PSICOLOGIA E PSICHIATRIA. ASPETTI STORICO-EPISTEMOLOGICI

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2 settembre, 2014 - 17:15
Il presente lavoro verte essenzialmente sui fondamenti epistemologici e storici che rappresentano i presupposti della conoscenza in psicologia e in psichiatria. Non ha certamente la pretesa di essere esaustivo, ma di accennare ad alcune tematiche che riteniamo pregnanti.
Alcuni argomenti riguardanti la fondazione del campo clinico, il rapporto tra le neuroscienze e la malattia mentale, la nascita della psichiatria moderna del XIX secolo e la sua successiva evoluzione, il problema delle cause e della diagnosi in psichiatria e infine i problemi etici e la posizione del soggetto in psichiatria, sono a nostro avviso temi di estrema attualità e pregnanza.
 Il tema centrale riguarda, tuttavia, il problema della psichiatria quale scienze di confine tra le scienze della natura e le scienze dello spirito, secondo la distinzione proposta nel contesto dello storicismo tedesco dal filosofo W. Dilthey. Si mostra, quindi, come nella misura in cui la psichiatria, nel corso del suo sviluppo, si sia maggiormente soffermata sul modello delle scienze della natura, abbia portato ad un’oggettivazione del folle, rimuovendo il profondo dolore della sua soggettività. Utilizzando i processi di riduzione, disgiunzione, quantificazione e ripetibilità sui quali si fonda la scienza, la psichiatria non ha fatto altro che ridurre in pezzi l’unità dell’esistenza caratterizzante il mondo della vita. La fenomenologia a partire dal lavoro di L. Binswanger vuole rimediare alla frammentazione proposta dalla scienza psichiatrica, rovesciando l’interpretazione naturalistica della malattia mentale e ponendo così le basi per la fondazione di una psichiatria più umana. Attualmente, tra i principali modelli teorici utilizzati nell’osservazione dei pazienti psichiatrici è il modello biologico.
Il modello biologico è quello della medicina generale e pone grande enfasi sulla necessità di identificare malattie discrete nelle condizioni morbose esperite dai singoli pazienti. Una sua completa attuazione si è rivelata finora impossibile per la limitata conoscenza dei fattori eziologici di molti disturbi psichiatrici.
A partire infatti dalla distinzione operata nel contesto dello storicismo tedesco ottocentesco dal filosofo W. Dilthey tra il metodo proprio delle scienze della natura (l’erklaren, ovvero lo spiegare i nessi causali dall’esterno attraverso la scomposizione e la riduzione) e il metodo della scienze dello spirito (il versthen, ovvero la comprensione dall’interno attraverso l’immedesimazione), distinzione ripresa dal filosofo e psichiatra K. Jaspers all’interno della sua Psicopatologia generale del 1913, è possibile riportate a due modelli ideali i diversi indirizzi psicologici e psichiatrici esistenti: il modello oggettivo della malattia mentale e il modello soggettivo del disagio psichico. Come infatti afferma Dilthey: 
 
«Le scienze dello spirito si distinguono dalle scienze della natura in quanto queste hanno come loro oggetto dei fatti che si presentano nella coscienza dall'esterno, cioè come fenomeni singolarmente dati, mentre in quelle i fatti si presentano dall'interno, come realtà e come connessione vivente. (...) Ciò condiziona la grande differenza dei metodi con cui studiamo la vita psichica, la storia e la società, da quelli con cui è stata condotta innanzi la conoscenza della natura»[1].
 
Storicamente, uno dei maggiori rappresentanti del modello oggettivo della malattia mentale è senza dubbio E. Kraepelin. Kraepelin soleva fare lezioni portando al cospetto dei suoi studenti un soggetto psicotico. Modalità questa oggi fortunatamente caduta in disuso. Con Kraepelin, per mezzo di questa straordinaria figura, la psichiatria si avvia ad essere psichiatria descrittiva, consolidandosi man mano all’interno di un orizzonte di senso schiettamente scientifico e neutrale nel quale la psichiatria reifica e oggettiva. Questo modello che non ha interesse per l’interiorità vissuta (e vivente) di “un’esistenza mancata”, si diffonde presto e subito per il trattamento e l’osservazione dei malati psicotici e schizofrenici, perlopiù nel contesto dei grandi ospedali psichiatrici, che, sul modello della Salpêtrière di foucoultiana memoria, ospitano una massa incredibile di persone folli [20]: il modello usato è, dunque, quello delle scienze naturali e questo vuole dire [51]:
a) l’osservazione empirica deve poter essere codificata con categorie oggettive: questo comporta quattro precisi procedimenti su cui poggia il metodo sperimentale: la riduzione, la disgiunzione, la quantificazione, la ripetibilità.
b) le ipotesi e le teorie psicologiche devono presentare un carattere impersonale, ossia devono essere libere, il più possibile, da variabili individuali.
L’oggettività è garantita dalla separazione tra l’osservatore e la cosa osservata: l’osservatore può porsi idealmente fuori dal fenomeno che osserva per scoprire le leggi che lo regolano. Il laboratorio è il contesto privilegiato nel quale l’osservazione può avvenire correttamente. Ma come vedremo si tratta di un’impostazione ingenua che, traslata sul piano della psicologia clinica, può diventare persino controproducente in termini sia conoscitivi che professionali. Per cogliere l’elemento pregnante di questo modello occorre svolgere una riflessione sul punto b. Il problema che si pone è il seguente: per elevarsi a conoscenza scientifica, le conoscenze psicologiche devono avere un carattere impersonale. Cioè, pur trattandosi di conoscenze generate dall’osservazione di persone in carne ed ossa, l’elemento personale deve dissolversi, dileguarsi; il criterio necessario di questo tipo di conoscenza è che le teorie psicologiche siano di natura universale[2].
L’opera di Kraepelin, come abbiamo già accennato, si basa sull’idea di individuare nel caos dei fenomeni clinici, gli elementi necessari di ogni processo psicotico. Questi elementi che appartengono al decorso, ma soprattutto all’esito, vengono ricondotti ad un danno cerebrale (danno che resta per lo più sconosciuto). Questo è l’aspetto per così dire strutturale della psicopatologia kraepeliniana. Per quanto concerne invece la concettualizzazione dei sintomi, questa psicopatologia appare aridamente descrittiva. Ecco i tre presupposti della clinica kraepeliniana:
I sintomi psichici non sono altro che anomalie dell’attività mentale o della condotta. Essi sono causati direttamente da un danno organico. La soggettività del paziente, il suo mondo, le vicende della sua vita non presentano alcun interesse psicopatologico o psichiatrico. Ciò che interessa non è il paziente, ma la malattia di cui egli è portatore. Civita [18] ci fornisce un esempio, a nostro avviso molto significativo, relativo ad una lezione di Kraepelin seguita poi da un commento di Laing che riteniamo importante riportare qui di seguito. La lezione in questione è la IX dell’Introduzione alla clinica psichiatrica del 1901; essa si svolgeva in questo modo: agli studenti venivano presentati dei pazienti che venivano visitati da Kraepelin (questa lezione è dedicata all’eccitamento catatonico e allo stupore catatonico, ma per ovvi motivi di spazio ci occuperemo soltanto dell’eccitamento).
 
«Signori! Il malato che oggi presento loro, viene innanzi quasi portato dagli infermieri[…] è un giovane di 18 anni, della scuola reale superiore, alto, abbastanza robusto[…]. Anche interrogato non alza lo sguardo, ma risponde da prima a bassa voce, e poi a poco a poco alzando il tono fino a gridare. Alla domanda dove si trova, risponde:
«Vuole sapere anche questo? Glielo dico io chi è misurato e viene misurato e deve essere misurato. So tutto. Glielo potrei dire ma, ma non voglio. Lo so benissimo e potrei dirglielo, ma non ne ho voglia». Richiesto del suo nome, grida: «com’è il suo nome? Che cosa chiude costui? Chiude gli occhi. Che cosa sta ad ascoltare? Non capisce niente. Come? Chi? Dove? Quando? Che cosa gli salta in mente? Quando gli dico di guardare, non guarda. Ehi tu, ma guarda dunque! Che cosa c’è? Cos’è? Sta attento; lui non sta attento. Quando dico che cosa c’è dunque perché dunque non rispondi? Diventi anche più sfacciato? Come fai ad essere così sfacciato? Vengo io veh?
Te lo faccio vedere io! Non farmi la bagascia! Tu sei matto; sei un mascalzone sfacciato, uno sfacciato schifosissimo mascalzone. Non ho mai visto un mascalzone così sfacciato, impertinente, miserabile, come te. Vuoi cominciare un’altra volta? Tu non capisci niente, proprio niente del tutto; non capisce niente costui. Se tu adesso seguiti, non vuol seguitare, non vuole; diventi ancora più sfacciato, ancora più sfacciato diventi? Come stanno attenti, ecc.,ecc.» E finisce imprecando con suoni del tutto inarticolati»[3].
 
