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Che fine ha fatto il piacere?

2 Ago 14

A cura di Luigi D'Elia

Mi è capitato di recente di far caso ad una caratteristica comune a molti, se non alla maggioranza, dei pazienti che incontro e che riguarda importanti problematicità inerenti all’area del piacere, ovverosia una sorta di arretramento qualitativo e quantitativo di esperienze piacevoli se non proprio un’inaccessibilità generalizzata alle esperienze di piacere. Una riduzione drastica e irreversibile delle piacevolezze della vita, a partire dalla sessualità, passando dal piacere del cibo, fino al semplice momento di relax solitario o condiviso per finire col sonno e il peggioramento della sua qualità.

Certo – qualcuno mi obietterà – se ci sono problemi esistenziali, psicologici o sociali come quelli che spingono qualcuno da uno psicologo è naturale che anche la sfera edonica ne risenta. Ma naturalmente considererei estremamente semplicistica un’obiezione del genere, piuttosto penso che il deficit di piacere sia un correlato di stili di vita che progressivamente e circolarmente stanno deteriorandosi per tutti noi. In realtà, a farci meglio caso, tale constatazione sarebbe da estendere a tutti e non solo alla popolazione dei cosiddetti pazienti.

A partire da questa mesta considerazione ho provato a ripescare nella mia memoria alcuni “testi sacri” della mia formazione personale che proprio di questo ci parlano ancora oggi e con estrema attualità. L’uso dei Piaceri, di M. Foucault, L’anti-Edipo di Deleuze e Guattari, Il Libro dei Piaceri di R. Vaneigem, L’erotismo di G. Bataille, per citare i primi che mi sovvengono. Ebbene, ripensando a queste complesse circumnavigazioni sul tema del piacere, e non solo, ho provato a immaginare cosa sia avvenuto di così catastrofico tanto da giustificare una così vistosa retrocessione del piacere sulla scena culturale e sociale, con tutte le nefaste conseguenze sul benessere psicologico degli individui, con buona pace di psicologi, psicoanalisti, psichiatri, afasici rispetto a questo problema o viceversa travolti da banalità salutistiche da rivista femminile.

Sentendo più affine a me l’analisi genealogica foucaultiana, tendo a immaginare negli ultimi decenni un movimento di ulteriore separazione dall’originaria unitarietà che il filosofo francese delinea allorquando descrive la “aphrodisia”, le opere di Aphrodite, l’esperienza del piacere, come un tutto unico, un complesso inscindibile di piacere, desiderio, attrazione, atto. Inscindibilità che con l’era cristiana si frammenta attraverso un radicale mutamento concettuale che trasforma il problema morale collegato già in antichità alla necessità di un controllo pulsionale, dall’idea di temperanza (sofrosùne e enkràteia) in epoca classica, come forma di controllo virtuoso del piacere, fino all’idea di astinenza come forma di mortificazione del corpo e ascetismo morale, in epoca cristiana. Mutazione che di fatto inaugura la separazione del piacere dal desiderio che da questo momento in poi prendono strade separate.

Separazione concettuale tra desiderio e piacere che oggi proverei a sintetizzare nelle parole di G. Deleuze. Il desiderio, dice Deleuze, è sempre una concatenazione, un insieme, senza necessariamente un oggetto concreto, non desidero una donna, sostiene il filosofo citando Proust, ma il paesaggio che quella donna mi evoca, un paesaggio che nemmeno conosco ma intuisco appena. Il desiderio è dunque un processo mentale complesso, corticale, affettivamente carico.

Il piacere appare invece come un problema più semplice, più biologicamente fondato, più legato al corpo alla sensorialità, più circoscritto, e tuttavia la nostra cultura, secondo Foucault si pone maggiormente il problema del desiderio e oscura del tutto il problema della gestione del piacere, ci riconosciamo come soggetti di desiderio e non più come agenti di piacere. Da un certo punto in poi, in epoca moderna, il piacere, che invece era centrale nella cura di sé delle nostre società antiche nonché in quelle orientali, diventa a mio parere, in qualche modo la nostra cattiva coscienza.

