Percorso: Home 9 Rubriche 9 GALASSIA FREUD 9 Luglio 2014 IV – Donne, professori, boss e monaci

Luglio 2014 IV – Donne, professori, boss e monaci

4 Ago 14

A cura di Luca Ribolini

LA DONNA NON ESISTE, LE DONNE INVECE SÌ

Intervista a Céline Menghi di Silvana Maja, leggendaria.it, n. 106, 2014
Transfert tra amore e godimento. Mai titolo più attraente per un convegno (XII congresso della Scuola Lacaniana di Psicoanalisi – SLP). Siamo nella cattedrale del pensiero di Jacques Lacan, psicoanalista fancese nato nel 1901 e morto nel 1981. Allievo di Freud, ovviamente. Il trauma per Lacan non è il sesso, come per Freud, è il linguaggio. L’inconscio è strutturato come un linguaggio, gli esseri umani ne sono traumatizzati. Un convegno ricco di interventi interessantissimi con analisti che hanno testimoniato il loro stesso percorso analitico. Ospiti d’eccezione come Felice Cimatti, filosofo del linguaggio, e Giacomo Trinci, poeta. Approcciare Lacan è complesso ma le sue teorie e la sua clinica ci riguardano moltissimo, sia per l’attualità sia perché portano alla luce il godimento femminile come qualcosa rimasto enigmatico per Freud che ci lasciava con l’interrogativo: “Che cosa vuole una donna?” Ne parliamo con la psicoanalista Céline Menghi.
Nel 1973, davanti a un’assemblea di femministe, a Milano, Lacan dichiara: La donna non esiste. Si scatena un putiferio. Poi aggiunge: non esiste La donna in quanto soggetto universale, ma esistono le donne, una per una. Come spiega la sua concezione del godimento femminile? 
La donna non esiste nel senso che non c’è un modello universale in cui possono iscriversi le donne ma ci sono le donne, una per una, alle prese, ciascuna a modo suo, con un godimento supplementare a quello fallico, il godimento femminile, paradigma del godimento senza legge. Se non c’è un significante universale per La donna, c’è invece, per l’uomo, il significante del fallo. La trovata di Lacan è quella di avere individuato un “resto” fuori linguaggio, il famoso “reale” che l’analisi cerca di avvicinare. Un altro nome di questo “resto” è “impossibile”, un impossibile che si può attingere tramite una logica diversa da quella del fallo, la logica del non-tutto, che comporta che il sapere non è tutto, la verità non è tutta, e non resta che inventare nella singolarità. Le donne diciamo che sono più propense ad avvicinare il godimento femminile, ma anche gli uomini possono scegliere di metterci un piede dentro, di interessarsene un po’. Gli analisti certamente, maschi o femmine che siano, attraverso una lunga e approfondita analisi, devono accostarlo il più possibile. Un analista, dice Lacan, maschio o femmina, è sempre in posizione femminile.
Lacan ha trasformato il concetto di transfert, che non è più da intendere esattamente come lo intendeva Freud. Cos’è per voi lacaniani il transfert e perché è al centro del vostro convegno?
Ogni anno la scuola lacaniana di psicoanalisi tiene un convegno internazionale. Il tema del 2014 è stato scelto in base a una difficoltà incalzante che il tranfert pone agli analisti. Il transfert, come dice lei, si è trasformato. Lacan va oltre l’Edipo di Freud e sposta l’amore di transfert sul versante sapere, un sapere di cui di cui il soggetto dell’inconscio dispone ma che non sa di sapere. Il percorso dell’analisi, la cui condizione è il transfert, porta alla luce questo sapere inconscio.
Ma qual è la difficoltà?
Oggi l’analista è messo a dura prova per due motivi: da un lato i concetti della psicoanalisi si sono inflazionati nel tempo e inoltre c’è un certo discredito della parola: la parola non vale niente, lo vediamo a vari livelli, anche nella politica, e la gente cerca soluzioni veloci, immediate, pensando di fare a meno di un lavoro che comporta l’impegno soggettivo con la propria parola; dall’altro i nuovi sintomi, effetto della perdita del riferimento edipico, dell’evaporazione del padre, della caduta di valori simbolici che tenevano insieme la famiglia, della crisi economica, toccano sempre più il “corpo” e sono piuttosto resistenti alla parola. La difficoltà, dunque, è che non basta più fare riferimento alla decifrazione dell’inconscio o all’interpretazione freudiana, bisogna prendere in conto quello che Lacan chiama l'”inconscio reale”, l’inconscio in presa diretta con il corpo, rispetto a quello che chiama “inconscio transferale”, dove predomina l’aspetto significante, il linguaggio. Ciò richiede una forte presenza, anche del corpo dell’analista: “la presenza reale dell’analista”. Potremmo dire: una forte tenuta nel transfert che solo una lunga analisi permette per afferrare le cose dal lato del reale più che dal lato del significante.
Al convegno abbiamo ascoltato molti casi clinici ma anche le testimonianze di analisi di alcuni analisti. Credo che questa sia una pratica solo lacaniana. O sbaglio?
Sì, l’analista, come dicevo, deve aver fatto una lunga analisi, deve aver lavorato il suo narcisismo mettendo a dura prova quell’apparato che è l’Io per porsi poi con l’analizzante come strumento che fa funzionare il dispositivo analitico, la messa in moto dell’inconscio. L’analista deve decadere dalla supposizione di sapere e anche di potere che gli viene attribuita nel transfert, per lasciare che l’analizzante trovi la sua verità, soggettiva, che non è la verità assoluta, ma quella del suo rapporto singolare con il godimento femminile, paradigma del godimento senza legge. L’analista, diceva Lacan, è un oggetto al servizio del dispositivo analitico. Diciamolo pure, la psicoanalisi si occupa dell’impossibile, del godimento fuori linguaggio, non-tutto fallico, come dicevo prima, ma non per inquadrarlo, bensì per metterlo al lavoro, anche con l’invenzione. La testimonianza della propria analisi che alcuni analisti scelgono di fare mette in luce le trasformazioni che hanno portato a toccare l’impossibile e a farne una preziosità. È un’invenzione straordinaria di Lacan che si pratica solo nella sua scuola e si chiama passe.
Negli anni recenti le teorie di Lacan si stanno affermando anche tramite studiosi che lavorano il suo pensiero e la sua clinica. Quali sono, oggi, i nomi dei più autorevoli “traduttori” delle complesse teorie lacaniane? 
Principalmente Jacques-Alain Miller, genero, allievo e curatore testamentario dell’opera di Jacques Lacan. In Italia abbiamo Antonio Di Ciaccia, allievo e analizzante di Lacan, investito da Miller quale curatore e traduttore dell’opera di Lacan. Il suo è un lavoro straordinario, perché riesce a mettere in italiano, come non era mai accaduto prima, il “cristallo della lingua” di Lacan. Quella di Di Ciaccia è una vera passione, direi un amore per Lacan. Quando si dice transfert di lavoro, ecco la sua è la trasformazione del transfert dell’analizzante su Lacan in transfert di lavoro su Lacan. Noi siamo fortunati. Almeno, io mi ritengo fortunata.
http://www.leggendaria.it/leggendaria-n-1062014-editoriale

