo estremamente particolareggiato sia nelle pose che nell’abbigliamento.
Non ci è dato sapere quale sia il motivo che ha spinto Freud ad acquistare queste due fotografie, si può solo ipotizzare che siano legate al suo ben noto interesse per “l’uomo di fronte alla morte”, di cui lungamente ha scritto. Le sue opere più famose come “Lutto e melanconia” del 1917 o “Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte” (1915), tanto per citarne alcune, trattano ampiamente l’argomento.
 
Per vedere le immagini: 
http://www.ilrestodelcarlino.it/bologna/cronaca/2014/04/10/1051238-cartoline-certosa-freud.shtml#2  

TUTTA COLPA DI DOSTOEVSKIJ 1 – L’INVENZIONE DELL’ADOLESCENZA

Da Michele Serra a Fëdor Dostoevskij, da Gli sdraiati (2013) a L’adolescente (1875): un volo pindarico?
di Glauco M. Genga, culturacattolica.it, 10 aprile 2014
 
Leggiamo o sentiamo dire che è impossibile datare con certezza il termine dell’adolescenza, ma forse ignoriamo che l’idea e la nozione stessa dell’adolescenza hanno avuto un inizio ben preciso. Essa non è sempre esistita, ma è un prodotto della nostra civiltà: ha visto la luce, per l’appunto, verso la fine dell’Ottocento, per poi affermarsi nel corso di tutto il Novecento. Da allora ad oggi la letteratura, e la civiltà nel suo complesso, sono infarcite di adolescenzialismo. (1)
Peter Pan di Barrie, il Risveglio di Primavera di Wedekind, I ragazzi di via Pál dell’ungherese Molnár, Tonio Kröger di Mann, il Ritratto di Dorian Gray di Wilde sono tutte opere scritte intorno al 1900, mentre venticinque anni prima Dostoevskij aveva pubblicato L’adolescente (Podrostok). L’adolescenza, dunque, ha all’incirca… centoquarant’anni: a giudicare dal progresso cui è andata incontro direi che li porta bene.
In questo romanzo Dostoevskij ne delinea con precisione i tratti psico(pato)logici: l’infatuazione per i grandi ideali, l’introversione e l’ideazione dominata dal fantasticare, l’assenza di lavoro produttivo, la teoria dell’istintualità e, a seguire, dell’innamoramento, la ricerca spasmodica dell’originalità unitamente alla brama di modelli da imitare, fino alle condotte sociopatiche che costruiscono i “gruppi dei pari” (con lessico di altri tempi, le “cattive compagnie”). Uncaravanserraglio che Dostoevskij squaderna per il lettore di ieri e di oggi, traendo mille spunti dai fatti del suo tempo, inclusa la cronaca giudiziaria, per plasmare così il suo adolescente. (2) Non riporto qui la trama che, sebbene farraginosa, non toglie pregio al romanzo. (3) Penso a tutta la mitologia greca: non è anch’essa farraginosa, con il rincorrersi vicendevole di tutti quei casi bellicosi di rapporti tra padri e figli, o tra uomini e dei, che hanno segnato tutta la cultura classica, da Villa Borghese all’Hermitage?
L’incipit del romanzo…
… è sorprendente: «Spinto da un impulso irresistibile, mi misi a scrivere questa storia dei miei primi passi sul cammino della vita (…) Ho ultimato il corso liceale e ho già ventun anno (…) so perfettamente quanto sia stupida simile inesperienza in un giovanottone ventenne.» (4) Dostoevskij sa perfettamente che i vent’anni non sono i “primi passi sul cammino della vita”, e molto probabilmente egli conosce l’incipit della Commedia dantesca (“Nel mezzo del cammin di nostra vita”). La sua è dunque un’affermazione che vuole cancellare ben quattro lustri di vita e pensiero: sia i primi due, che siamo soliti chiamare infanzia, sia il terzo lustro che coincide grosso modo con la pubertà, quindi i teenage years. L’adolescenza non coincide con la pubertà, ma ne è il prolungamento via complicazione psicopatologica. E Dostoevskij, scrivendo il romanzo in prima persona, ci introduce come meglio non si potrebbe nel vivo del pensiero del protagonista, il “giovanottone” Arkadij Dolgorukij. (5)
L’idea dell’adolescente
Arkadij coltiva segretamente un’idea e decide di “rifugiarsi” in essa: «La mia idea è di diventare Rothschild. (…) non semplicemente ricco, ma ricco come Rothschild (…) la mia norma principale sarà di non rischiare nulla e la seconda di guadagnare a ogni costo e ogni giorno qualche cosa oltre a quel che spendo per mantenermi, affinché non passi un solo giorno senza ch’io accumuli denaro.»
Scopo di quest’idea non è l’odio né la vendetta, ma «il più completo isolamento» da tutti, poiché «gli uomini m’avrebbero dato fastidio e m’avrebbero reso spiritualmente irrequieto». Ora, l’isolamento è il medesimo termine che Freud impiega per descrivere il peculiare genere di difesa che contraddistingue la nevrosi ossessiva e coltiva l’ostilità per ogni eccitamento: interessi e passioni, infatti, provengono sempre dalla realtà esterna. (6)
Ma Arkadij non vuole essere secondo a nessuno: «Fin dalle primissime classi del ginnasio, appena uno dei compagni mi sorpassava o nel sapere o nelle risposte argute o in forza fisica, subito smettevo di aver relazioni e di parlare con lui. Non già che l’odiassi o gli augurassi del male; gli voltavo semplicemente le spalle, poiché tale era la mia indole». Né gli va meglio con il gentil sesso: «sputo sempre quando mi imbatto in una signora. (…) anch’io a tredici anni ho visto la donna completamente nuda, e da allora ne ho provato schifo.»