Giungiamo così ad oggi dove la psicoanalisi con il suo storytelling sembra cavalcare l’antica separazione avvenuta col cristianesimo collocando il desiderio come dimensione del soggetto e riconvertendo la questione del piacere alla dimensione biologico-naturale ribattezzandolo come godimento, come dimensione di un organico de-soggettualizzato.

Marisa Fiumanò sintetizza in questo intervento (Che cosa intendiamo per godimento) la posizione di Lacan a tale proposito.

[…] una volta Lacan aveva chiesto alle persone presenti ad ascoltarlo “Il corpo a che cosa serve?” e poiché nessuno aveva risposto a questa questione era stato lui stesso, Lacan, a rispondere “il corpo serve a godere” e quantomeno si ha la padronanza di questo godimento tanto più si gode, quanto più il soggetto svanisce e si lascia portare dal corpo, che conosce la strada della sua soddisfazione, tanto più questo godimento si realizza. Naturalmente questo lasciarsi portare, comporta dei rischi perché se si lascia fare questo sapere del corpo, se si segue questa inclinazione naturale del corpo, lo sbocco è l’incesto. La china verso cui rotola il godimento è una china incestuosa, che porterebbe a mettere le mani sull’oggetto perduto cui assegniamo il nome “madre”, ma che è una china che ha un versante mortifero, perché è contraria alla vita che, con il desiderio, è sostenuta da una perdita. Quando si è vicini alla realizzazione di questo fantasma incestuoso, fatto che possiamo costatare nella clinica, allora la vita stessa, intesa come sorretta dal desiderio, è minacciata e il corpo rischia di funzionare senza soggetto, cioè in una situazione in deriva (nei casi di psicosi di perversione troviamo un corpo che insegue questo godimento di tipo incestuoso senza una soggettività che lo sorregga).

La dimensione del piacere in sé desoggettualizzata appare in questa descrizione e declinazione psicoanalitica come intrinsecamente minacciosa e destinata alla perdizione e alla perversione. Dove c’è il piacere-godimento, scompare il soggetto.

Personalmente trovo questa posizione oltre che errata, molto simile a quella del primo cristianesimo, con la sua dietetica morale pastorale, quindi molto distante dal presente, e condivido molto, invece, la posizione di Deleuze e Guattari qui espressa icasticamente e ironicamente da Deleuze stesso allorquando parla della distanza della sua filosofia dalle radici teoriche della psicoanalisi .

Ma questo vecchio dibattito che appare, nel suo bizantinismo, agli occhi di molti, così lontano dai problemi reali di quei pazienti di cui dicevo all’inizio, in realtà cela in sé delle questioni ancora attuali. Ma come e quali? Provo a fare una sintesi.

Da quanto emerge da questa breve e lacunosa ricostruzione, la nostra storia, ci conduce sempre più a culturalizzare l’esperienza del piacere e a declinarlo come operazione di una coscienza desiderante. In questa scissione s’insinua a mio parere l’elemento manipolatorio che è tipico delle nostre attuali(ssime) sovrastrutture socio-culturali.

Le macchine desideranti descritte nell’Anti-Edipo con il loro progetto rivoluzionario scritto nell’inconscio, oggi sono state del tutto espropriate se non colonizzate e rappresentano, in una totale torsione di 180 gradi rispetto al progetto utopistico di 40 anni fa, l’obiettivo di stili di vita che nella realtà dei fatti ci allontanano sempre più dal corpo, dalla sensorialità, dalle esperienze tipiche del pre-conscio, del rilassamento, della pace, ipnagogiche, e sono state investite viceversa di attese sempre più astratte sempre più simili alle coordinate di una campagna pubblicitaria dove il brand è diventato il contenuto culturale da abitare e dal quale essere abitati. Il desiderio in altre parole si è allontanato troppo dalla propria radice e ne ha negato i bisogni specifici a scapito di falsi bisogni indotti.

Non ci possiamo accorgere facilmente della assoluta penuria di cibo/ossigeno psichico nella quale ci troviamo, né riusciamo immediatamente a collegare il malessere psichico con tale penuria in quanto tutto, sul piano del desiderio (che è ciò a cui tendiamo spontaneamente lo sguardo), sembra viceversa assolutamente a portata di mano, comodo e rassicurante.