INTERVISTA A ERICA JONG

di Antonio Farinola, mangialibri.it, 21 luglio 2014
Uscendo dalla stazione Duomo della metropolitana di Milano ho pensato: “Oggi Milano sembra Londra”. Una giornata di luglio piovosa e con una temperatura da inizi autunno. Bene. Londra mi porta fortuna, è una delle città in cui vorrei vivere. È un pensiero positivo, di buon auspicio per uno che fa la sua prima intervista, e la deve fare ad un gigante della letteratura moderna come Erica Jong, a Milano per la presentazione dell’edizione del quarantesimo anniversario di Paura di volare. Dimentico il mio ombrello al bar e davanti al lussuoso albergo dove ho appuntamento scambio una giornalista per l’addetta stampa di RCS… segnali decisamente negativi. Poi però, grazie alla simpatia che suscita il principiante, i giornalisti presenti cominciano ad interessarsi a me. Mi fanno domande su Mangialibri, mi fanno i complimenti per il coraggio, mi parlano dell’importanza di un’autrice come la Jong, mi danno consigli. Mi sento elettrizzato, ed allo stesso tempo mi viene in mente l’immagine di me che mi lancio da un aereo su di un campo di battaglia rendendomi conto ormai troppo tardi di non avere il paracadute. Ed ecco che lei entra nella elegante area adibita a sala stampa. Tutti si alzano per stringerle la mano. Ma non è solo cortesia. È rispetto. È ammirazione. È una standing ovation. Per qualche motivo la Jong, dopo che è toccato a me presentarmi, si sofferma proprio su di me. Trova divertente il nome “Mangialibri”, così glielo traduco in inglese. Il suo grande sorriso mi tranquillizza. Quel suo “Antonio!!!” detto con l’accento americano mi dà coraggio. Da quel momento in poi capisco di essere esattamente dove vorrei essere. Si sposta in un’altra stanza per essere intervistata dalla Rai. Attendo il mio turno. Torna e si siede davanti a me sorridente, io attivo il registratore dell’iPhone (stavo per dimenticarmene!), faccio la prima domanda, e si comincia…
Quali sono le ragioni per cui Paura di volare ha venduto quasi trenta milioni di copie nel mondo? Perché oggi, dopo 40 anni, viene ristampato e viene definito ancora dal Washington Post “irresistibile”? Insomma: perché è considerato un grande classico?
Penso che sia un libro liberatorio. Ricevo spesso mail, anche da persone giovani, che mi dicono che il libro trasmette loro un senso di liberazione. C’è qualcosa in questo libro che fa sentire le persone come se potessero fare qualunque cosa.
Come è cambiata la sessualità delle donne americane dal 1973 ad oggi? C’è ancora quella differenza di cui parli nel libro, ovvero secondo te ancora oggi le donne europee sono meno prigioniere di stereotipi sociali (e sessuali) rispetto alle americane?
È impossibile dirlo. Penso che le donne siano cambiate in tutto il mondo, ora è come se dicessero: “Io esisto, io sono una persona, io posso”. È difficile parlare di sessualità poi, perché su questo tema le persone non dicono mai la verità.
E se le donne oggi, forse, non hanno più “paura di volare”, di cosa hanno paura? 
In Paura di volare ovviamente il volo è una metafora della libertà. Penso che al giorno d’oggi abbiamo paura della solitudine, di essere povere. Abbiamo paura di quello che lasceremo ai nostri figli in un mondo che stiamo distruggendo. Penso ai miei nipoti, ai problemi ambientali, ai ghiacciai che si stanno sciogliendo e sono preoccupata perché abbiamo solo quest’unico pianeta e non ne stiamo avendo cura.
Cosa pensi del caso Cinquanta sfumature di grigio, a proposito del quale alcune volte, credo in maniera sbagliata, Paura di volare è stato tirato in ballo?
Penso che è ridicolo, perché Cinquanta sfumature di grigio è terribile. Non è per nulla un libro onesto ed è scritto veramente male. È un libro esecrabile.
Qual è il tuo pensiero sulla psicanalisi? A giudicare dal libro per nulla positivo…
Può essere molto di aiuto. Nel mio caso, mi ha aiutato a diventare una scrittrice perché ero spaventata di condividere il mio lavoro. È ancora molto difficile mostrare un libro quando lo finisco, è come se scrivessi in privato e quando devo mostrare il mio lavoro alla mia casa editrice sono sempre molto nervosa. La psicoanalisi mi ha aiutato molto in questo.
Cosa pensi delle donne italiane?
Le donne italiane sono incredibili. Sono così affettuose, così creative, riescono a fare così tante cose: si prendono cura dei propri impegni, ma anche dei figli e della famiglia. Penso siano incredibili, davvero.
http://www.mangialibri.com/node/14957
 

LA VITA DIGNITOSA STA NELLA QUALITÀ. Il giovane calciatore che sceglie gli studi

di Ferdinando Camon, avvenire.it, 21 luglio 2014
Torniamo sulla notizia del giovane calciatore che rinuncia a un ricco trasferimento perché vuol continuare gli studi. «È un figlio ideale», commentava qui ieri Massimiliano Castellani. Sì. Ma la madre è d’accordo col figlio, quindi anche la madre è una madre ideale. I figli sono lo specchio dei genitori. E figure così non sono frequenti nel mondo dello sport. Ho avuto, da insegnante, un allievo che giocava in una grande squadra di serie A. Bravo studente. Ma cattivo giocatore, rendeva meno di quel che poteva: arrivava come un fulmine fin sottoporta e lì si piantava, come se un blocco mentale lo paralizzasse. La squadra gli affiancò uno psicanalista…
Per continuare:
http://www.avvenire.it/Commenti/Pagine/la-vita-dignitosa-sta-nella-qualita.aspx?utm_content=bufferbb1d6&utm_medium=social&utm_source=facebook.com&utm_campaign=buffer
 

METTERE IN PAROLE I SENTIMENTI. Il genere epistolare, considerato minore, è il più vero. Nel carteggio tra Rilke e Lou Salomé, biglietti, cartoline, telegrammi. Anche tre o quattro in un giorno