NOTE
1. Adolescenzialismo come adolessenzialismo: l’argomento è trattato da G.B. Contri inL’adolescenza, l’età che non esiste, intervista a cura di L. Ribolini, Vita non profit magazine, 20 agosto 2006, disponibile online in:
http://www.studiumcartello.it/public/editorupload/documents/Archivio/060820VNP_GBC3.pdf
e in Giovinezza (2), in Think!, 9 ottobre 2009
http://www.studiumcartello.it/Public/EditorUpload/Documents/GBC_THINK/091009TH_GBC3.pdf
Sullo stesso tema: R. Colombo, L’adolescenza: l’invenzione di un’età di mezzo, Child 1, Sic Edizioni, 1999, reperibile anche online:
http://www.studiumcartello.it/Public/EditorUpload/Documents/ENCICLOPEDIA_VARIE/9905CH1_RC3.pdf
2. Importanti aspetti del lavoro intellettuale e della vita quotidiana dello scrittore sono narrati in: A. Dostoevskaja, Dostoevskij mio marito, A. Milazzo Lipschütz, Bompiani, 2006. Mi piacerebbe riprenderlo e commentarlo.
3. Per la trama del romanzo, in sé quasi incontenibile, rinvio a
http://it.wikipedia.org/wiki/L%27adolescente_%28Dostoevskij%29 ehttp://www.litterator.it/Libri/Riassunti/L-adolescente.html
4. Tutte le citazioni del romanzo sono tratte da F. M. Dostoevskij, L’adolescente, trad. di E. A. Kühn, prefazione di A.M. Ripellino, Giulio Einaudi, 1957.
5. La parola “giovanottone” reca in sé un senso del ridicolo ed è offensiva. Recentemente il dibattito politico italiano ha registrato qualcosa del genere a seguito delle dichiarazioni dei ministri Padoa Schioppa (2007) e Brunetta (2012), che auspicavano l’avvento di una legge in grado di far uscire di casa i “bamboccioni”.
6. Una posizione del genere attraversa le generazioni: è degli anni sessanta il brano musicale di Simon & Garfunkel I am a Rock: «I have my books and my poetry to protect me / I am shielded in my armor hiding in my room safe within my womb / I touch no-one and no-one touches me / I am a rock I am an island / And the rock feels no pain / And an island never cries.»
http://www.testitradotti.it/canzoni/simon-garfunkel/i-am-a-rock
 