È molto difficile che un paziente, specie all’inizio del suo lavoro su di sé, abbia ben presente la propria penuria e ci dica che gli manca il contatto fisico, le carezze, le coccole, il piacere sessuale, il tempo per fantasticare e non far nulla, il sonno profondo e riposante, l’amicizia affettuosa e l’intimità fisica e psicologica con altri. No, piuttosto penserà alla sua dimensione del desiderio come inadeguata o inaccessibile o sfortunata o frustrata. E forse solo in un secondo momento potrà accogliere i propri bisogni primari e corporali come altrettanto importanti e dignitosi.

E del resto, anche il tentativo di recupero della sensualità perduta finisce per essere a sua volta iscritto nelle logiche del brand di successo e dell’esperienza ottimale di fatto anch’essa scissa da un contatto con un corpo autenticamente ritrovato. Tutto è mediato dal desiderio, anche l’esperienza del corpo.

L’enfasi sul desiderio sottrae dignità al piacere e ne oscura la centralità nella nostra vita e ci accompagna verso una fenomenologia dispercettiva. 

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11 Commenti

  1. stefanosanzovo@quipo.it

    Sono d’accordo con te.
    Sono d’accordo con te. L’enfasi sul desiderio sottrae dignità al piacere. Molti pazienti che ci riferiscono problemi a riguardo spesso soffrono di un disturbo depressivo, di un disturbo d’ansia o di uno di personalità, magari sottosoglia, la cui carenza di desiderio è proprio la difficoltà a trovare piacere, non solo sessuale; anche se la loro ideazione è troppo, talvolta solo, concentrata su questo. Ne abbiamo già parlato sulla nostra rubrica “Psicopatologa sessuale” dove ti invitiamo con molto piacere a portare le tue testimonianze.
    Credo che la nostra sfida come terapeuti sia quelli di tornare a far provare piacere a questi pazienti. A volte il compito è difficile, ma non possiamo non provarci.

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    • luigidelia
      • sansoni.riccardo

        La più consistente scoperta
        La più consistente scoperta che ho fatto pochi giorni dopo aver compiuto sessantacinque anni è che non posso più perdere tempo a fare cose che non mi va di fare. (Jep Gambardella)

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    • luigidelia

      Grazie Stefano, fa piacere
      Grazie Stefano, fa piacere trovare riscontro. Visiterò senz’altro la vostra rubrica.
      Mi domando quanto abbiamo contribuito noi “psy” più o meno inerzialmente a rappresentare questo arretramento del piacere solo come una questione sessuale e non anche più in generale, come un problema di tempo, di intimità, di fisicità/corporeità pura, di tattilità, di sensualità, di qualità del sonno, del cibo, delle relazioni affettive, etc. Ho presente molte mie terapie nelle quali il principale lavoro è stato proprio quello di re-investire in termini edonici (non edonistici) la propria esistenza, con ottimi risultati. Certo che dobbiamo provarci, basta avere chiari questi passaggi culturali e muoversi di conseguenza.

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    • sansoni.riccardo

      Io credo che le categorie
      Io credo che le categorie tradizionali vadano bene e siano in grado di spiegare anche questi casi. L’incapacità di provare piacere può discendere dall’errore di elevare modelli di godimento (es il fitness esagerato o la lussuria) al rango della propria legge del Desiderio. Siamo bombardati da messaggi televisivi e dall’emulazione che ormai impera ad omologarci al resto del mondo ed alle sue scelte. Dimetichiamo cosi che il Desiderio é dentro di noi
      qualcosa di inesorabile ma che non fa proclami……ci guida ma in silenzio. Ci orienta, si fa scoprire, ma non urla. A mio avviso la mancanza di piacere può essere un sintomo che denota una difficoltà a comprendere il proprio desiderio e le proprie proiezioni.
      In altri casi può essere conseguenza della insoddisfazione per la realtà e la lontananza di questa rispetto ad un Desiderio già meglio manifestato al soggetto. In questi casi c’é una difficoltà a
      sostenerlo.