Dopo le Lettere d’amore ad Albertina Rosa scritte da Pablo Neruda, arriva oggi in edicola il secondo volume della collana «Lettere d’amore» proposta dal «Corriere della Sera», che in venti libri (in vendita a e 6,90 più il prezzo del quotidiano, i primi tre sono disponibili anche in ebook a e 3,99) mostrerà scrittori, artisti e scienziati dell’Otto e Novecento nell’inedita veste di innamorati. Da qualche parte nel profondo. Lettere 1897-1926 presenta, con introduzione di Sabrina Mori Carmignani, l’intenso carteggio tra il poeta e drammaturgo austriaco Rainer Maria Rilke e la psicanalista tedesca di origine russa Lou Andreas-Salomé
di Roberto Galaverni, corriere.it, 21 luglio 2014
Letteratura o vita? Il genere epistolare possiede, o per lo meno possedeva, un grado di convenzionalità retorica e di ritualità stilistica non inferiore a quello di generi senz’altro più riconosciuti e, in apparenza almeno, più formalizzati, come il romanzo, il racconto, la raccolta di liriche. È proprio la centralità della domanda che ho posto all’inizio ad aver determinato di volta in volta le sue modalità espressive, la disposizione della lingua, il passo della scrittura, il tono e la temperatura della voce. Tra lo scrivente e il destinatario di una lettera sussiste una sorta di patto implicito che rimanda al primato dell’esistenza vissuta rispetto alla trasfigurazione letteraria. Eppure, è vero che una lettera acquista la sua intensità proprio lì dove quel primato viene posto in questione dalla forza e insieme dall’impotenza delle parole. Come mettere in forma di parole la vita senza che la vita nelle parole si perda? Chi scrive una lettera non fa che porsi nel più radicale dei modi l’identica, fondamentale domanda da cui ha origine la stessa letteratura.
Per continuare vai al link:
http://www.corriere.it/cultura/14_luglio_21/mettere-parole-sentimenti-fad24622-1100-11e4-beef-e3441e67d81c.shtml

IL COGNOME DELLA MADRE. Una scrittrice americana racconta le implicazioni della scelta sua e di suo marito per loro figlia, su un tema complesso e molto attuale anche in Italia