Riportiamo questo brano perché è del massimo interesse un commento di Laing in L’Io diviso (1959) dopo aver riportato lo stesso brano:
 
«Kraepelin osserva poi, fra le altre cose, l’inaccessibilità del paziente. “Nonostante sia fuori di dubbio che il paziente comprende tutte le domande che gli sono rivolte, egli non ci ha fornito una sola informazione utile. I suoi discorsi sono…soltanto una serie di frasi sconnesse, che non hanno alcun rapporto con la situazione generale”. Che il paziente mostri “segni” dell’eccitamento catatonico è indiscutibile. Ma la costruzione che eleviamo su questo tipo di attività dipende dal rapporto che avremo stabilito con il paziente; e dobbiamo a Kraepelin e alla sua vivida descrizione, se cinquant’anni dopo, il paziente è vivo davanti a noi in questa pagina. Ma che cosa sta facendo? Sicuramente un dialogo: fra la sua versione, parodistica, di Kraepelin, e il suo io in rivolta. «Glielo dico io chi è misurato e viene misurato e deve essere misurato. So tutto. Glielo potrei dire ma non voglio».
Questo è un discorso abbastanza chiaro: presumibilmente il paziente è molto ostile verso questa forma di interrogatorio, che si svolge in un’aula piena di studenti, e non vede che rapporto possa avere con le cose che lo turbano profondamente. Ma queste cose non costituirebbero informazioni “utili” per Kraepelin, tranne che come nuovi “segni” di una malattia[…]. Sembra chiaro che l’attività di questo paziente può essere vista almeno in due modi […]. Si possono osservare nel suo comportamento i “segni” di una “malattia”; e si può considerare il suo comportamento come l’espressione della sua esistenza. La costruzione fenomenologico-esistenziale è un’inferenza sul modo con cui l’altro sente e agisce. Come è sentito Kraepelin dal paziente? Questo ragazzo pare tormentato e disperato. Che cosa “vuole” parlando e agendo in questo modo? Protesta perché lo misurano e lo visitano. Protesta perché vorrebbe, invece, che lo ascoltassero»[4].
 
Tuttavia, sia il modello oggettivo della malattia mentale che quello soggettivo del disagio psichico trovano radici comuni nel pensiero e nella pratica di P. Pinel, a testimonianza del suo ruolo inaugurale[5]. Nel suo Trattato medico-filosofico sull’alienazione mentale si legge:
 
«Secondo un’opinione diffusa e abbastanza naturale l’alienazione delle funzioni dell’intelletto è stata ricondotta a un cambiamento o a una lesione di una parte qualsiasi della testa; in seguito questa opinione ha trovato un sostegno nei risultati dei successivi lavori di Bonnet, di Morgagni, di Meckel e di Greding […]. Da qui il pregiudizio di considerarla, quasi sempre, incurabile, di sequestrare semplicemente gli alienati dalla società e di rifiutare loro anche i soccorsi che sono dovuti a qualsiasi infermità. Per un altro verso, le numerose guarigioni operate in Inghilterra e in Francia, il verificato successo del trattamento morale in un gran numero di casi, il risultato di parecchie autopsie che non hanno palesato alcuna lesione organica […] sembrano dare credito a un’opinione contraria alla precedente»[6].
 
Nel Trattato del 1800, vengono illustrate due importanti teorie. La prima riguarda, appunto, le cause della malattia mentale: contrapponendosi ad una tradizione che risale all’antichità, Pinel sostiene che, tranne in rari casi, la malattia proviene da una causa “morale” – noi diremmo psicologica – che interessa direttamente la sfera emotiva: le passioni. La sua è evidentemente anche una critica al pessimismo terapeutico e al fatalismo imperante dell’epoca. L’alienazione è dunque uno sconvolgimento mentale, un dèrangement dell’equilibrio emotivo e intellettuale dell’individuo, cagionato da una passione portata all’eccesso. Ma leggiamo le parole di Pinel che sembrano ancora oggi di grande attualità ed importanza terapeutica:
 
«La speciale disposizione all’alienazione dell’intelletto, in certi periodi della vita maggiormente esposti a passioni tempestose, si concilia facilmente con i fatti presentati negli ospizi. Nel censimento degli alienati che feci a Bicêtre nell’anno III della Repubblica, ravvisai che le cause determinanti di questa malattia sono quasi sempre delle affezioni morali molto forti, come un’ambizione esaltata e delusa nelle sue aspettative, il fanatismo religioso, dei dolori profondi, un amore infelice. Su 113 alienati sui quali ho potuto ottenere informazioni esatte, 34 erano stati ridotti in questo stato da dispiaceri domestici, 24 a causa di ostacoli frapposti a un matrimonio fortemente desiderato, 30 dagli avvenimenti della rivoluzione, 25 da uno zelo fanatico o dal terrore dell’aldilà; alcune professioni predispongono più di altre alla mania»[7].
 
Se la malattia ha un’origine “morale” anche la terapia dovrà essere un trattamento morale (ed è questa la seconda teoria all’interno del Trattato) che si costituisce come la prima forma di terapia psicologica. Il principio di base del trattamento di Pinel è il seguente: contrapporre alla passione sfrenata che ha prodotto la follia, una passione altrettanto forte tale da estinguere la passione morbosa (e questa passione curativa che si contrappone alla passione patologica, non può non farci venire in mente la grande metafora del transfert[8]). In queste due teorie – la teoria delle passioni e il trattamento morale – si comincia a delineare una nuova concezione, in contrapposizione a quella vista in precedenza, della malattia mentale. Non occorre ai fini del discorso che stiamo affrontando scendere nei particolari della terapia di Pinel, che racchiude in sé elementi di pensiero magico per la cura della malattia, che può anche avvenire in un colpo solo attraverso la manipolazione della personalità del paziente, il quale riveste un ruolo assolutamente passivo[9]. Quella di Pinel è allora una visione ancora infantile del modello psicologico in quanto contrapposto ad un modello biologico. L’ineguagliabile e matura opera di Freud libererà il modello nato con Pinel dalla sua rappresentazione ancora ingenua e semplicistica della malattia mentale. Ma ciò che ci sembra importante mettere in risalto è che in questo primo abbozzo di un modello non naturalistico, risulta fondamentale la conoscenza approfondita del singolo paziente, della sua vita, delle sue passioni, e di conseguenza l’approccio terapeutico è personalizzato; inoltre è un trattamento che richiede molto tempo, nonché dedizione e passione.
A partire dal XIX secolo, le condizioni materiali della psichiatria manicomiale si modificano, rendendo impossibile gli insegnamenti di Pinel. Due sono le ragioni principali [20] : la prima è di ordine teorico: le teorie eziologiche proposte da Pinel vengono soppiantate dalle teorie organicistiche, che relegano i fattori psicologici in una posizione di totale irrilevanza[10]. La seconda ragione è relativa all’istituzione manicomiale: per tutto il 1800 e gran parte del 1900 si ritiene fondamentale, per un buon trattamento della malattia mentale, ma anche per ragioni di tipo sociale, il ricovero tempestivo e prolungato in manicomio. Si giunge, così, in poco tempo, ad un incredibile affollamento dei manicomi fino a raggiungere un rapporto tra medici e pazienti di 2 a 1000. E’ chiaro che in simili condizioni, il trattamento prolungato e personalizzato concepito da Pinel diventa irrealizzabile. Con la sua morte, il trattamento morale scomparirà.
 
In un altro contesto, che è quello dell’ipnosi, ma con idee per certi versi molto simili a quelle di Pinel, nascono nuove iniziative. Non è questo il luogo per addentrarci nella storia dell’ipnosi del XVIII e del XIX secolo, che ha come protagonisti Franz Anton Mesmer (1734-1815), Ambrosie Auguste Liébeult (1823-1904), Hippolyte Bernheim (1840-1919) fino a Jean-Martin Charcot (1825-1893) il quale si dedicò con grande abnegazione all’istero-epilessia interpretata da lui come disordine funzionale, senza lesione organica, sine materia, del sistema nervoso. La sua tesi centrale è questa: la suscettibilità ad entrare in uno stato ipnotico costituisce un fenomeno patologico che è parte integrante della costellazione sintomatica dell’isterica. Solo l’isterica può essere ipnotizzata o può spontaneamente sviluppare uno stato ipnotico. In questi importanti teorici dell’ipnosi, troviamo ancora quei tratti di “onnipotenza infantile e magica” che abbiamo indicato anche in Pinel; anche se la presenza di tali elementi infantili non esclude che questi medici potessero realmente ottenere, attraverso la suggestione, i successi terapeutici descritti nelle loro opere.
Charcot e Bernheim ci conducono a Sigmund Freud (1856-1939), il quale li frequentò entrambi e li ebbe come suoi maestri. Non possiamo, qui, affrontare lo sviluppo della psicoanalisi nei suoi avvicendamenti paradigmatici all’interno dell’ortodossia freudiana, né tanto meno la diaspora dei più fedeli allievi del Maestro ed il conseguente proliferare di una vera e propria babele conoscitiva: dal modello catartico alle successive revisioni del modello pulsionale avanzate dallo stesso Freud; dalla psicoanalisi jungiana alla psicologia del Sè kouthiana, dalla psicologia dell’Io di H. Hartmann alla scuola di A. Freud, a quella di W. Reich, ecc., ecc.,).
Tuttavia, ci è utile notare che questo secondo modello si realizza per la cura di pochi malati, affetti da nevrosi[11], non gravi, nel senso che conservano ancora una rappresentazione della realtà tale da poter interagire più o meno efficacemente con essa, all’interno perlopiù del contesto degli studi (privati) di coloro che furono i pionieri della psicoterapia. Un’altra cosa è importante sottolineare: nell’espletare la cura, c’è ancora una sostanziale a-simmetria tra chi cura e chi è curato: il medico è infatti detentore di un sapere che è considerato agli albori un sapere magico, iniziatico, e il paziente resta in una posizione di (quasi) assoluta passività.
 