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  2. drmassimolanzaro

    Il filosofo e psicoanalista
    Il filosofo e psicoanalista sloveno Slavoj Zizek fornisce ulteriori spunti nel suo libro “Il godimento come fattore politico”. Dobbiamo partire dalla contrapposizione tra “godimento” e “piacere”. Per chiarire la differenza utilizzeremo l’esempio di un noto cinegiornale sulla II guerra mondiale. Quello sul famoso discorso di Joseph Goebbels sulla Guerra Totale, tenuto al Palasport di Berlino nel 1943, dopo la sconfitta di Stalingrado. Nel momento culminante del discorso, Goebbels poneva una serie di domande retoriche, che contenevano il messaggio: volete più sofferenza, più rinunce? Per esempio chiedeva: volete che tutti i ristoranti vengano chiusi? volete lavorare 16 ore al giorno? Finché arrivava al quesito finale: volete una guerra totale, più totale di quanto potreste mai immaginare? La risposta fanatica della massa urlante era: Sì! Sì! Questo episodio spiega che il “godimento” è esattamente l’opposto del “piacere”. Il godimento è l’eccessivo piacere dato dalla rinuncia, o dallo stesso sacrificio. Cos’ha a che fare tutto questo con la nostra società liberal-permissiva che incita costantemente a godere il più possibile? Dovrebbe farci riflettere sui pericoli del moderno edonismo, che rischia di trasformarsi nel più rigoroso ascetismo. Oggi viene richiesto di godere, ma per poter davvero godere bisogna fare jogging, sottomettersi a una dura dieta, non bere, non fumare o abbandonarsi a eccessi sessuali. L’edonismo vorrebbe confinarci nella società più regolamentata che la storia umana abbia mai conosciuto.
    Piacere e dovere sono collegati in modi diversi: il regime totalitario, ad esempio, non ti chiede di fare solo il tuo dovere, ma anche di godere mentre lo compi. Il regime autoritario, invece, non si interessa a cosa pensi, ti ordina semplicemente di fare il tuo dovere. Il sistema totalitario è dunque più esigente. Un esempio ci viene dalla vita quotidiana. Una domenica mattina il padre autoritario dice al figlio: “Che ti piaccia o no andiamo a far visita alla zia.” Mentre il padre totalitario postmoderno, più furbo, dirà: “Tu sai quanto ti vuole bene la zia, sta dunque a te scegliere se venire a trovarla o no.” In questo modo dice al figlio che non solo deve andare a trovare la zia, ma che deve essere anche contento. E poi c’è l’approccio fondamentalista, apparentemente liberatorio. Penso ai discorsi ascoltati in Bosnia durante la guerra. I fondamentalisti cercavano adepti. Dicevano che chi si fosse unito a loro avrebbe finalmente potuto uccidere, ammazzare, scopare, stuprare in libertà. Come uscire da questo circolo vizioso?

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    • luigidelia

      Grazie Massimo, rispondo con
      Grazie Massimo, rispondo con piacere a questo articolato commento, mentre a quello su Duchamp non sono in grado non avendolo compreso affatto.
      Il godimento di cui parla Zizek è una forma pervertita di piacere in eccesso, è un piacere che somiglia molto ad un desiderio, per come lo descrivo e differenzio nell’articolo, disancorato dalla sua radice corporea, sensuale, cioè ad un complesso orizzonte fantasmatico, culturalizzato e ideologizzato, Zizek lo definirebbe “nocciolo transideologico”, legato cioè ad una dimensione sociale specifica. Da questo punto di vista il godimento politico è il frutto di un tradimento del piacere in quanto tale, che manipola e sposta il piacere sul piano conformistico e sociale. Per usare l’analisi di Foucault, il godimento sarebbe una forma estrema di misticismo, ben lontano dal governo temperante di sé degi greci, misticismo che s’illude di governare il piacere in eccesso, ma in realtà si limita a tradirlo e manipolarlo

      La riflessione di Zizek aggiunge elementi per comprendere meglio in quale specie di totalitarismo di troviamo, o meglio ci troviamo accomodati.
      Dovremmo comprendere meglio quali forme di neo-alienazione sono in atto quali siano gli altari sui quali ci sentiamo di dover sacrificare il corpo, ed in nome di quale “nocciolo transideologico”. Tu accenni a diete, forma fisica e dici che la nostra è la società più placidamente regolamentata che esiste, ed io condivido questa tua analisi. Io penso che le forme di adesione al mantra ideologico contemporaneo siano ancora tutte da scoprire e sviscerare. Grazie per il tuo prezioso contributo.