di Giulia Siviero, ilpost.it, 22 luglio 2014
Molly Caro May, insegnante e scrittrice che vive nel Montana, ha pubblicato nel sito The Hairpin unarticolo intitolato “Che cosa è successo quando abbiamo dato a nostra figlia il mio cognome”. Il tema è particolarmente attuale anche in Italia, dove il 17 luglio il voto sulla proposta di legge in discussione alla Camera per introdurre la possibilità di dare ai propri figli in Italia anche il cognome della madre o quello di entrambi i genitori è stato rimandato a data da definirsi. Molti deputati non erano preparati, altri hanno criticato la proposta perchè avrebbe creato del caos burocratico. The Hairpin è un sito nato nel 2010: è curato da una redazione di donne, raccoglie testi e storie di vario genere inviati soprattutto da donne ed è letto, “per lo più dalle donne”.
La storia di Molly Caro May
La storia di Molly Caro May inizia così:
«Una mattina nevosa al college, mi sono seduta sul mio futon, ho guardato fuori dalla finestra del dormitorio, e ho provato a dire al mio fidanzato Chris: “Che cosa penseresti se i nostri figli avessero il mio cognome?”. “Certo”, ha detto ancora mezzo addormentato: “Perché non dovrebbero avere il tuo cognome?” Probabilmente allora ero troppo timida per mostrargli il mio sollievo».
Molly e Chris si sono sposati dieci anni dopo e Molly era incinta. Molly e Chris avevano deciso di non conoscere il sesso, ma avevano già deciso che il cognome sarebbe stato il cognome di lei: «Non ci sembrava rivoluzionario. Ci sembrava normale»:
«Incinta di quattro mesi, quando la gente ci chiedeva se avessimo scelto un nome, condividevamo invece la nostra scelta del cognome. Nessuno di noi si aspettava un dramma. Le nostre famiglie lontane e vicine erano sempre state di mentalità aperta. Ecco perché il loro stupore ci stupiva così tanto». Il fratello minore di Molly le chiese addirittura se il marito non sentisse di essere stato evirato: «Stava scherzando, e più tardi si scusò con me, ma pensai che mio fratello in qualche modo rappresentasse tutti gli uomini che potevano sentirsi evirati dalla nostra scelta».
«Avevo segretamente sperato che non ci fosse alcuna reazione, e che la nostra scelta fosse qualcosa di comune, come dire, “ho preso la senape al posto del ketchup”. Nessuna reazione dovrebbe significare che va bene, giusto? Che le donne in questo paese, per esempio, non sono più considerate proprietà degli uomini, anche per quanto riguarda il nome. Che i sistemi di un tempo stanno davvero crollando. Che possiamo riappropriarci di un linguaggio che in passato è stato usato per controllarci».
Le reazioni furono invece molte e diverse tra loro: qualcuno si preoccupava che non venisse salvaguardata la discendenza, alcune amiche sposate non dicevano nulla «ma facevano grandi sorrisi», altri li prendevano in giro. Verso la fine della gravidanza, Molly andò a New York a trovare una cugina, «una donna straordinaria e feroce la cui voce “opinioni politiche” su Facebook recitava “Io sono per fare uso di droghe durante un aborto, nonostante abbia sposato un immigrato clandestino gay”». Molly le disse della scelta del cognome:
«Alzò le mani dal volante e gridò: “Che cosa?”, come se stesse pregando, come se la terra avesse tremato. Una breve pausa e poi: “Lo voglio anch’io. Lo desidero davvero. Ma il mio uomo non me lo permetterebbe mai”. Quel momento mi ha confermato che il patriarcato è ancora profondamente radicato in tutti noi. I cognomi sono una delle mani invisibili del vecchio mondo. Dare a un figlio il cognome del padre è ancora un fatto dato per scontato. Che preserva con certezza il posto dell’uomo al potere, dalla Corte Suprema in giù, fino alla alla vita di tutti i giorni. (…) Perché, mi chiedo, siamo così lenti su questo? (…) Sto iniziando a pensare che le coppie omosessuali con figli apriranno la strada».
Molly si confrontò allora con una amica («la più femminista delle mie amiche») che le fece notare come la scelta di non includere il cognome di lui non li mettesse come genitori su un piano di parità:
«Non era equilibrato, ma era stato non equilibrato l’altro modo per millenni e qualche volta il pendolo dovrà pur oscillare all’impazzata prima di tornare ad essere regolare… Non sosterrei mai che tutti i bambini debbano avere il cognome della madre. Ma immaginate se il 50 per cento di loro lo avesse. Immaginate l’impatto sociale sul nostro inconscio collettivo. Sarebbe un’azione che non richiede soldi, o pressioni o grandi fatiche: è una scelta che chiunque e in qualsiasi contesto potrebbe fare, più difficile per alcuni, lo so. Ma il nostro sistema di denominazione sarebbe sorprendentemente diverso. Nessun sesso lo avrebbe occupato».
E affronta a questo punto della sua storia una replica che molti fanno in questi casi: ci sono cose più importanti. «Ma il linguaggio non è mai qualcosa di irrilevante. La lingua dà forma al nostro modo di vedere le cose prima ancora di sapere che le stiamo guardando. Come chiamiamo qualcosa determina anche come la valutiamo. Se i cognomi delle donne sono costantemente assenti dalla storia, mai tramandati, allora dove è la loro, la nostra importanza?»
«Un ventoso giorno di aprile, nostra figlia è nata; o meglio, l’ho partorita. Naturalmente, Chris mi ha aiutato. Ma la mia amica ostetrica mi ha fatto notare che diciamo spesso, “il mio bambino è nato”. La nascita merita più di un’espressione passiva (was born, in inglese, ndr), perché non è un atto passivo. Si merita tutti i suoni animali che emergono da una donna quando deve aprire e spingere un bambino nel mondo. Quattro giorni dopo, l’abbiamo chiamata Eula Kautz May»
Qualcuno ha smesso di commentare. E altri ancora se ne sono scordati: «Anche se le persone lo sanno, si dimenticano. Molly Caro May racconta un ultimo episodio: delle persone avevano commentato quanto suo marito fosse stato fantastico per averle concesso di usare il suo cognome:
«Cercavo di sorridere e dire: “Sì, è fantastico, ma non per questo motivo”. Voglio dire che è fantastico perché la sua virilità non è mai minacciata, perché quando era un ragazzo la sua famiglia lo aveva soprannominato “tesoro”, perché mette alla prova il suo coraggio e i suoi limiti in montagna, perché è paziente con me. (…) Ma mai una volta sono stata preoccupata di doverlo convincere/supplicare/scavalcare per dare a Eula il mio cognome. Quando le amiche mi sussurrano “Sono un po’ invidiosa” mi rendo conto che forse questa è una conversazione che non hanno mai potuto avere. Forse non hanno mai avuto modo di chiederlo al loro partner. Forse sentivano di non poterlo fare. Forse lui non ha mai pensato di porre la questione. La mia speranza è una situazione pro-choice per i cognomi. Invece che un fatto dato per scontato, non potrebbe essere un argomento di discussione tra genitori? Forse qualcuno vuole un nome di famiglia integrato; forse qualcuno vuole onorare una bisnonna o un bisnonno; forse qualcuno vuole disfarsi di un cognome e unirsi a una nuova famiglia; forse qualcuno vuole dare al suo bambino quattro cognomi e lasciare che il bambino scelga a 18 anni. Non lo so. Qualcosa. Qualsiasi cosa. Basta che non sia un fatto dato per scontato».
May conclude immaginandosi la figlia, un giorno, con i suoi amici: «L’aria è frizzante. Il discorso è vivace. I cognomi sono cambiati. E ogni bambino può raccontare la storia del perché, anche se non importa più tanto, perché il pendolo è finalmente tornato al centro».
Perché?
In Europa – ma non in Italia – esistono delle leggi che, pur nella differenza, sono tutte ispirate allo stesso principio: quello della possibilità di attribuire al proprio figlio o alla propria figlia al momento della nascita il cognome paterno, materno o quello di entrambi i genitori. La Spagna — e in generale i Paesi dell’America latina, a parte l’Argentina — rappresenta un’eccezione: c’è infatti la regola del “doppio cognome”, per cui ognuno e ognuna porta il primo cognome di entrambi i genitori. (Qui, una breve guida su come funziona in Europa)
Anche gli Stati Uniti prevedono la possibilità di scegliere il cognome per i nuovi nati. Nonostante questo sono molto pochi i bambini e le bambine che hanno il cognome della madre, quando quel cognome è diverso da quello del loro padre (la percentuale si aggira intorno al 4 per cento). Questo dato è legato ad una seconda questione: sono molto poche le donne che negli Stati Uniti mantengono il loro cognome dopo il matrimonio preferendo assumere quello del marito. Secondo un articolo delNew York Magazine del 2013:
«Negli ultimi due decenni, la già piccola porzione di donne americane che mantengono il loro nome da nubile è diminuita. La massima percentuale raggiunta è stata quella del 23 negli anni Novanta. Nel primi dieci anni del 2000 era scesa al 18 per cento. Nel 2011,TheKnot.com ha intervistato 19.000 donne appena sposate e ha scoperto che solo l’8 per cento ha mantenuto il suo cognome».
C’è una grande discussione nel mondo anglosassone, e non solo tra femministe, su queste due questioni, se rivelino battaglie non condivise o battaglie impari. Per alcune è solo «un altro segno scoraggiante della morte del femminismo», per altre, in modo speculare, è «la prova che il concetto di patriarcato è vivo e vegeto».
In un vecchio articolo su Salon la giornalista Carol Lloyd, cercava di analizzare con l’aiuto di alcuni studiosi, le risposte più frequenti date da alcune donne che avevano deciso di perdere il loro cognome (“Il suo cognome suona meglio”, “Non ci ho mai pensato”, “A me non importava a lui sì” e così via). Donne, precisava la giornalista, che avevano scelto «di rinunciare a un collegamento simbolico con i loro figli per evitare la disapprovazione dei familiari conservatori anche quando erano però disposte a opporre resistenza alla tradizione su altre questioni». Per cercare di capire le motivazioni aveva intervistato anche una docente di scienze politiche (Jackie Stevens), una sociologa e psicanalista (Nancy Chodorow) e un’antropologa e biologa evoluzionista (Helen Fisher).
Per Jackie Stevens, il cognome rimane «l’unico modo di dimostrare la legittimità del padre». C’è insomma una ragione storica per cui un bambino dovrebbe assumere il cognome del padre: per dimostrare l’identità del padre stesso e compensare lo svantaggio naturale. La madre ha un legame evidente con il proprio figlio, il padre deve prendere parola per dimostrare quel legame, come dice l’abusato motto latino. Per Nancy Chodorow «dare il cognome dell’uomo al bambino è anche un modo della donna di dimostrare la propria fiducia nel matrimonio, come a dire: “Costui è qualcuno su cui posso contare. Si tratta di godersi il lato positivo del fatto di appartenere a una famiglia e di sentirsi in qualche modo che quest’uomo sta adempiendo ad un impegno. Si tratta poi di un concetto classico della psicanalisi di Jacques Lacan: la madre porta il bambino in utero, ma è con il nome che gli uomini vengono legati ai loro bambini. Il legame deve accadere in qualche modo». Insomma, una specie di cordone ombelicale linguistico.
Helen Fisher spiega infine come sia «estremamente vantaggioso pensare che il padre appartenga alla madre e al bambino, per ragioni evolutive darwiniane. Il motivo principale del matrimonio è per le donne quello di avere un uomo non solo come progenitore, ma anche come colui che le aiuta a crescere quei figli». Fa poi notare come diversi studi abbiano dimostrato come le madri tendano a commentare più spesso come il bambino assomigli al padre, invece che a loro: «Gli psicologi evolutivi hanno finito per pensare che questa abitudine è più di una semplice possibilità: è un modo di costruire una connessione tra padre e figlio»
Sembra dunque che quella del cognome, non sia mai diventata una vera e propria rivendicazione all’interno del movimento femminista (con delle eccezioni), né una conquista di cui si vedono le conseguenze. Tuttavia, visto che una delle pratiche centrali del femminismo è stata quella di rovesciare le disuguaglianze della storia (quelle che erano evidenti, ma anche quelle che sembravano di poco conto), alcune attiviste – che hanno fatto la scelta personale di dare il loro cognome ai figli, ma non di farne una battaglia politica – se ne sono in qualche modo pentite, come ha raccontatola scrittrice Lauren Apfel sul Guardian qualche mese fa.
http://www.ilpost.it/2014/07/22/cognome-materno/
 