L’EUROPA DELL’EURO SUL LETTINO DEL DOTTOR FREUD

di Egle Santolini, lastampa.it, 11 aprile 2014
Psicoanalisti a convegno, al Lingotto, da stamattina. Per rispettare la precisione nell’uso delle sigle che i seguaci di Freud esigono, si tratta della 27ma Conferenza annuale della Fep, Federazione Europea di Psicoanalisi, fondata dalla figlia ed erede di Sigmund, Anna Freud, e formata da una quarantina di Società da tutto il continente, oltre che da Australia e Israele. Il tema attorno al quale si discute è «Rotture»: programmaticamente neutro e polisemico, proprio per essere esaminato nel modo più ampio e ricco.
Una rottura non è per forza un male e anzi può essere l’inizio di una nuova storia. Siccome di traumi (anche) si parla, e a farlo sono gli analisti europei, non ci si è sottratti però a un argomento caldissimo. Il lussemburghese Serge Frisch e la svedese Franziska Ylander, presidente e vicepresidente della Fep, ricordano come «raramente l’Europa, almeno quella occidentale, abbia conosciuto un periodo di pace e di sviluppo così lungo»; ma come oggi «questo lungo periodo appaia frantumato, e con esso ne risentano interi settori dell’organizzazione economica, politica e sociale. Frantumati la promessa di una vita migliore, il sogno dell’integrazione dei migranti, spesso anche la speranza di risolvere i conflitti attraverso il dialogo democratico. L’unione europea vacilla, e unione è l’antonimo della parola “rottura”. Il rischio di un’implosione non può essere escluso».
Come si riverbera questo senso di precarietà e di disequilibrio sulla sofferenza dei pazienti? Intanto in una maggiore difficoltà a entrare in analisi, perché la crisi picchia e la disponibilità agli investimenti (ancora in senso polisemico) si riduce. Antonino Ferro, presidente della Spi, la Società Psicoanalitica Italiana, riconosce che «chi voglia sottoporsi a un’analisi propriamente detta, con tre o quattro sedute a settimana, può incontrare serie difficoltà. Molti dei miei colleghi stanno venendo incontro a queste esigenze». Quanto costa in media una seduta? «È come chiedere quanto costa un ponte da un dentista. Parecchi giovani e bravi analisti oggi applicano tariffe molto basse, diciamo pari a una cena in pizzeria».
Ferro rifugge dalle teorizzazioni generali a sfondo psicoanalitico, e se lo porti sul crinale dell’eurocrisi vista dalla stanza dell’analisi si definirà «come un ortopedico che per mestiere aggiusta le ossa. Io, per mestiere, curo la sofferenza psichica. Non leggo nella palla di vetro. Di sicuro esistono elementi di realtà con cui fare i conti. Ma c’è il rischio di esteriorizzare i conflitti, situando il nemico al di fuori di sé: in scala, i cinesi, il venditore ambulante marocchino, il vicino di casa, un membro della famiglia». Dunque bisogna stare attenti a non incolpare di tutti i nostri guai la signora Merkel, o le banche, o l’euro? «Proviamo a immaginare. Se un paziente mi portasse in analisi la propria angoscia sull’euro, magari il desiderio di tornare alla lira, penserei a un problema di svalutazione o di rivalutazione personale. Se raccontasse un sogno sulla disgregazione dell’unità europea, indagherei sulle sue, di istanze di separazione, sui suoi, di aspetti lacerati».
Diverso il punto di vista di David Tuckett, psicoanalista inglese, attento ai temi finanziari visti attraverso la lente freudiana. Il suo intervento al Lingotto, previsto per oggi pomeriggio, s’intitola Ripeteremo il passato? Capire l’eurocrisi e i problemi nel risolverla. Il nesso è dunque ai temi classici della rimozione e della coazione a ripetere: se non lo rielabori, il passato tornerà a farti male; e il riferimento è ancora e sempre alla Seconda guerra mondiale, al sospetto nei confronti di uno strapotere da parte della Germania, alla paura di essere inghiottiti dalla vertigine dei nazionalismi. Le persone intervistate nel corso di una ricerca che Tuckett presenta a Torino, effettuata in collaborazione con George Soros e con l’Institute of New Economic Thinking, evidenziano, ci dice il professore, «una tensione fra la realtà, le aspettative e il senso di delusione che ne è scaturito». In estrema sintesi, i cittadini europei nell’unità e nella moneta unica speravano moltissimo, e quando le cose hanno cominciato a irrancidirsi avrebbero emotivamente accusato l’impossibilità di conciliare la ferrea austerità tedesca con i loro modi di vita. Su tutto aleggia la Schuld, cioè il senso di colpa e di debito insieme che emana dalla Germania postnazista: e a Freud dunque si torna, con un volo ardito.
Ferro si attiene al proprio minimalismo: «Se di Europa volessimo parlare, da psicoanalisti, lo farei dicendo che a Torino sto lavorando in modo splendido con una quarantina di colleghi da tutto il continente, molti dei quali non avevo mai conosciuto prima. Abbiamo appena approvato un articolo del nostro statuto che allarga i confini terapeutici della psicoanalisi, non limitandola più alla cura delle sole nevrosi, ma interessando, per esempio, i pazienti con gravi sofferenze psicosomatiche o i bambini molto piccoli. L’analisi è viva, sta bene e continua ad aiutare le persone. Nel mondo intero».
 