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      • drmassimolanzaro

        “Le forme di adesione al
        “Le forme di adesione al mantra ideologico contemporaneo sono ancora tutte da scoprire e sviscerare”: condivido pienamente.

        Del resto Žižek dice che il cinema (media preso come esempio) è perverso perché ormai non ci suggerisce più cosa desiderare ma COME desiderare: il mantra ideologico si è annidato nei meandri archetipici come non mai prima. Nelle forme cui aderiamo più visceralmente, non più semplicemente nei contenuti.

        Grazie a te dunque per questi ulteriori illuminanti pensieri. Forse già sai che a sei anni dall’uscita di ‘The Pervert’s Guide to Cinema’, è tornata alcuni mesi or sono nelle sale una nuova “guida” di Žižek, realizzata nuovamente in collaborazione con la regista Sophie Fennes (sorella di Ralph e Joseph): ‘Guida perversa all’Ideologia’. Roba di nicchia, di quella che passa inosservata, tuttavia a mio modesto avviso un must per chi ama il cinema e queste tematiche. Ti sei imbattuto in queste pellicole?

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        • luigidelia

          Ho visto il lavoro sul
          Ho visto il lavoro sul Cinema, ma quello sull’ideologia non ancora. grazie moltissimo per la preziosa segnalazione.

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  3. drmassimolanzaro

    Vogliamo anche, un pò
    Vogliamo anche, un pò provocatoriamente non dimenticarci di Duchamp? Duchamp ha descritto il Grande vetro come un motore, alimentato dal desiderio d’amore, che produce lo «sboccio» della Sposa. Come il ciclista impegnato nell’ascesa iniziatica è il motore umano di un mezzo costituito da due parti, le due ruote, così il Grande vetro consta di due parti e può essere paragonato, secondo Duchamp, a un’auto che sale un pendio: «la macchina desidera sempre più la vetta della salita, e sempre accelerando lentamente (per gradi, vien d’aggiungere) come stanca di speranza, ripete i colpi di motore regolari a una velocità via via maggiore fino al rombo trionfale».
    La strada percorsa da questo singolare veicolo iniziatico non è dissimile da una piramide. È ben definita in larghezza e spessore al suo inizio, avverte Duchamp, e diventa progressivamente senza forma topografica, una «linea pura geometrica senza spessore, avvicinandosi a quella retta ideale che trova il suo sbocco verso l’infinito». L’inizio del viatico ha la sostanza della «selce sfaldata», cioè si approssima alla pietra grezza, e alla fine si sbriciola in «polvere d’oro» in sospensione, più leggera dell’aria: in purissima materia luminosa. È il viaggio dell’apprendista.
    A innescare questo veicolo iniziatico concorrono due elementi, la caduta d’acqua e il gas illuminante. Essi consentono di determinare secondo Duchamp «le condizioni del Riposo istantaneo di una successione di fatti diversi per isolare il segno della concordanza tra questo Riposo, da una parte, e dall’altra una scelta di Possibilità». Duchamp ha affermato che «l’arte è uno sbocco su regioni dove non dominano né il tempo né lo spazio»: è questo il luogo del «Riposo istantaneo». A sostituire «Riposo» con l’Uno platonico e «scelta di Possibilità» con il concetto di molteplice, si può dunque leggere una variante epocale del principio ermetico che tutto è Uno: caduta d’acqua e gas illuminante servono a isolare il segno della concordanza tra l’Uno e il molteplice.

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  4. sansoni.riccardo

    La più consistente scoperta
    La più consistente scoperta che ho fatto pochi giorni dopo aver compiuto sessantacinque anni è che non posso più perdere tempo a fare cose che non mi va di fare. (Jep Gambardella)

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