ESCHER IN MOSTRA AL CHIOSTRO DEL BRAMANTE. POLIEDRI CHE GIOCANO COL SENSO DELLA LOGICA. Il Chiostro del Bramante dà spazio all’arte ‘paradossale’ di Escher, apprezzata da fisici, matematici, scienziati per la precisione ed il rigore delle forme, che rappresentano spesso scenari fantastici intrisi di effetti ottici sorprendenti ottenuti attraverso distorsioni geometriche interconnesse, che vanno via via creando costruzioni impossibili che ingannano l’occhio e la mente.

di Dalna Gualtieri, unmondoditaliani.com, 23 luglio 2014
Maurits Cornelis Escher (Leeuwarden, 17 giugno 1898 – Laren, 27 marzo 1972), incisore e grafico olandese sarà protagonista della mostra presso il Chiostro del Bramante dal 20 settembre 2014 al 22 febbraio 2015, un’esposizione che affascinerà scienziati, logici, fisici, matematici che rivedono nelle sue litografie, incisioni e disegni la struttura rigorosa dell’Infinito, rappresentata dall’interconnessione di figure geometriche, che vanno dal sé verso lo spazio esteriore, in strutture e costruzioni impossibili, che ingannano l’occhio e la mente creando forme paradossali. D’altronde Escher operò nel periodo delle grandi scoperte scientifiche, dalla teoria della relatività alle teorie sulla psicanalisi di Freud, e non poteva che rimanerne permeato e far evolvere in tal senso la sua arte. La relazione piano-spazio, i frattali, la metamorfosi, sono tutti concetti di cui l’arte dell’incisore olandese è pregna. Famose le sue litografie e incisioni su legno che sono esplorazione dell’infinito, dove partendo da concetti scientifici il paradosso la fa da padrone. La mostra sarà visitabile fino al 22 febbraio 2015, un’occasione per entrare in contatto con un artista originale che fa della scienza il punto di partenza della sua arte.
Poliedri che giocano col senso della logica, scale che salgono o scendono a seconda del punto di osservazione, per ricordarci che la realtà non è una ma dipende dal luogo in cui la si guarda e che ciò che è può anche non essere. Sulla scia della relatività anche il concetto di infinito viene riproposto da Escher in chiave artistica in cui figure geometriche e non si ‘rincorrono’ creando dei paradossi. Concetti come autorefenzialità, come nelle due mani che si disegnano a vicenda, successioni infinite, topologia, processi ricorsivi, Dischi di Poincarè sono solo alcune delle basi logico-matematiche su cui si basano i disegni, le incisioni e le litografie di un artista che ingloba tutto lo scibile dell’umano nelle sue opere. Una mostra da non perdere.
http://www.unmondoditaliani.com/escher-in-mostra-al-chiostro-del-bramante-poliedri-che-giocano-col-senso-della-logica20140723.htm
 

LA “COPPOLA STORTA”: LA MAFIA FINISCE SUL LETTINO DI FREUD

di Renato Minore, spettacoliecultura.ilmessaggero.it, 24 luglio 2014
Testimoni illustri come De Roberto, Capuana, Verga, Pirandello, Sciascia, Bufalino, Consolo, da ultimo lo stesso Camilleri hanno costruito «l’isola di carta» della mafia di questi ultimi centocinquanta anni con considerazioni, giudizi, figure, personaggi, stati d’animo, emozioni, sentimenti. Tutto un immaginario, una mediazione che, in forma narrativa, poetica, saggistica, teatrale, si è diffusa e ha condizionato modi di interpretazioni. In molti casi “racconti” sistematici che si sono impressi nell’immaginario, hanno a segnato approcci più veloci, giornalistici, cinematografici, televisivi. Filippo Di Forti, psicoterapeuta di lungo corso e di salda vocazione ermeneutica, nel suo libro «Immaginario della coppola storta» (edizioni Solfanelli, 170 pagine, 13 euro) propone un suo modello che, pur nutrendosi di quella materia letteraria così suggestiva e talora vincolante, se ne distacca per ciò che lui chiama «approccio psicoanalitico alla mafia».
Le idee di Freud, Fornari, Klein, Marx, Marcuse, Fromm sono il grimaldello per illuminare verità nascoste, per esplorarne zone più in ombra. Con i suoi strumenti interpretativi, la psicoanalisi può chiedersi perché la mafia abbia sempre avuto un rapporto profondo con il territorio e complicità nei luoghi comuni del costume popolare, nel silenzio e perfino nell’atteggiamento della chiesa cattolica. Con le sue parole recenti Papa Francesco ha dimostrato di essere coraggioso perché, come ben scrive Di Forti, la mafia ha necessità di avere il consenso. Se c’è un sentimento popolare di religione seppure connotato da pratiche pseudo – pagane come le processioni, il mafioso lo coltiva e se ne appropria, perché ha bisogno dell’approvazione popolare per potersi costituire come anti-stato.
Tra i terreni sondati da Di Forti, c’è la capillare capacità di penetrazione mafiosa nella società, l’assimilazione dei metodi del gangsterismo americano, il linguaggio esoterico, segnato da allusioni, cose non dette ma perfettamente percepite, gestualità essenziale. Infine il sadomasochismo alla base dei rapporti tra gli affiliati.
Ma al centro dell’analisi condotta con una strategica disposizione e disseminazione dei suoi punti di vista diffusa nei tredici capitoli del saggio, c’è la negazione del padre. Che diviene il Super Io di un gruppo in cui ogni individuo rinuncia al proprio ideale per un ideale collettivo, rappresentato dal nuovo leader o da un’idea, da un’astrazione che occupa il posto del capo. E la sacralizzazione dell’immagine materna, che diventa il «fantasma della mammasantissima» e si struttura in una famiglia governata dal matriarcato perverso nella coesione tra fratelli.
Di qui la figura del mafioso che può anche discendere dalla prima rilevazione di Pitrè, vero archetipo di una lettura della mafia di straordinaria impudenza o di straordinario orgoglio: l’orgoglio dell’essere siciliano in cui la qualità del mafioso è vista dal lato del coraggio e della dignità. Ma qui il mafioso diventa ribelle, conformista, fustigatore di costumi e, a un tempo, violento, feroce killer, senza alcuno spazio per i sentimenti. E la mafia, grazie ai «colpi di sonda» di Di Forti che la difendono da una rappresentazione chiusa nell’autosufficienza letteraria o nel determinismo degli interessi economici, si giustifica e si fonda eticamente sulla lealtà familiare, si fa tradizione, diventa costume indifferente alla legge legiferata.
http://spettacoliecultura.ilmessaggero.it/libri/la-amp-ldquo-coppola-storta-amp-rdquo-la-mafia-finisce-sul-lettino-di-freud/814160.shtml