http://www.lastampa.it/2014/04/11/cultura/leuropa-delleuro-sul-lettino-del-dottor-freud-1Bf8Rosw0jZjbk8asvq6SI/premium.html
 
BELLOCCHIO: “NON RINNEGO NULLA DI NULLA, OGGI HO SOLTANTO VOGLIA DI SEGUIRE LE MIE IDEE. SBAGLIATE OPPURE NO, HA POCA IMPORTANZA”
di Maria Pia Fusco, repubblica.it, 13 aprile 2014
«L’ULTIMA retrospettiva che mi è stata dedicata forse fu quella di Locarno, una ventina d’anni fa. Anzi no, ce n’è stata anche un’altra un po’ più recentemente, a Pesaro. Ma in America…». Il cinema di Marco Bellocchio arriverà a New York tra pochi giorni, il 16 aprile. Il regista di matrimoni aprirà al MoMa una retrospettiva di diciotto titoli che si concluderà il 7 maggio con Vincere. «Non so, può darsi sia stato proprio il successo di quel film a favorire una cosa così corposa. Finora negli Stati Uniti erano usciti solo alcuni dei miei lavori, e soltanto singolarmente» racconta il regista in partenza per Manhattan. O forse la retrospettiva organizzata insieme all’Istituto Luce-Cinecittà vuole più semplicemente raccontare un percorso artistico lungo cinquant’anni: ci sono I pugni in tasca (1965), Enrico IV (1984), Diavolo in corpo(1986), Il principe di Homburg (1996), La balia (1999), Bella addormentata (2012) e le versioni restaurate di Vacanze in Val Trebbia (1980) e Gli occhi, la bocca (1982). E poi, perché no, dopo l’Oscar a Sorrentino una retrospettiva così prestigiosa potrebbe anche essere un ulteriore segno di vitalità del cinema italiano. «Certo che mi fa piacere, e anche se per carattere tendo a tenermi a distanza so che non appena metterò piede sull’aereo cercherò di essere più reattivo e di farmi coinvolgere al massimo da questa cosa. Mi succede sempre così». Anche al Festival del cinema di Bari, dove avviene il nostro incontro e dove Bellocchio ha partecipato all’omaggio a Gian Maria Volontè presentando Sbatti il mostro in prima pagina (1972): «Ero arrivato non dico con superiorità, ma con molto distacco. Poi alcune domande del pubblico, e certe espressioni di entusiasmo sincero, beh, mi hanno addirittura commosso».
A New York, negli incontri con i media e con gli spettatori, il regista sarà obbligato a ripercorrere le fasi di una movimentata carriera artistica che si intreccia fortemente con la vita personale. Meglio portarsi avanti con un breve ripasso. E dunque, se si potesse racchiudere una vita in capitoli in quella di Bellocchio il primo non riguarderebbe il cinema: «La regia è stata per me la quarta scelta. Un primo capitolo, partendo dall’adolescenza, potrebbe intitolarsi La perdita della fede, un passaggio fondamentale. Me ne resi conto proprio nel bel mezzo dell’educazione cattolica, mentre frequentavo il collegio dei Barnabiti. Andavo a messa tutti i giorni e a un certo punto cominciai a chiedermi “perché sto qui?”, una domanda che è diventata poi il motore di tante altre cose. Incoraggiato da mio fratello Piergiorgio mi sono dedicato alla poesia, e intanto dipingevo. Credevo di soddisfare così la voglia di esprimermi». Non