Entriamo adesso nel vivo del secondo modello di conoscenza psicologica, il modello soggettivo. La tesi fondamentale di questo modello è che la conoscenza psicologica è attendibile solo se i fatti psichici sono osservati e indagati nel loro luogo naturale, ossia nel flusso dell’esistenza individuale. Questo atteggiamento solleva subito un problema: se la fonte primaria della conoscenza psicologica è l’osservazione del singolo individuo, e se è vero, come è vero, che ogni individuo è diverso da ogni altro e ha un’irripetibile storia di vita, allora il passaggio dalla conoscenza individuale a quella universale risulta quanto mai problematico. Il processo della generalizzazione e della conseguente costruzione di una teoria universale sembra precluso in partenza. Il problema del rapporto tra osservazione e teoria rappresenta effettivamente un grave cruccio per gli orientamenti che condividono questo modello, tra i quali annoveriamo anzitutto la psicoanalisi, la terapia della Gestalt, la psicologia e la psichiatria fenomenologica. Adesso ci sembra opportuno presentare un esempio per dare maggiore concretezza alla distinzione che stiamo delineando. Che cosa significa conoscere uno stato mentale? Secondo il modello oggettivo significa individuare e descrivere le proprietà oggettive o oggettivabili dello stato mentale stesso. Secondo il modello soggettivo, significa descrivere il modo in cui lo stato mentale s’inserisce nella vita dell’individuo. L’esempio che proporremo è tratto, per ragioni di chiarezza espositiva, dalla psicopatologia[12]. Che cosa significa conoscere un delirio? Per il modello oggettivo, significa descriverne le proprietà oggettive o suscettibili di essere oggettivate. Proprietà di questo tipo sono: se il delirio è acuto o cronico; se è lucido o confuso; se è organizzato o disorganizzato; se è di natura persecutoria o onnipotente; l’età e il sesso del paziente; l’esordio del deliro; l’anamnesi psichiatrica del paziente e della sua famiglia, e così via. A tali proprietà corrispondono informazioni sul delirio che hanno valore conoscitivo indipendentemente sia dal contenuto qualitativo del delirio, sia dalla sua relazione con la storia di vita del paziente. Descritto con questi parametri, il delirio si configura come un’entità oggettiva – analoga a una febbre o a un disturbo gastrico – che consente per esempio di dire che Tizio e Caio hanno lo stesso delirio. Questa modellizzazione apre la strada alla costruzione, fondata anche statisticamente, di una teoria generale del delirio, una teoria che può legittimamente disinteressarsi della soggettività della persona delirante.
Per il modello soggettivo conoscere il delirio significa tutt’altro. I caratteri oggettivi del delirio hanno certo la loro utilità, ad esempio per formulare la diagnosi, ma essi formano semplicemente una superficie fenomenica che occorre oltrepassare per conseguire un’effettiva e profonda conoscenza psicologica del delirio. Oltrepassare lo strato fenomenico significa vedere il delirio come un tassello nella trama dell’esistenza. Il compito conoscitivo che si prospetta diventa allora quello di comprendere il suo senso: perché gli eventi della vita hanno condotto una persona a delirare, e a che cosa serve il suo delirio? In questa prospettiva il delirio appare come un evento della vita della persona, un evento carico di soggettività. E’ indubbio che il modello soggettivo produca conoscenze psicologiche molto ricche, ma queste risultano limitate al singolo caso, al singolo individuo. Si pone pertanto il problema del passaggio dalla conoscenza individuale alla costruzione di teorie, le quali aspirano per definizione all’universalità. Si tratta naturalmente di un problema di grande portata al quale potremo dedicare solo un piccolo cenno. Come termine di riferimento assumeremo la psicoanalisi classica[13] che costituisce sicuramente l’espressione più pura di un orientamento psicologico che abbraccia il modello soggettivo. Come nascono le teorie psicoanalitiche? Il terreno di partenza è l’esperienza e la conoscenza clinica, le quali hanno però il carattere individuale che abbiamo descritto. Il salto dall’individuale all’universale avviene – nei grandi pensatori psicoanalitici - in un unico modo: la riflessione sui casi individuali conduce, non senza l’intervento della speculazione, a congetturare ipotesi teoriche di ordine generale. Le teorie psicoanalitiche provengono dalla pratica clinica e alla pratica clinica sono destinate a ritornare. Non sono teorie nel senso proprio del termine; non descrivono stati di cose verificabili o falsificabili, non includono conoscenze oggettive. Da un lato fungono da bussola per orientarsi nell’attività clinica, da un altro funzionano come dispositivi per realizzare conoscenze attendibili sulla psicologia del paziente. Solo al vaglio della pratica clinica, dove ci si sforza di conoscere il proprio paziente, le teorie si dimostrano valide oppure superflue.
In ordine, dunque, al problema della natura della conoscenza psicologica, abbiamo distinto un modello oggettivo e uno soggettivo[14]. Facciamo invece un passo indietro e tentiamo di tracciare una sorta di mappa schematica contenente alcuni, a nostro avviso, importanti orientamenti nel campo della psicologia. Cominciando da Kraepelin, e dalla sua concezione della malattia mentale: la psichiatria biologica è largamente tornata in auge, dopo qualche incertezza di pochi decenni; è questa senza ombra di dubbio la più diffusa e la più potente psichiatria nel mondo. Sono due i fatti che hanno contribuito a questa larga diffusione: il primo è la scoperta, a cominciare dagli anni ’50, di psicofarmaci sempre più efficaci, insieme agli sviluppi straordinari della conoscenza neuroscientifica, il secondo è il successo mondiale del DSM, in virtù, anche del suo impianto strettamente descrittivo e (apparentemente) a-teoretico. Questo orientamento biologico è quello che più si avvicina al modello (ideale) oggettivo sopradescritto, ed ha in Italia il suo maggiore rappresentante nella scuola di G. Battista Cassano. Vi sono altri orientamenti che si avvicinano al modello oggettivo, come ad esempio l’orientamento neuropsicologico-cognitivo. A metà strada tra il primo modello e il secondo, si situa l’orientamento cognitivista. Spostandoci verso il modello soggettivo, troviamo l’orientamento fenomenologico, quello psicoanalitico (con le sue numerose diramazioni), quello sistemico-familiare, la Gestalt theory ecc., ecc.
Tuttavia, potrebbe sembrare pleonastico precisare quanto segue, ma la neurologia non è la psichiatria, esistendo fra queste due discipline un gap relativo ai diversi ambiti di indagine. La necessità di un capovolgimento nel discorso fondazionale della psichiatria è ravvisabile nella sua radicalità nella negazione dell’esistenza di “sintomi” di malattia a favore della denominazione di “segni” di cui il soggetto è portatore. La differenza fra “sintomo” e “segno” che Borgna [6] riprende da Schneider (1962), rovescia l’orizzonte di senso della psichiatria. Il paziente in questa prospettiva non può essere definito come portatore di “sintomi” ma come portatore di “segni” ovvero:
 
«di significati che si esprimono nella loro infinita cascata di rimandi indecifrati […]. La psichiatria ha come suo fondamentale “oggetto” di ricerca, e come suo orizzonte tematico, alcune formazioni psicopatologiche che la convenzione induce a chiamare “malattie”, anche se non c’è nulla in esse che possa dimostrare questa designazione. Di queste realtà umane e cliniche non sopravive la connotazione (kraepeliniana) di “malattia”, di “unità naturale di malattia” ma quella di esperienza psicologica e umana che non può non essere, ogni volta, decifrata nei suoi significati: nei suoi “segni” così variabili, fra l’altro, di situazione in situazione […] I fenomeni psichici e i fenomeni somatici sono separati da una area infinita di fenomeni sconosciuti. Ciò che è psichico, in quanto tale, deve essere studiato autonomamente e non ammette alcun confronto con ciò che è somatico. Né i fatti psichici possono essere tradotti in fatti anatomici: non c’è un solo processo cerebrale a cui sia correlato in un manifestarsi immediato e parallelo un processo psichico» Nella sua psicopatologia clinica K. Schneider sostiene che la psichiatria non ha nulla a che fare con la neurologia: “si è cercato di indagare il cervello come l’organo della vita psichica: si è creduto di avere trovata la via che doveva portare alla fine ad una localizzazione e a una spiegazione dei disturbi psichici e, di conseguenza, a una articolazione scientifico-naturale delle malattie psichiche (…) Gaupp ha sottolineato l’incompatibilità di principio dei processi materiali e dei vissuti psichici, e ha affermato quello che molti, ancora oggi, si vergognano a dire: la psichiatria non è solo un ramo della medicina scientifico-naturale. L’istologia patologica non potrà mai realizzare qualcosa di essenziale per la comprensione delle manifestazioni psichiche” (Certo, la moderna neurofisiologia e neurochimica non sono se non articolazioni tecnologiche moderne di quella che è stata, nella prospettiva concettuale della psichiatria dell’inizio del secolo, l’istologia microscopica)» [15].
 