SINDROME DEL BURN-OUT NEGLI INSEGNANTI

di Rosalba Miceli, lastampa.it, 25 luglio 2014
Il prerequisito fondamentale per l’efficacia professionale è l’equilibrio dell’operatore; il burn-out, di contro, consiste in una condizione di demotivazione e disimpegno in risposta allo stress e alla tensione sperimentati sul lavoro. L’individuo stressato – in burn-out – rende di meno, incorre più facilmente in errori professionali, è più vulnerabile allo sviluppo di patologie somatiche – tradizionalmente correlate allo stress – come le malattie cardiovascolari, o psichiatriche, quali l’ansia e la depressione, è più esposto al rischio di infortunio lavorativo, può assumere stili di vita disfunzionali (fumo di sigarette, gambling, abuso di alcolici, irritabilità) che rendono problematica la vita di chi ne soffre, ostacolandone non solo il rendimento lavorativo, ma anche le capacità affettive e relazionali. Il fenomeno del burn-out (in senso letterale bruciato, scoppiato, esaurito) è stato descritto per la prima volta nel 1974 dallo psicoanalista statunitense Herbert J. Freudenberger che, in un articolo sulla rivista Journal of Social Issues, ne formulò le caratteristiche fondamentali riscontrandolo negli operatori di una struttura psichiatrica. Successivamente il problema è stato approfondito da Christina Maslach che ha messo a punto una procedura valutativa basata su un questionario autosomministrato.
La maggior parte degli studi clinici e epidemiologici sul burn-out lavorativo sono stati rivolti agli operatori che svolgono compiti terapeutici (medici, infermieri, psicologi, psicoterapeuti) e in misura minore, allo studio di quelle che, pur non appartenendo all’area sanitaria, vengono riconosciute ugualmente come «helping professions» (assistenti sociali, tecnici di riabilitazione, educatori professionali, sacerdoti, poliziotti, insegnanti). Per quanto riguarda gli insegnanti (a tutti i livelli d’insegnamento, a partire dall’insegnante di scuola dell’infanzia fino al professore universitario) non è da sottovalutare il fatto che l’insegnamento espone in prima persona l’insegnante nella relazione con l’allievo, comportando impegno sul piano emotivo e un notevole carico in termini di stress e di aspettative. Alcuni studi sulle patologie professionali degli insegnanti (tra cui lo studio Getsemani, sviluppato a partire dall’analisi degli accertamenti sanitari per l’inabilità al lavoro) dimostrano ad esempio che le patologie psichiatriche (per la maggior parte riferibili alla sfera ansioso-depressiva) sono più frequenti rispetto alle patologie fonatorie nel determinare l’inidoneità permanente all’attività docente.
Sin dalla prima metà degli anni ’80 la sindrome del burn-out negli insegnanti è stata oggetto di attenzione da parte di molti studiosi internazionali ed è stata riconosciuta come risultante di alcuni elementi principali: affaticamento fisico ed emotivo; atteggiamento distaccato e apatico nei confronti di studenti, colleghi e nei rapporti interpersonali; perdita della capacità di controllo (Folgheraiter, 1994), ovvero smarrimento di quel senso critico che permette di attribuire all’esperienza lavorativa la giusta dimensione; sentimento di frustrazione dovuto alla mancata realizzazione delle proprie aspettative. Proprio su quest’ultimo elemento si è soffermato Franco Baldoni, attualmente docente di Metodologia Clinica presso il corso di laurea magistrale in Psicologia Clinica dell’Università di Bologna.
«Quanta autenticità mettiamo nel nostro lavoro? – si è chiesto Baldoni -. Quanto in esso realizziamo bisogni, affetti, ideali e passioni che realmente ci appartengono? Quanto ci procura soddisfazioni reali e profonde? Quanto ci permette di realizzare progetti in cui crediamo e di rappresentarci in un futuro? (Poniamoci la domanda: “Come mi vedo in questo lavoro tra dieci anni?” La risposta è un buon indice del nostro livello di burn-out). Ed infine, quanto siamo disposti a difendere la qualità del nostro lavoro?» (Baldoni F. , 2003: Il problema del burn-out tra vero e falso Sé. In Galli G. : Interpretazione e cura. Atti XXII Colloquio sulla interpretazione, Macerata, 2002, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, Pisa-Roma). Per tali motivi, in ragione della portata e della multidimensionalità del problema che interessa gli ambiti sanitario, sociale, culturale, economico e istituzionale, occorrerà formulare e realizzare adeguati programmi di prevenzione dello stress lavorativo con l’obiettivo di rendere l’insegnante più consapevole delle risorse di cui dispone per migliorare la sua capacità di far fronte alle complesse sfide che investono il mondo della scuola.
http://www.lastampa.it/2014/07/25/scienza/galassiamente/sindrome-del-burnout-negli-insegnanti-Uj6sE1adbStXmvl9Y8aD6N/pagina.html
 