era vero perché, anche se nei primi anni Sessanta un libro di poesie comunque lo pubblicò, I morti crescono di numero e di età, «avevo una passione segreta, ed era quella di fare l’attore». Poeta, pittore, attore: «Nessuna delle tre ha funzionato. Finito il liceo, sono andato a iscrivermi all’Accademia dei Filodrammatici di Milano ed è stato in quel periodo che sono intervenuti grossi problemi psichici. Si manifestavano nella perdita della voce, divenni completamente afono».
Costretto a lasciare il teatro, Marco non si arrese. Lasciò ancora una volta l’amata Bobbio, sui colli piacentini, dove è nato il 3 novembre del ‘39, stavolta per Roma: «Qui tentai l’esame come attore al Centro Sperimentale. La mia voce che ora è pessima allora era ancora più sgraziata, ricordo che con Orazio Costa adducevo strani abbassamenti vocali. E comunque superai l’esame. E fu proprio frequentando i corsi come attore che cominciai a scoprire il cinema. Certo, avevo visto tanti film, ma a scuola era diverso, era la scoperta del muto, la magia delle immagini in movimento dei grandi maestri del passato. Lì cominciai a desiderare di “fare le immagini”. Mi ripresentai a un altro esame al Centro e fui ammesso al corso di regia. Mi fu parecchio utile l’esperienza della pittura».
All’inquieto ragazzo di Bobbio però anche Roma non bastava. «Mi sembrava una provincia, decisi di andare a Londra e ci rimasi due anni. Oggi imparare l’inglese è un obbligo, allora era una cosa più insolita. Erano gli anni dei Beatles, cominciava la Swinging London, ma io non mi scatenai. Andavo a teatro, all’Albert Hall a sentire Pollini. Ero prudente. Ancora oggi gli amici e Francesca (Francesca Calvelli, montatrice eccellente e attuale compagna di Bellocchio, ndr) mi prendono in giro per non aver vissuto l’animazione e il fervore di quel periodo. Londra però è stata essenziale per la progettazione de I pugni in tasca, perché lì ritrovai Enzo Doria, uno dei paparazzi de La dolce vita, uomo affascinante, amato dalle donne: era stufo di fare l’attore e voleva diventare produttore. E io avevo il diploma del Centro Sperimentale ma sentivo di dover dimostrare che ero davvero un regista». Non fu facile trovare i finanziamenti e dopo vari tentativi falliti Bellocchio chiese di nuovo aiuto al fratello Piergiorgio. «Nel mio essere una persona tutt’altro che pratica, dimostrai una notevole praticità. Pensai a una storia personale, la sola che avrei saputo raccontare, mi arrangiai a girare in casa di Piergiorgio, ma attento a non mandare in rovina la mia povera famiglia, che povera non era, ma tutti vivevano di quel patrimonio, e i costi furono tenuti bassi. Avevo avuto la fortuna di incontrare al Centro un ragazzo biondo, Lou Castel, perfetto per il ruolo: non so come sarebbe andata se avessi scelto Gianni Morandi che pure a un certo punto era stato preso in considerazione ».
Così, dopo La perdita della fede, Il fallimento dell’attore, La scoperta delle immagini, arriva nel ‘65, a ventisei anni, il quarto capitolo – Il clamoroso esordio alla regia con I pugni in tasca seguito subito dopo da un quinto: La crisi pre-68.