Non sono queste tematiche riguardanti solo le neuroscienze o la psichiatria ad orientamento biologico, ma anche ad un certo modo di fare psicologia. Esiste infatti una psicologia comprensiva, ed una psicologia esplicativa. Nella prima "ha luogo un avvicinamento interumano, dove non c'è contrapposizione tra oggetto e soggetto, ma un insieme di relazioni, perché l'oggetto si risolve nel significato che assume per l'Io, e l'Io nell'oggetto in cui la sua intenzionalità emotiva si evidenzia". Nella seconda, le relazione psichiche non sono più comprese e vissute (erlebt), ma spiegate (erklärt), cioè ricondotte a cause. Con questo metodo - precisa Jaspers - "L'insieme della vita psichica viene dissolto negli elementi del pensiero causale".
 
Cerchiamo adesso di approfondire il tema riguardante il gap epistemologico tra la neurologia e la psichiatria. In Gabbard si legge:
 
 «Lo psichiatra psicodinamico moderno deve cercare di essere bilingue: per poter fornire ai suoi pazienti un’assistenza ottimale deve padroneggiare sia il linguaggio della mente sia il linguaggio del cervello […] Se riconosciamo che mente e cervello non sono la stessa cosa, quali sono le differenze? Prima di tutto, il cervello può essere osservato da una prospettiva in terza persona. Può essere rimosso dal cranio e pesato durante un’autopsia; può essere sezionato ed esaminato sotto un microscopio. Al contrario, la mente è percepita soggettivamente e può essere conosciuta solo dall’interno; è un’entità personale e privata. A questo proposito psichiatri e studiosi di neuroscienze contemporanei utilizzano spesso, come moderna forma di dualismo, il costrutto di dualismo esplicativo (Kendler, 2001) tale costrutto riconosce che esistono due modi diversi di conoscere o di comprendere, che richiedono due differenti tipi di spiegazione.
Un tipo di spiegazione è psicologico e in prima persona, mentre l’altro è biologico e in terza persona. Nessuno dei due approcci è di per sé in grado di fornire una spiegazione completa ed esauriente. […] Il regno della mente e quello del cervello parlano due lingue diverse».[16]
 
 Tuttavia, in un altro testo sempre a cura di  Gabbard [30] si legge in merito alle possibili modalità di integrazione della necessità di:
 
«un discorso che permette un dialogo tra mente e cervello capace di superare la dicotomia che per tanti anni ha influenzato il modo di teorizzare, diagnosticare e trattare i disturbi psichiatrici e di personalità (Mundo, 2006)»[17].
 
Dello stesso parere sembra essere anche Parisi (2004) il quale afferma in suo articolo intitolato “Gli scandali della psicoterapia e come disinnescarli” in relazione all’area di studio della psicologia clinica e della psicoterapia come territori in cui si scontrano scienze della natura e scienze dello spirito:
 
«con l’emergere di nuovi tipi di modelli teorici, si apre finalmente la possibilità di chiudere con questo dualismo e di integrare pienamente lo studio del comportamento e della vita mentale nello studio della natura, adottando per studiare il comportamento e la vita mentale lo stesso apparato concettuale delle scienze della natura»[18].
 