IL MONACO E LO PSICANALISTA. Riflessioni sulla virtù del perdonare nella società di oggi
di Ugo Sartorio, Osservatore Romano, 25 luglio 2014
Il perdono è merce rara, in tutti gli ambiti di vita, ancor più nel mondo degli affetti e dei legami, in particolare quando questi, sigillati dalla promessa del “per sempre”, sono scossi dal trauma del tradimento. Eppure oggi capita, più spesso di un tempo, che quando si arriva al capolinea con quote non indifferenti di sofferenza da ambo le parti, quando cioè il rapporto a due si è ormai corrotto, «sempre più raramente — come scrive Massimo Recalcati, psicanalista lacaniano, in Non è più come prima. Elogio del perdono nella vita amorosa (Milano, Raffaello Cortina, 2014, pagine 160, euro 13) — chi vive un’esperienza di separazione affettiva importante riesce a intervallare la perdita dell’oggetto con una pausa di solitudine, anziché precipitarsi alla sua sostituzione con un nuovo oggetto».
La logica che sottende la storia affettiva di molte coppie, i conseguenti legami instaurati e il loro esaurirsi in tempi anche brevi, è la stessa agli inizi, quando già in partenza si è convinti che prima o poi si paleserà l’agonia della relazione addivenendo così alla sua fatale conclusione, come alla fine, con una sorta di veloce abbandono e di un altrettanto veloce reinvestimento affettivo. Un allineamento di tutta evidenza con la mentalità del turbocapitalismo e l’imperativo che ne deriva a godere, sempre e comunque, in maniera compulsiva e predatoria. Alla prima parte del titolo del saggio di Recalcati, Non è più come prima, siamo più che abituati, perché ormai non c’è gruppo parentale che non abbia accompagnato amori terminali e successivi ricominciamenti, così come non c’è prete che non abbia registrato un certo numero di fallimenti tra le unioni matrimoniali inaugurate con tanta solennità. La seconda affermazione, Elogio del perdono nella vita amorosa, è del tutto spiazzante. Non che l’autore voglia convincere qualcuno di alcunché, ma siamo di fronte allo svolgimento di un tema inusuale in maniera originale e, per così dire, controcorrente, attraverso un linguaggio piacevole e intenso, serio senza essere didascalico e profondo senza diventare criptico (i testi di Lacan vengono centellinati e opportunamente spiegati). Tra tutte le grandi domande a cui Recalcati cerca di rispondere, ve n’è una su cui l’autore torna di continuo: può l’amore resistere al tradimento e perdonare l’imperdonabile? Tenendo conto che, secondo Derrida, il vero perdono riguarda solo ciò che davvero è imperdonabile. Questa domanda è il nocciolo duro del discorso, il suo versante paradossale, la trama che il lettore intravede sin dalle prime pagine e che esercita lungo tutto il percorso un effetto magnetico. Al dunque, dopo aver descritto quanto avviene nelle dinamiche di coppia, Recalcati considera realisticamente i due esiti possibili, leggendoli entrambi come seria presa in carico della grandezza e serietà dell’amore. C’è chi resta fedele al patto iniziale perché, pur travolto dallo tsunami del tradimento altrui, col tempo, attraverso «il lavoro del perdono», riesce a «perdonare l’impossibile da perdonare», ritrovando la fiducia di dire ancora «Sì». C’è chi, a suo modo, rimane fedele al patto iniziale perché, per amore, «sperimenta l’impossibilità di perdonare», di rinnovare la fiducia e il dono della promessa, e perciò sospende l’«ancòra» dell’amore . In ogni caso «l’impossibilità del perdono non è di serie B rispetto alla serie A del perdono riuscito; non è il semplice fallimento del perdono. Anche l’impossibilità del perdono può essere una manifestazione radicale dell’amore: impossibilità di accettare lo spergiuro, il tradimento, l’abbandono della promessa, non per difendere un Ideale astratto. (…) Può essere impossibile perdonare perché non si vuole venire meno alla grandezza dell’incontro che si voleva per sempre». Anche perché può esserci un perdono in malafede, per paura di perdere l’amato o l’amata, di scardinare l’ordine familiare, di introdurre strappi troppo dolorosi nella propria vita. L’autore è convinto che «la fedeltà è una postura essenziale nell’amore», ma anche che nessuno può garantirla dal fallimento. Ed è a questo punto che, senza andare oltre per sondare altri filoni di riflessione che pure Recalcati offre, può essere introdotto un secondo testo, Dono e perdono (Torino, Einaudi, 2014, pagine 104, euro 10) di Enzo Bianchi. Si tratta di un libro di spiritualità composto da tre riflessioni: sul dono, la prima; sul perdono, la seconda, la più sviluppata; sulla compassione, la terza e ultima. Ci sono convergenze non da poco tra i due testi — pur essendo diversissimo l’approccio alla tematica — per quanto riguarda il perdono, ricordando che se il primo autore è un non credente, il secondo è un monaco, precisamente il priore della comunità ecumenica di Bose. Innanzitutto, anche per Bianchi il perdono è una strada, un cammino, un lavoro, «non una reazione» (Recalcati), quindi un processo obbligatoriamente lungo e faticoso, per il fatto che — come scrive Bianchi — «perdonare non è naturale e non è un sentimento spontaneo». Certe caricature mediatiche del perdono da dare o rifiutare subito, in diretta, davanti a telecamere invadenti e a giornalisti poco professionali che incalzano con domande deliranti, portano fuori strada. Così come è sospettabile una “fuga nel perdono” che voglia solo dissipare al più presto ogni aggressività. Il perdono, poi, non cancella la memoria dell’offesa e non comporta alcun resettaggio del passato, poiché «il perdono aiuta la memoria a guarire, non a morire» (Bianchi) e «il trauma è il rovescio della rimozione» (Recalcati). Fondamentale resta il fatto che a cambiare (a “convertirsi”, scrive Bianchi) è colui che ha subito l’offesa: «È la vittima che deve convertirsi: questa la portata scandalosa del perdono!», mentre, a livello psicologico si può dire che «il perdono è un lavoro che può avvenire solo in solitudine» (Recalcati), diventando, talvolta, «un’occasione per provare a fare un passo fuori dalle sabbie mobili del narcisismo»: in ogni caso non è il cambiamento dell’altro a meritare il perdono. Nei due testi, ritorna spessissimo la parola umanizzazione, per dire che il perdono è per ogni uomo, credente o meno, via sicura di espressione dell’umano in pienezza, dal momento che la rinuncia a ogni vendetta, a ogni cancellazione e oblio, può tramutarsi in riabilitazione dell’altro a cui viene ridata fiducia per un nuovo inizio. A ciò si aggiunge la nota della gioia: «Esiste una gioia misteriosa del perdono che alleggerisce gli amanti che la sanno raggiungere», annota Recalcati, mentre, in prospettiva cristiana, alla gioia umana si unisce la gioia stessa di Dio (cfr. Luca 15, 7) che in Gesù Cristo ci ha posti di fronte alla «cattedra del perdono per tutti» (Bianchi), la suprema cattedra dalla quale giustizia e amore parlano all’unisono.
http://vaticanresources.s3.amazonaws.com/pdf%2FQUO_2014_168_2507.pdf
 

