“The truth is beauty, the beauty is truth”: verità e bellezza come quasi sinonimi. Molti anni fa, negli anni settanta, questo aforisma era uscito, con tono secco e ispirato, dalla bocca di Donald Meltzer, durante uno dei memorabili seminari organizzati a Perugia da Carlo Brutti e Franco Scotti.
Quelle parole mi erano sembrate strane e incomprensibili, forse addirittura arroganti nella loro perentorietà. Sarà stato perché allora, la parola “bellezza” aveva ancora un sapore scolastico, e mi faceva venire in mente, in maniera intellettualistica e anaffettiva, unicamente il Canone di Policleto. Oppure sarà stato perché dalle verità sul mio conto che dovevo ancora scoprire, tutto m’aspettavo tranne che fossero belle o anche solo attraenti. E così, d’un tratto, il desiderio di confrontarmi su un piano di accessibilità con un “grande” della psicoanalisi, subiva un arresto improvviso, rivelandomi una dimensione di pensiero irraggiungibile e misteriosa.
Questa frase mi è tornata in mente oggi, quando, camminando per strada, il mio sguardo si è posato sulla foto di Toni Servillo vestito dei panni (molto studiatamente raffinati) di Jepp Gambardella, il protagonista de “La Grande Bellezza” di Paolo Sorrentino.
Ho ripensato a quelle parole che riassumono tutto il film: alla “Santa” che gli chiede “perché non hai mai più scritto un libro?”, risponde: “perché cercavo la grande bellezza, ma … non l’ho trovata” . E lei: “lo sai perché io mi nutro di radici? Le radici sono importanti….”
Ma prima, nel riflettere sul passato, il protagonista aveva raccontato il proprio errore percettivo senza tuttavia poterlo ancora riconoscere: “io non volevo partecipare alle feste. Volevo avere il potere di farle fallire”.
Ecco: essere belli e vestiti in certo modo, essere “il re dei mondani”, andare il televisione, è la grande e inconsolabile tristezza. Perché è una bellezza disgiunta dalla verità. Anzi: un’apparenza che si nutre, e si gonfia fino a scoppiare, di inautenticità.
A sentire le parole della Santa, sembra che si possa ritrovare l’autenticità soltanto nutrendosi delle proprie radici. Forse, noi abbiamo una necessità vitale di stringere saldamente fra le mani la nostra storia, e per farlo dobbiamo riuscire ad amarla nei suoi avallamenti e nei suoi picchi, nelle sue miserie e nelle sue grandezze.
Se la bellezza è la verità, se la verità è ciò che (non) sappiamo di noi stessi, tutto ciò diventa comprensibile soltanto quando acquisiamo la capacità di leggere le nostre radici.
E’ per questo che, durante tutta la mia vita professionale, fra gli scarni ferri del mestiere, ho sempre attribuito un posto speciale alla ricerca, meticolosa e dettagliata, dell’anamnesi, cioè della storia personale, e persino pre-natale delle persone che mi erano state affidate. Perché soltanto così si scoprono le radici: quelle dei pazienti che si rivolgono a noi, ma soprattutto le nostre. Per scoprire le quali ci possono venire in soccorso soltanto la filosofia, la grande letteratura, l’arte, la grande musica, e per le anime più semplici come la mia, la psicoanalisi. Ma non qualsiasi psicoanalisi. Soltanto quella capace di amare qualcosa oltre se stessa. E di saperne cogliere l’invisibile bellezza.
Quelle parole mi erano sembrate strane e incomprensibili, forse addirittura arroganti nella loro perentorietà. Sarà stato perché allora, la parola “bellezza” aveva ancora un sapore scolastico, e mi faceva venire in mente, in maniera intellettualistica e anaffettiva, unicamente il Canone di Policleto. Oppure sarà stato perché dalle verità sul mio conto che dovevo ancora scoprire, tutto m’aspettavo tranne che fossero belle o anche solo attraenti. E così, d’un tratto, il desiderio di confrontarmi su un piano di accessibilità con un “grande” della psicoanalisi, subiva un arresto improvviso, rivelandomi una dimensione di pensiero irraggiungibile e misteriosa.
Questa frase mi è tornata in mente oggi, quando, camminando per strada, il mio sguardo si è posato sulla foto di Toni Servillo vestito dei panni (molto studiatamente raffinati) di Jepp Gambardella, il protagonista de “La Grande Bellezza” di Paolo Sorrentino.
Ho ripensato a quelle parole che riassumono tutto il film: alla “Santa” che gli chiede “perché non hai mai più scritto un libro?”, risponde: “perché cercavo la grande bellezza, ma … non l’ho trovata” . E lei: “lo sai perché io mi nutro di radici? Le radici sono importanti….”
Ma prima, nel riflettere sul passato, il protagonista aveva raccontato il proprio errore percettivo senza tuttavia poterlo ancora riconoscere: “io non volevo partecipare alle feste. Volevo avere il potere di farle fallire”.
Ecco: essere belli e vestiti in certo modo, essere “il re dei mondani”, andare il televisione, è la grande e inconsolabile tristezza. Perché è una bellezza disgiunta dalla verità. Anzi: un’apparenza che si nutre, e si gonfia fino a scoppiare, di inautenticità.
A sentire le parole della Santa, sembra che si possa ritrovare l’autenticità soltanto nutrendosi delle proprie radici. Forse, noi abbiamo una necessità vitale di stringere saldamente fra le mani la nostra storia, e per farlo dobbiamo riuscire ad amarla nei suoi avallamenti e nei suoi picchi, nelle sue miserie e nelle sue grandezze.
Se la bellezza è la verità, se la verità è ciò che (non) sappiamo di noi stessi, tutto ciò diventa comprensibile soltanto quando acquisiamo la capacità di leggere le nostre radici.
E’ per questo che, durante tutta la mia vita professionale, fra gli scarni ferri del mestiere, ho sempre attribuito un posto speciale alla ricerca, meticolosa e dettagliata, dell’anamnesi, cioè della storia personale, e persino pre-natale delle persone che mi erano state affidate. Perché soltanto così si scoprono le radici: quelle dei pazienti che si rivolgono a noi, ma soprattutto le nostre. Per scoprire le quali ci possono venire in soccorso soltanto la filosofia, la grande letteratura, l’arte, la grande musica, e per le anime più semplici come la mia, la psicoanalisi. Ma non qualsiasi psicoanalisi. Soltanto quella capace di amare qualcosa oltre se stessa. E di saperne cogliere l’invisibile bellezza.
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