Riteniamo a questo punto opportuno se non necessario precisare il punto di vista epistemologico relativo al contesto di studi italiano, all’interno del quale Civita introduce - già nel 1993 - il dualismo epistemologico tra l’area di studi della psicologia sul mentale da una parte e l’area di studi delle neuroscienze sul cervello dall’altra, grazie anche all’utilizzo della filosofia del linguaggio di Wittgenstein (1967, pp.13-16)[19].
Civita [16] per tematizzare sul dualismo epistemologico inerente allo studio mente/cervello utilizza come esempio pregnante l’uso del termine scissione in psichiatria e in psicoanalisi. Infatti, in psichiatria e in psicoanalisi si parla molto spesso di scissioni psichiche e di pezzi o parti della mente. Per esempio la concezione della schizofrenia che Bleuler elaborò nel 1911 e a cui tuttora si fa riferimento si fonda precisamente sull'idea di scissione, di Spaltung. Questa idea, variamente modulata, rappresenta per Bleuler lo strumento concettuale con cui fondare un ordine nella confusa molteplicità delle manifestazioni schizofreniche. Sia pure in un quadro teorico molto diverso, anche la psicoanalisi, a partire da Freud, fa un uso massiccio dell'idea di scissione: per fare solo due esempi macroscopici: il rimosso è scisso dal non rimosso; l'esperienza analitica è scissa dall'esperienza non analitica. In tempi recenti è poi divenuta di uso comune, almeno in una porzione importante del mondo psicoanalitico, la teoria bioniana relativa alla separazione tra una parte sana e una parte psicotica della mente.
Per comprendere il nostro discorso è fondamentale rendersi conto di questo: quando i termini come “scissione”, “parte”, “pezzo” vengono impiegati in relazione alla mente assumono un significato e un funzionamento concettuale sostanzialmente diversi dal significato e dal funzionamento che essi presentano quando vengono impiegati in rapporto al cervello, al sistema nervoso o ad altre regioni dell'organismo. Qui è importante sopratutto la nozione di funzionamento concettuale di parole e frasi: se la parola “parte” viene riferita al cervello, l'espressione complessiva “parte del cervello” si trova ad essere sottoposta a una serie di regole d'uso che delimitano preventivamente, in forza di una necessità concettuale, il campo delle sue possibili applicazioni. Ben diverse sono le regole d'uso e le possibili applicazioni se l'espressione che stiamo impiegando non è “parte del cervello” bensì “parte della mente”. Per esempio: un chirurgo può sensatamente parlare “dell'asportazione di una parte del cervello di un paziente” per rimuovere un focolaio epilettogeno; altrettanto sensatamente uno psicoanalista può parlare di “un'alleanza con una parte, la parte sana, della personalità di un paziente. Ma è evidente che questi due diversi usi della parola “parte” non possono essere invertiti.
Un chirurgo non può allearsi con una parte sana di un cervello e uno psicoanalista non può tagliare con il bisturi la parte psicotica della mente. In entrambi i casi abbiamo a che fare con un non potere che è di natura concettuale e che dipende dal modo di funzionare delle parole nei diversi contesti in cui ricorrono. Il funzionamento di una parola non è arbitrario e non è modificabile a piacere, perché è determinato dalla relazione interna e profonda che unisce il linguaggio, i contesti linguistici concreti e il mondo. Nei termini di Wittgenstein si può dire che il funzionamento di una parola dipende dal gioco linguistico in cui ricorre. Neurochirurgia e psicoanalisi implicano giochi linguistici differenti, disciplinati da differenti regole; in essi possono certamente comparire le stesse parole – per esempio parte, scissione, separazione, rimozione, totalità; ma le parole sono uguali solo in apparenza, perché in realtà esse funzionano diversamente producendo significati diversi [16].
Ricapitolando, le diverse teorie che abbiamo finora preso criticamente in esame richiamano una posizione che potremmo qualificare come dualismo concettuale o dualismo epistemologico. Nella sostanza abbiamo già spiegato di cosa si tratta: il celebrale e il mentale sono campi del sapere nei quali i fenomeni si presentano e si articolano in modi profondamente diversi che esigono diversi sistemi concettuali. L'esplorazione neurobiologica e neuropsicologica delle attività mentali presuppone necessariamente una concezione della mente. Ma per poter essere utilizzabile nel contesto della ricerca neurobiologica, questa concezione della mente deve essere a sua volta di tipo neurobiologico. Questo significa che la neurobiologia e la neuropsicologia devono munirsi di concetti mentalistici compatibili con il sistema concettuale neurobiologico. Ciò di cui vi è bisogno in altri termini, è una concezione neurobiologica della mente, una concezione nella quale i concetti mentalistici funzionano come i concetti neurobiologici relativi alle strutture e ai processi del sistema nervoso centrale. La possibilità di costruire concetti di questo tipo sussiste dall'apertura fondazionale relativa al campo del mentale. Ma cos'è un concetto? È uno strumento mentale e linguistico che serve a fare delle cose. Nel nostro caso, i concetti sono usati nell'ambito di un'attività conoscitiva, ed essi pertanto servono, tra l'altro, a descrivere, a spiegare, a fare ipotesi, a convalidare ipotesi, a strutturare delle procedure pratiche, a costruire teorie. Parliamo poi di sistemi concettuali per riferirci al fatto che in ogni settore della conoscenza i concetti non sono usati isolatamente bensì a blocchi, così da formare un sistema organico, fitto di relazioni interconcettuali. Ma è meglio non dilungarci in spiegazioni così generali e astratte. Per i nostri scopi è più importante richiamare l'attenzione sul fatto che i concetti, esattamente come gli strumenti – secondo una celebre analogia di Wittgenstein[20]  hanno un modo specifico di funzionare. Essi non possono essere usati a caso o in modo arbitrario, ma devono essere impiegati in conformità alle rispettive regole di funzionamento. Se non vengono usati così, ne nascono confusioni o discorsi privi di significato. D'altra parte, poiché i concetti sono fatti in ultima analisi di parole, e poiché l'uso delle parole sembra dipendere interamente dalla nostra libertà, l'usare in modo irregolare un concetto è la cosa più facile di questo mondo, come dimostrano ampiamente la storia della scienza e della filosofia. Noi sosteniamo per esempio che gran parte delle confusioni che offuscano le riflessioni intorno al rapporto tra mente e cervello dipendano dal cattivo uso dei concetti, e in particolare o dal tentativo di applicare forzatamente alla sfera cerebrale concetti adatti alla sfera del mentale, oppure dal tentativo opposto. In conclusione: i concetti lavorano a blocchi e l'uso di uno di essi deve comportare la possibilità di attuare tutte le implicazioni che discendono dalla sua appartenenza al blocco. Se questa possibilità non sussiste, come nel caso dell'applicazione di concetti mentali alla sfera cerebrale, vuol dire che il concetto viene impiegato in un modo improprio, che genera enunciati privi di senso [16].
Troppo spesso chi pretende di non fare filosofia si consegna senza saperlo a una cattiva filosofia, tanto più cattiva quanto più meramente presupposta. Naturalmente il rapporto deve sempre escludere ogni usurpazione di compiti, ogni sconfinamento e ogni confusione linguistico-concettuale: il percorso, cioè si realizza non mediante un acritico assemblaggio ma in una linea di continuità e complementarietà. Tale percorso ha come inizio l’analisi meta-teorica della psicopatologia sul metodo, sui fondamenti e sui modelli teorici che le sono propri, per estendersi al problema della relazione metodo-oggetto approdando altresì a un’antropologia filosofica, cui spetta la scelta dei paradigmi sull’uomo e sulle sue valutazioni. Va infine precisato che l’antropologia filosofica, riferimento ineludibile di ogni sapere che studia l’uomo, è qualitativamente diversa e ulteriore rispetto all’antropologia scientifica, né può ridursi, come voleva la concezione vetero-positivistica, a una sintesi delle varie scienze dell’uomo.
La compiutezza di un dialogo interdisciplinare tra filosofia, psicologia e psichiatria si ha con Binswanger, le cui teorie non sono un’alternativa alla psicopatologia clinica. La Daseinsanalyse, infatti, non è né vuole essere, una psicopatologia o una psicologia, né una filosofia o un’antropologia filosofica. La sua collocazione, invece, va posta tra le scienze di esperienza caratterizzate dall’uso del metodo fenomenologico. Per tale motivo prescinde quindi da una rigida distinzione tra normale e patologico (come già in Freud e in Jaspers), così come ha scarso interesse per il problema eziologico mentre tende a cogliere gli aspetti e le modalità esistenziali dell’esperienza psicotica, il suo modo di essere nel mondo e di essere con gli altri. È dunque una ricerca di senso delle condizioni e delle forme psicotiche, ricondotte al di là di ogni considerazione nosologica e nosografica al disturbo della comunicazione come loro vera essenza (nel senso dell’eidetica di Husserl). È mediante l’analisi della presenza si perviene così all’individuazione di mondi psicotici dotati di un loro senso, di una loro struttura, di una loro organizzazione, che può e deve diventare oggetto di comprensione. In questa impostazione il rapporto psichiatra-paziente assume una nuova connotazione, poiché vi è non solo una tutela ma un’autentica riappropriazione della soggettività e si attua, pertanto, una comunicazione connotata dalle categorie dell’incontro e dell’amore. Con Binswanger il problema etico acquista quindi un pieno diritto di cittadinanza in psichiatria e l’esigenza della difesa della persona umana del paziente assume una significativa priorità di ruolo. Il riferimento al contributo dell’Antispichiatria su queste tematiche è doveroso. Pur non essendo condivisibili la radicalizzazione dell’orientamento sociogenetico e pur denunciando le pesanti infiltrazioni ideologiche e l’ingenuità di un’eziologia monofattoriale, le incomposte ed enfatiche polemiche nei riguardi dell’orientamento organicistico tradizionale, la maldestra derubricazione della malattia mentale dalla patologia alla sociologia, l’abuso dei concetti di artefatto sociale, emarginazione e violenza, è comunque incontestabile che Goffman, Cooper, Szasz e soprattutto Laing e Basaglia, in rapporto di continuità con la fenomenologia (limitatamente a Laing e a Basaglia), hanno sviluppato e arricchito il significato etico e sociale del rapporto con il paziente muovendo dal tentativo di interpretare la sintomatologia come risposta a stimoli ambientali. Il loro merito è di aver inserito le esigenze umanistiche in psichiatria, per quanto concerne sia la teoria e sia la pratica. E a differenza della psichiatria fenomenologica, l’Antispichiatria va oltre l’ambito propriamente etico per estendersi a quello etico sociale e sociopolitico. L’adozione del paradigma sociogenetico comporta una specifica focalizzazione sulla realtà umana e personale del paziente all’interno dell’articolazione dei suoi rapporti con la famiglia, l’ambiente di lavoro e la società nel suo complesso, ponendo pertanto sotto accusa istituzioni, strutture e metodi terapeutici della medicina alienistica tradizionale, rivendicando i diritti inalienabili anche civili dello psicotico e programmando, con finalità etica di ripristino dei valori negati, radicali trasformazioni del contesto sociale [44; 62; 63].
In merito al contesto italiano, Basaglia è stato non solo l’ispiratore ma anche un protagonista politico della svolta realizzata in Italia con la legge 180. Va comunque osservato che si impone una valutazione caratterizzata anche da un certo distacco critico per evitare i due opposti eccessi di una celebrazione agiografica e di una preconcetta denigrazione. Con la rivoluzione farmacologica degli ani ’50 - seppure la scoperta delle prime molecole dotate di attività nei disturbi psichiatrici sia stata spesso dettata dalla casualità, attraverso l’osservazione che i farmaci attivi in altre patologie possono essere dotati di una contemporanea efficacia nel modificare il funzionamento psichico con effetti antipsicotici come la riduzione dell’agitazione psicomotoria, il miglioramento del tono dell’umore, l’induzione di sonno - si ha, infatti, un ridimensionamento della funzione meramente custodialistica del manicomio. Si verifica, cioè, una sensibile modificazione delle condizioni che inducevano a un atteggiamento pessimistico in ambito prognostico-terapeutico. In Italia, inoltre, si profilava matura una reazione al modello dominante della medicalizzazione neurologica del disturbo mentale, modello conseguente ad una chiusura culturale nei confronti degli orientamenti psicodinamico e fenomenologico (l’influenza di Freud, di Jaspers, e di Binswanger viene recepita parzialmente e con forte ritardo). L’affinamento della ricerca psicopatologica tende pertanto a condurre ad un capovolgimento dell’approccio al disagio mentale, da una strategia oggettivante, volta a sradicare il paziente dal suo tessuto familiare e sociale e quindi all’isolamento, alla sorveglianza coatta e alla custodia, a un’altra, di segno opposto finalizzata alla tutela nella maggiore misura possibile della storia personale del paziente e dei suoi legami con il mondo. Vengono man mano evidenziati i rischi di un’ospedalizzazione protratta nel tempo, causa dell’impoverimento cognitivo e affettivo, dell’esclusione e, in generale della cronicizzazione [62; 63].
D’altra parte, il riconoscimento dell’unicità di una storia – che può appartenere ad una persona, ma anche ad un gruppo o ad un’organizzazione – sembra, infatti, costituire la caratteristica distintiva del procedere in psicologia clinica, sebbene questo approccio idiografico non intenda porsi in alternativa all’approccio nomotetico – volto ad identificare i tratti comuni dei comportamenti per poterli inquadrare nosograficamente – che le è peraltro necessario. In altri termini: il disturbo non va solo diagnosticato e affrontato clinicamente, ma va anche interpretato nel quadro della storia personale, della storia interiore della vita, del mondo della vita e dei vissuti nella sua integrità non meramente psicologica. Vi è pertanto un’interazione dialettica tra natura ed esistenza – per citare Binswanger e Jaspers – per cui l’esperienza psicotica ha un suo significato che va colto, significato che pur nell’autorità del livello esistenziale rispetto a quello biologico e bio-psicologico, è comunque in un rapporto di unità (l’unità antropo-bio-psico-soggettuale, Lo Verso & Di Blasi, 2011)[21] e circolarità in cui la funzione del conferimento di senso è a sua volta correlata ai processi fisiopatologici.
Ma non è possibile comprendere l’opera di Binswanger, senza considerare il contributo della fenomenologia tedesca di E. Husserl e dell’analitica esistenziale di M. Heidegger (allievo di Husserl). Husserl, dopo aver riconosciuto che la nostra coscienza è caratterizzata da un “flusso di vissuti” (Erlebnisstrom) che la orientano verso le cose per conferire loro un senso, distingue, a proposito del corpo, due differenti modalità d’essere: quella del Körper, vale a dire del corpo fisico in quanto corpo somatico di cui è possibile fornire una spiegazione anatomica e fisiologica, il corpo-cosa di cui si occupano le scienze sperimentali, quello che può essere aperto, misurato, il mio stesso corpo che esperisco quasi come un oggetto estraneo quando lo osservo nel riflesso di uno specchio o nell’immagine di una radiografia, quando lo tocco, lo annuso, come se fosse il corpo di un altro; e quella del Leib, del corpo-vivente, del corpo in quanto viene da me vissuto come corpo proprio e non come mero oggetto, nella sua interezza e non relativamente alle singole parti, ai singoli organi; quel corpo che io sono, piuttosto che semplicemente “ho”. Diversamente dal corpo-cosa, inoltre, il mio Leib è corpo vivente caratterizzato da una particolare “intenzionalità”, in virtù della quale mi rapporto alle cose nei termini di una esposizione che è apertura di mondo, trascendenza, e non mero riflesso fisiologico, contatto fisico tra recettori e corpi esterni. Mentre il Körper si può dire che finisca con l’ultimo strato della pelle, confine ultimo che chiude come in un sacco il corpo fisico, il Leib invece oltrepassa questi limiti e dischiude una realtà, un mondo che si caratterizza per essere un mondo di significati, un mondo dotato di senso e non considerato come la semplice somma indifferenziata delle cose che mi circondano.
Di conseguenza, non solo viene meno quella distinzione di origine cartesiana che voleva il corpo e l’anima come due sostanze metafisicamente distinte ed autonome l’una rispetto all’altra, ma si annuncia una concezione di corpo-vivente che esprime, per così dire, l’incarnarsi della coscienza, il farsi corpo della coscienza che, attraverso il conferimento di senso reso possibile dalla sua intenzionalità, introduce il corpo in una nuova dimensione di natura non più riduttivamente solo fisica: il corpo vivente, il Leib, non si colloca più nel mondo alla stregua degli altri oggetti come una cosa tra le altre; il corpo non sta semplicemente collocato, posto nel mondo come un pesce nell’acqua o una sedia in una stanza, ma piuttosto esso apre a sua volta un mondo, lo dischiude, lo rende possibile. Un mondo in rapporto al quale tutto il resto riceve il suo senso. Lungi dal rivaleggiare con lo spessore del mondo, lo spessore del corpo è l’unico mezzo che ho per entrare nel cuore delle cose, dirà M. Merleau-Ponty[22].
Ma per capire in cosa consista tale “apertura” occorre citare quello che fu il più grande tra gli allievi di Husserl: il filosofo Martin Heidegger. Questi sostiene che [39], diversamente da tutte le altre creature, solo l’uomo possiede la caratteristica della trascendenza, vale a dire la facoltà di essere orientato al di là dei propri confini, oltre i limiti entro cui si trova costantemente a vivere. Pur condividendo con altri esseri viventi una natura finita, l’uomo, che però Heidegger preferisce chiamare “Esserci” (Dasein), è allo stesso tempo il solo ente “formatore-di-mondo” (weltbildend), il solo cioè in grado di dischiudere una visuale, una prospettiva a partire dalla quale ogni cosa riceve il suo significato. L’Esserci, dunque, non è una pura e semplice cosa nel mondo, al cui livello scadrebbe se venisse considerato solo come Körper, ma piuttosto l’unico ente per il quale si apre, si costituisce qualcosa come un “mondo” a partire dal suo essere-perennemente-aperto nella modalità del progetto.
A raccogliere i frutti di queste riflessioni maturate nell’ambito della fenomenologia, che in realtà meriterebbero da parte nostra ulteriori approfondimenti che qui però non possono trovare spazio, è stato Ludwig Binswanger, al quale si devono ulteriori intuizioni a proposito della questione del corpo. Lo psichiatra svizzero si rifà tanto alle indagini fenomenologiche husserliane, quanto a quelle ontologiche heideggeriane e considera il corpo nella sua relazione indissolubile con ciò che abbiamo chiamato il suo mondo.
Pertanto, a detta di Binswanger, bisogna tener sempre presente non solo che l’uomo possiede un corpo dotato di determinate caratteristiche fisiologiche, caratterizzato da particolari capacità o deficit, ma che ogni uomo è primariamente il suo corpo, e che questo non costituisce un suo attributo né una dotazione di cui si possa semplicemente “disporre” come si fa con un qualsiasi oggetto, con un utensile cioè alla nostra portata. Ed è soprattutto nell’ambito della patologia che il modo di essere corpo, il modo di vivere la propria corporeità diventano estremamente importanti e richiedono un loro approccio specifico:
 