IL SELFIE DI NARCISO

di Paola Mastrocola, ilsole24ore.com, 27 luglio 2014
Narciso e il selfie
Sapete Narciso, quel bel giovane che specchiandosi in un’acqua immota s’innamorava di sé tanto da cadere in acqua per potersi dare un bacio, e annegava? Quel Narciso di cui la psicanalisi ha fatto l’emblema di tutti i narcisismi? Bene, Narciso oggi sarebbe il meno narcisista di tutti, secondo me. Intanto, lui non si innamora affatto di sé, per il semplice fatto che non capisce di essere lui quell’immagine specchiata nell’acqua, pensa che sia un altro, e di quell’altro si innamora.
Per continuare:
http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2014-07-27/il-selfie-narciso-081439.shtml?uuid=ABFISneB
 
COSÌ LA FILOSOFIA ORIENTALE "AIUTA" LA PSICOANALISI. LA TESI DI FRANÇOIS JULLIEN
di Alessandra Peluso, affaritaliani.it, 28 luglio 2014
Noi esseri umani sembriamo creature sempre alla ricerca di un significato per tutto, che hanno avuto la sfortuna di essere stati gettati in un mondo privo di significato intrinseco. Uno dei nostri compiti più importanti è quello di inventarci un significato abbastanza forte da sostenere la vita e attuare una manovra disonesta di negare il fatto che siamo noi gli artefici di questa invenzione. A sostegno di un ordine necessario nella vita, suffragando in qualche modo il pensiero di Irvin D. Yalom, François Jullien propone al contrario "Cinque concetti alla psicoanalisi" perché si possa tendere alla vita – senza troppe complicazioni – accedendovi.
Questi cinque concetti: disponibilità, allusività, sbieco, de-fissazione e trasformazione silenziosa sembrano delimitarsi nel punto fisso dell'esistenza come una stella, una luce messianica che in qualche modo può supportare la psicoanalisi.
François Jullien, filosofo e sinologo francese, propone l'efficace metodo orientale nell'approccio alla vita e alla relazione a due. "Cinque concetti proposti alla psicoanalisi" sono ben definiti e dettagliati, atti a chiarire alcuni aspetti della vita nella quale si adottano metodi errati.
Ad esempio il filosofo spiega esaustivamente il concetto di "allusività", dal latino "ad-ludere" è in senso proprio venire a giocare intorno, in prossimità. Nella poesia cinese un buon poema non fa parola del sentimento provato, ma tutto lo lascia trasparire. Tutto è allusivo, ed evoca indirettamente ciò che, detto scopertamente sarebbe immediatamente circoscritto e inaridito. (p. 57). Questa la forza della filosofia cinese secondo la quale convergono solo due forze, due anime, lo yin e yang ossia il femminile e il maschile che raggiungono insieme un perfetto equilibrio. Non sono contrastanti né in lotta se non nel senso di comprendere il comune obiettivo.
Si allude poi al concetto di "disponibilità" che aprendosi alla diversità, si accompagna all'opportunità, a ciò che dal mondo viene a noi come "al suo porto": è disponibile colui che sa "vivere a proposito" ha detto anche Montaigne, ma senza spingersi a farne una disposizione della conoscenza. (p. 39).
Lo studio della cultura orientale è incisiva secondo il filosofo francese e può insegnare ad avere strumenti a sufficienza da adottare nella e dalla società occidentale.
I princìpi descritti in "Cinque concetti proposti alla psicoanalisi" della filosofia orientale soccorrono la psicoanalisi, individuano una realizzazione possibile di vita migliore rispetto al modello culturale occidentale che verte sulla "quantità", in un materialismo esasperato che enfatizza la "cosalità".
A tal proposito, Lou Marinoff sostiene la validità della filosofia orientale, in particolare del taoismo in quanto in grado di raggiungere un equilibrio interiore, il benessere, eliminando situazioni di stress emotivo.
Ecco allora che Jullien dà senso nel libro al confronto con la cultura cinese perché la sola capace di produrre quell'estraniamento che permette al pensiero psicoanalitico di scoprirsi nel proprio impensato, validando la psicoanalisi di addentrarsi in spazi di cura finora inesplorati. Per questo parla di "trasformazione silenziosa": come nella realtà che "non si odono i fiumi che scavano il letto, o il vento che erode le cime dei monti, ma sono loro che hanno disegnato poco a poco i rilievi che abbiamo sotto gli occhi, formando così il paesaggio". (p. 116). Il potere della trasformazione silenziosa è talmente forte, che senza farsi notare, opta per un radicale rovesciamento.
Lo psicoanalista ha questo compito – di mutare le condizioni –  con il paziente attraverso proprio i concetti proposti attraverso uno spostamento sotterraneo, smuovendo così le zolle in superficie e stimolando l'attenzione alla scoperta dei minimi indizi di una trasformazione che in fondo sfugge.
È un affascinante percorso, quello offerto da François Jullien che mette a disposizione riflessioni, chiavi di lettura opportune sia allo psicoanalista, a uno studioso specializzato e sia anche a lettori che amano trascendere dai limiti invalidanti che la cultura occidentale a volte impone.
Cinque concetti proposti alla psicoanalisi, di François Jullien, Editrice La Scuola 2014.
http://www.affaritaliani.it/culturaspettacoli/cos-la-filosofia-orientale-aiuta-la-psicoanalisi-la-tesi-di-fran-ois-jullien.html

QUANDO LO PSICOANALISTA SPIEGA IL “SUPER IO” DEI BOSS. “L’immaginario della coppola storta” di Filippo Di Forti

di Redazione, ansa.it, 30 luglio 2014
Non basta l’interpretazione socio-economica per spiegare lo spirito della mafia, i suoi comportamenti, il suo sistema di valori. C’è nel modello criminale di Cosa nostra un retroterra sommerso che può essere meglio illuminato con un approccio psicoanalitico. E’ il metodo scelto da Filippo Di Forti, psicoterapeuta allievo di Cesare Musatti e Franco Fornari, nel suo libro “Immaginario della coppola storta” (169 pagine, edizioni Solfanelli, 13 euro).
Per continuare:
http://www.ansa.it/sicilia/notizie/2014/07/30/libri-quando-lo-psicoanalista-spiega-il-super-io-dei-boss_77289c18-6dbc-44fa-9772-8600427849cd.html
 
Audio

L’INTERPRETAZIONE DEI SOGNI DI SIGMUND FREUD RACCONTATA DA GIANCARLO RICCI

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