«Non mi sopportavo più come rappresentante della classe cui appartengo, la classe borghese. Oggi fa ridere, allora era una cosa seria la ricerca di una cultura diversa, opposta. Io sentivo il fascino dell’estrema sinistra, non operaista, piuttosto il movimento marxista leninista, Servire il Popolo. Per un ex cattolico come me c’era qualcosa di religioso, il fascino delle regole, le continue critiche e autocritiche. La classe borghese era morta. Imparare dal popolo, solo mettermi al suo servizio poteva restituirmi una ragione. In quel periodo la mia parte artistica fu praticamente annullata, feci giusto qualche film di propaganda, Il popolo calabrese ha rialzato la testa, Viva il 1° maggio rosso. Ma il contagio non durò».
Il film della crisi arriva nel 1972, Nel nome del padre, con Lou Castel e Laura Betti, il racconto della ribellione alle regole in un collegio cattolico. «Era un film in cui rileggevo un po’ marxisticamente pagine della mia vita. Ma il “fuori”, il rapporto con la realtà sociale esterna non mi bastava. Continuavo ad avere bisogno di capire chi ero io. E dunque la psicanalisi. Per qualche anno un’analisi classica, poi il mio grande amico Piero Natoli mi portò alla scoperta dell’analisi collettiva e a Massimo Fagioli». Era il 1978, l’anno prima Bellocchio aveva fatto Il gabbiano da Cechov, uno degli autori che con Pirandello più lo hanno attratto. «Con Fagioli il rapporto è stato graduale fino a diventare un forte legame personale e il cinema, con la sua partecipazione, mi sembrava prendesse la direzione giusta. Il Diavolo in corpo è un film bello ma imperfetto, perché ci prese alla sprovvista: il rapporto tra Massimo e me non era ancora collaudato. La condanna era già più orientato ideologicamente. Finché arrivammo a Il sogno della farfalla, un film estremo, delicatamente estremo». Fu il film che segnò la fine del legame con Fagioli e, con Il principe di Homburg, un ritorno al cinema classico. «Non mi vergognavo più della mia origine e dei miei problemi personali. Senza rinnegare né il percorso politico né quello psicanalitico sentivo di dover seguire liberamente le mie idee, quello che mi veniva in mente, sbagliando o non sbagliando, non aveva più importanza». Gli è rimasta invece, dice, una dimensione anarchica di vedere le cose. «Mi appartiene da sempre, così come da sempre è fortissima la mia insofferenza nei confronti del Potere. Chissà, verrà forse dalla formazione cattolica, ma ci tengo alla coerenza e alla moralità. A proposito, mi piace molto il titolo del volume pubblicato per il MoMA: Morale e bellezza».
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2014/04/13/marco-bellocchio.html?ref=search
Grazie a Simona Nocera (@onlysimo) per la segnalazione (L. R.).

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(fonte: http://rassegnaflp.wordpress.com)

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