«Bisogna domandarsi – avverte Binswanger – in primo luogo come un ammalato viva nel suo corpo o meglio come egli vitalmente sperimenti e “senta” il proprio corpo. Ma, per quanto riguarda questo “sentire”, non si deve pensare a percezioni riferite a questo o a quel senso, a questo o a quell’organo; soprattutto non si deve pensare a percezioni ottiche o tattili (cioè “esterne”) del proprio corpo. […]Bisogna sempre tener presente che non soltanto l’uomo “possiede” un corpo, che non basta sapere come è fatto questo corpo, ma che egli è sempre, in qualche maniera, corpo»[23].
 
In tal misura, ogni psicoterapia autentica non può che mirare primariamente al rappacificamento dell’uomo con se stesso (con il proprio corpo-vissuto), ma anche a quello dell’uomo con il mondo, poiché la salute del corpo non è concepibile al di fuori di uno stato di armonia, di fiducia e di amicizia con ciò che ci circonda. Egli si rifiutava di rapportarsi alla psicosi come ad un oggetto da spiegare bensì la descriveva come una forma di soggettività da comprendere – “verso le cose stesse” recitava la fenomenologia husserliana.
A nostro modesto avviso queste considerazioni binswangeriane sulla pregnanza e la centralità del corpo e della corporeità quali dimensioni fondamentali e fondanti la soggettività dell’uomo risultano necessarie per contrastare la boria di quanti tra gli addetti ai lavori si affidano a teorie latentemente o esplicitamente spiritualistiche che negano cioè la centralità del legame dell’uomo con il suo corpo. (E già Freud, seppure nel contesto di una filosofia ancora eminentemente positivistica, aveva radicato proprio nel corpo la pulsione, concetto chiave dell’intera metapsicologia, e definita come “il rappresentante psichico di una trasformazione che avviene in ambito somatico”).
Utilizzando i concetti della Daseinanalyse heideggeriana che in Essere e tempo [39] vengono tematizzati, le malattie mentali sono interpretate da Binswanger come altrettante possibili modalità in cui si declina l’essere-nel-mondo dell’uomo; i sintomi non sono solo i segni di una disfunzione, ma anzitutto la chiave che permette l’accesso a quello specifico modo di essere nel mondo di un paziente, disvelandone il progetto e la sua costitutiva normatività.
Mi sembra corretto poter dire che la sfida di Binswanger è consistita nel descrivere l’Erlebnis psicotica come una forma di soggettività, per renderla comprensibile: rendere comprensibile un delirio, un avvenimento psicotico significa renderlo comunicabile, farne una narrazione che avvicini il medico al soggetto sofferente, riducendo la distanza dell’esistenza e della comprensione; non solo favorire la descrizione ma comprendere il fatto interpretandolo, nel tentativo di superamento della fenomenologia oggettiva di Jaspers. Il metodo fenomenologico da lui impiegato ha conosciuto successo nella psichiatria del Novecento perché estendeva al malato mentale quello che alcuni filosofi, nell'ambito della filosofia analitica, hanno chiamato principio di carità[24].  Tuttavia, occorre chiedersi quanto vi sia di autenticamente heideggeriano nell’impostazione di Binswanger e in che modo gli strumenti dell’analitica dell’esserci siano stati usati ed approfonditi.
Non è una novità il fatto che Heidegger abbia ripetutamente affermato e scritto che il suo pensiero sia stato mal interpretato o frainteso dai suoi numerosi interpreti [38]. Così, come non è una novità che i suoi scritti pubblici siano andati raramente in direzione di un chiarimento di ciò che nell’interpretazione fornita rimaneva oscuro o non approfondito. È nel contesto degli incontri di Zollikon che Heidegger chiarisce la differenza fra l’analitica dell’esserci e l’analisi dell’esserci: mentre l’analitica ha il compito di “portare allo sguardo il tutto di una unità di condizioni ontologiche”[25], l’analisi dell’esserci risolve in elementi l’unità dell’esserci, invertendo così il punto di partenza dell’analitica. L’analitica non ha a che fare con un solipsismo o soggettivismo, quanto con la comprensione delle strutture ontologiche dell’esserci. E’ in questo contesto che Heidegger chiama in causa Binswanger, la cui analisi dell’esserci si fonda su molteplici fraintendimenti.
Proprio l’uso degli esistentivi di cui Sein und Zeit si occupa sollecita Heidegger ad una critica pungente nei confronti di Binswanger proprio nel contesto dei colloqui di Zollikon, per spiegare ai medici e agli psicoanalisti lì convenuti che la Daseinanalyse e la psicopatologia fenomenologica inaugurata da Binswanger sono tra loro distinte e procedono su piani distinti; tra i molteplici fraintendimenti, secondo Heidegger quello attraverso il quale la “cura” è scambiata per amore è solo il più evidente; Binswanger “non vede che la cura ha un senso esistenziale, vale a dire, ontologico, che quindi l’analitica dell’esserci pone la questione circa la costituzione ontologica (esistenziale) fondamentale di esso e non vuol dare una mera descrizione di fenomeni ontici dell’esserci”[26]. L’errore di Binswanger è quello di cadere in quella rappresentazione dell’esserci per il quale questo è una soggettività pensata nei termini di immanenza che fa esperienza del male attraverso la scissione soggetto-oggetto e le presunte forme di intenzionalità della coscienza sono solo un rafforzamento di quell’ego che deve esser tolto di mezzo quando si parla di esserci. Non solo: il fraintendimento nel modo più grossolano Binswanger lo manifesta con il suo libro Grundformen und Erkenntnis menschlichen Daseins.
 
«In esso, egli crede — dice Heidegger — di dovere integrare la «cura» e lo «aver cura» attraverso un «modo d’essere duale» e attraverso un «essere oltre il mondo». Con ciò, rivela soltanto che egli misconosce onticamente l’esistenziale fondamentale, vale a dire, il tratto essenziale dell’esistere umano, cui io diedi il titolo superiore di «cura», vale a dire, egli scambia il concetto di «cura», da me pensato ontologicamente, con un singolo modo di eseguimento ontico di questo tratto essenziale, cioè, con quello di un modo di comportamento nel senso di un contegno tetro e preoccupato-premuroso di un determinato uomo. «Cura», invece, in quanto costituzione esistenziale fondamentale dell’esser-ci, nel senso di Sein und Zeit, è nulla di più e nulla di meno che il nome per l’essenza complessiva dell’esser-ci, in quanto questi è sempre già rimesso a qualcosa che gli si mostra e rispetto a cui egli, costantemente fin dal principio, è sempre assorbito ogni volta da un rapporto, quale che sia il suo modo, con questo. In tale essere-nel-mondo in quanto «cura» si fondano cooriginariamente, perciò, anche tutti i modi ontici di comportamento sia di coloro che amano, che di coloro che odiano, che dell’imparziale scienziato della natura, etc.»[27].
 
Occorre osservare che già nella tematizzazione di Cargnello[28] della coscienza-mondo come primum inderivabile, Binswanger declina l’analisi ontologica in una prospettiva ontica. La presenza realizza la propria pienezza solo nel momento in cui si progetta come copresenza, mentre, per Heidegger, l’autenticità dell’esserci si manifesta come distacco, come sottrazione di sé al mondo. Ma in quella indebita contaminazione delle strutture apriori dell’esserci con le forme del vissuto, nell’incoerente e inaccettabile commistione tra il piano ontologico e il piano ontico, alcuni autori hanno ritrovato il tratto caratterizzante più originale dell’impresa antropoanalitica. Se Husserl «scava un abisso incolmabile tra la conoscenza dei fatti e la conoscenza delle essenze», Binswanger, utilizzando Natorp, cerca di colmare questo abisso, distinguendo e al tempo stesso collegando «la visione fenomenologica pura delle essenze e la visione fenomenologico-psicologica dei fatti». Lo stesso Natorp, sottolinea il nostro autore, «ammette che nella sua ultima e fondamentale opera, Idee per una fenomenologia pura (1913), Husserl non nega una certa connessione interna tra la fenomenologia e l’empiria psicologica»[29].
Coerentemente, la soluzione adottata per il problema della distinzione/continuità tra osservazione sensoriale e osservazione categoriale, non ha la pretesa di rappresentare un’interpretazione corretta del pensiero di Husserl; tale soluzione appare a Binswanger come la più adatta a fondare una fenomenologia psicopatologica, capace di procedere passo passo «dai singoli fatti fino alla visione delle essenze»[30]. L’indipendenza della fenomenologia psicopatologica rivendicata nelle ultime righe del saggio Sulla fenomenologia, implica cioè un ruolo subordinato e strumentale della riflessione filosofica: lo psichiatra si serve della dottrina eidetica affinché la sua pratica clinica ne possa “trarre giovamento”. Con buona pace di Heideggger, non ha quindi alcun senso che il filosofo rimproveri allo psichiatra una scorretta interpretazione degli strumenti filosofici adottati e utilizzati: e questo per il semplice fatto che l’uso della filosofia da parte dell’aliensta sarà sempre caratterizzata da una feconda e necessaria parzialità, funzionale, come si diceva, alle istanze della psicopatologia. Sarà invece sempre legittima una critica epistemologica interna, mirata all’individuazione degli eventuali limiti e della reale portata euristica di tale utilizzazione, e finalizzata, di conseguenza, alla valutazione dello spessore conoscitivo e dell’efficacia terapeutica della scienza psichiatrica. Distinzione e continuità, si diceva, tra l’osservazione sensoriale e la visione eidetica: questo rapporto riproduce, sul terreno gnoseologico, la relazione di corrispondenza e di analogia tra i due livelli anch’essi distinti e continui l’uno rispetto all’altro: il livello ontico e il livello ontologico; come dire ilo singolo accadimento psichico e il modello d’esperienza a cui appartiene, da un lato, l’apriori esistenziale, concepito come struttura peculiare del Dasein, dall’altro. Nonostante le deliberate e continue oscillazioni tra il trascendentale e l’empirico, sarà sempre problematico stringere in un unico cerchio il piano ontologico e il piano ontico: sarà sempre assai arduo evitare l’aporia e il vicolo cieco di un dualismo paralizzante e invalicabile tra i due piani. La temporalizzazione, la mondanità, l’intersoggetività è l’unico terreno su cui è possibile edificare la psichiatria come scienza dell’uomo e per l’uomo. Contro la pretesa della filosofia speculativa di dedurre l’uomo e il mondo dai sistemi categoriali, l’antropoanalisi binswangeriana si muove all’interno della mondanità dell’ente e della sua strutturale appartenenza alla koinonìa, non possono esser comprese se considerate dimensioni astratte ed esclusivamente inerenti alla sua costituzione ontologica: è solo dopo la caduta nel mondo, nel finito e nella storia che tali dimensioni possono rappresentare il punto di partenza e nel contempo la meta del percorso antropoanalitico[31].
 
Oggi apparirebbe certamente insostenibile riproporre un modello psicodinamico senza confrontarsi con i progressi delle neuroscienze e con la psichiatria biologica; in linea con un’epistemologia della complessità è necessario inglobare tutte le componenti in gioco: non è una questione di “aut-aut” bensì di “et et” [49][50] [51].
Tuttavia, noi siamo del parere che un’indagine strettamente e rigorosamente scientifica dell’uomo sia impossibile a causa della sua estrema complessità; né tanto meno è ipotizzabile un modello scientifico che renda ragione delle infinite differenze e variabili dell’umana natura e degli uomini fra loro.  Per potere svolgere delle indagini scientifiche occorre fare delle scelte di natura fondazionale su ciò che deve essere indagato. Ma per scegliere, è necessario rinunciare a qualcosa. Queste scelte sono dunque di natura epistemologica, in quanto fondano sia la metodologia che il campo di ricerca. Per le discipline che si rifanno al modello soggettivo, l’osservazione è sempre legata all’esperienza clinica dei singoli pazienti, alla quale si unisce una certa dose di speculazione e creatività di pochi importanti pensatori per compiere il salto audace che porta a teorie che aspirano all’universalità. Per i teorici del modello oggettivo, il metodo per produrre delle conoscenze è quello dell’osservazione obiettiva, in situazioni controllate e replicabili.
Insomma, per il modello soggettivo vengono ritenuti essenziali i processi interiori, che formano il vissuto di ognuno di noi; per i teorici del modello oggettivo sono essenziali le manifestazioni obiettive di questi processi. Sono questi i diversi processi che portano alla concettualizzazione nelle diverse aree. La materia del contendere è dunque diversa:
 
 «Per fare un esempio e per comprendere un’analogia, sarebbe come se un essere che viene dallo spazio si trovasse di fronte alla Primavera del Botticelli. Venendo dallo spazio, è un tipo molto diverso da noi, non sa cosa sia la pittura, non conosce l’arte della pittura; però vuole capire cos’è questo oggetto che gli umani stranamente hanno messo insieme e comincia ostinatamente, tenacemente, ad analizzare la trama della tela, la composizione chimica dei colori e così via”; ma, anche acquisendo dati sterminati su come sia fatta questa tela colorata, non giungerà mai alla Primavera di Botticelli che è un’altra cosa. Allora: “per quanto egli assuma conoscenze relative allo stato del materiale di questo oggetto, da questo oggetto non caverà mai il suo significato»[32].
 
Inoltre, dal cercare di integrare le più recenti scoperte delle basi neurobiologiche della vita mentale, con le diverse prospettive psicologiche al ridurre le manifestazioni psicopatologiche a mere disfunzioni trasmettitoriali il passo può esser breve. Il punto rimane il seguente: se un disturbo psicopatologico viene ridotto a niente altro che a disfunzioni nella neurotrasmissione e quindi “curabile” ora con questa ora con quella molecola farmacologica (quando addirittura non vengano usati veri e propri cocktail farmacologici senza alcuna reale base scientifica) allora verrebbero svuotati di senso atti di grande valenza terapeutica come l’ascoltare per settimane, mesi ed anni il dolore e la sofferenza della storia di vita di un paziente o il rimanere seduti per diverso tempo al capezzale di un soggetto catatonico che non mostra il benché minimo segnale di essersi accorto della nostra presenza. Quando si assumono la neurobiologia e la neurofisiologia come modello di lettura dei fatti psicologici, allora la genesi storico-biografica della sintomatologia diviene irrilevante.
 La posta che sembra essere in gioco non è soltanto la conservazione del sapere umanistico (filosofico, psicologico, sociale, antropologico, storico ecc.) accumulato nei diversi secoli grazie all’opera dei tanti pensatori ma la stessa essenza dell’uomo, la sua anima con il suo dolore dicibile e indicibile (non certo intesa in senso religioso ma psicologico e umano).
 
Ancora un’ultima osservazione. Abbiamo visto come i due modelli, quello oggettivo e quello soggettivo, sono nati e si sono consolidati in contesti sanitari diversi: il primo nei grandi manicomi ottocenteschi, il secondo nella medicina internistica e negli studi privati dei professionisti. Abbiamo anche notato che a questa diversa origine è collegato il fatto che il modello oggettivo si è occupato soprattutto del campo delle psicosi, e il modello soggettivo del campo delle nevrosi. Un’interessante conferma di questo stato di cose ci viene proprio da Freud, il quale considerava inadatto il trattamento psicoanalitico per i pazienti psicotici, ritenendo che questi non sviluppassero una relazione transferiale. La psicoanalisi post-freudiana, a partire da Melanie Klein (1882-1960) e dalla sua scuola, ha fatto cadere questa controindicazione, sostenendo che con opportune variazioni della tecnica, anche gli psicotici possono divenire accessibili alla psicoanalisi [20], in quanto anch’essi sviluppano forme di transfert, sia pure particolari e primitive. Con motivi diversi, l’accessibilità della psicosi alla psicoterapia è oggi sostenuta anche dagli altri orientamenti psicoterapeutici[33].
Viviamo in un periodo particolarmente proficuo per le neuroscienze, che riescono ad attirare l'attenzione (finanche rispondere ai gusti...) di un pubblico sempre più vasto di persone, oltre che degli addetti ai lavori e di chi a vario titolo s'occupa dell'umano. D'altro canto, si assiste anche a un movimento in direzione contraria: gli uomini di neuroscienza sembrano (ri)scoprire - a modo loro, metodologicamente parlando - la filosofia, l'arte, le relazioni sociali, l'etica... con l'ambizione febbrile di “rendere visibili”, attraverso le moderne tecniche di neuroimmagine, i presunti fondamenti “materiali” degli innumerevoli aspetti dell'umana esistenza. Ma dobbiamo chiederci: ciò corrisponde a un reale progresso epistemologico o soltanto a una moda fra le altre? Le relazioni tra la filosofia e le neuroscienze sono state variamente giudicate: se lo studio si riferisce ai rapporti tra mente e cervello, purché non si ceda alle sirene “causalistiche”, in virtù delle quali una spiegazione ingloba tutte le altre, non vi è probabilmente nulla da eccepire. Se invece si cede al potere seduttivo delle parole e delle immagini, si tratta soltanto di una nuova retorica travestita, destinata a sfumare come molte altre del passato. In ogni caso il dibattito torna alla luce ovunque la filosofia della scienza, abbandonando le sue radici logico-matematiche, si rivolge a temi biologici. Lamettrie e Holbach, nel Settecento, per esempio, già studiavano questi temi, collaborando con medici e anatomisti. Su queste basi, intorno alle quali la tradizione è radicata, sta però subentrando quel tarlo che, come insegnava Leopardi, sempre si accompagna alla morte, cioè la moda, capace di rendere fragili, volatili, contingenti ed effimere anche le questioni più serie. Con la moda subentrano i neologismi, che a volte – come nel caso della “neurofilosofia” – sono leciti, ma che altre volte, quando frammentano la base in tanti rami diventando “neurofenomenologia”, “neuroestetica”, “neuroetica” e via dicendo, rischiano di condurci al neurodeliri... I neurologi stessi entreranno in azione con le opportune contromisure farmacologiche quando vedranno nascere la neuro-logica. Non è questione di essere riduzionisti o meno – che è espressione che non significa nulla (ogni scienziato, se vuole ottenere risultati, deve “ridurre”) ma di comprendere che le discipline e i saperi debbono dialogare. Il dialogo tuttavia deve avvenire su piani ben precisi, consapevoli delle differenze metodologiche e delle specificità degli orizzonti fenomenici presi in esame. Molti fenomeni non possono venire “obiettivati” – e ridotti a catene di cause – in quanto la loro genesi è “motivazionale” e si sviluppa su piani dove le scienze matematiche, mediche o biologiche non hanno proprio nulla da dire o da scoprire. Era la conclusione cui era giunto Freud stesso con Leonardo, mettendo in guardia dal trattare l’argomento con un atteggiamento che non fosse quello del gioco o del semplice “caso clinico” da osservare, senza cioè voler trarre dal suo particolare conclusioni universali. Senza dubbio la Gioconda è un oggetto geometrico che un fisico, un chimico, un geometra possono “inquadrare”, ma non spiegare nella stratificazione storica, culturale, motivazionale dei piani che incidono nella sua ricezione.
 
Nonostante i grandi progressi delle neuroscienze, e l’innegabile necessità dell’utilizzo (almeno nelle scompensazioni più acute e drastiche) della farmacologia, quanto meno in vista di un’apertura dialogica tra chi cura e chi è curato; siamo del parere che «[…] in fondo tutto ciò che è ignoto, tutto ciò che è “tenebra”, non si pone affatto dietro a ciò che è noto, come fosse quindi destinato, presto o tardi, ad eclissarsi davanti ai suoi progressi»[34].
E questo è il reale stato delle cose, per quanto riguarda l’avanzamento della conoscenza umana, sia essa scientifica o non scientifica: lungi dal dimostrare che il mare oscuro e tenebroso della non conoscenza possa, in qualche modo, essere “svalutativo” rispetto invece a ciò che sappiamo e comprendiamo, esso rappresenta una parte irriducibile del nostro essere-nel-mondo, sul quale l’uomo traccia, spesso a fatica, rotte conoscitive a volte più prolifiche a volte meno; e a noi non resta che prenderne consapevolezza.
 
 
 

[1] W. Dilthey in U. Galimberti, Psichiatria e fenomenologia, , Milano, Feltrinelli, 2009,  pg.168.
 
[2] Tuttavia, il rischio intrinseco in questa operazione riguarda quello di dare alla luce non una psicologia rivolta alla comprensione dell’uomo per come si presenta, ma una psico-fisiologia che spiega l’uomo come qualsiasi altro fenomeno naturale. Seguendo il discorso sferzante di Galimberti (2009), l’uomo moderno è passato dal produrre e possedere la conoscenza scientifica, a farsi quindi possedere da essa:«Educati come siamo dalla scienza, oggi ciascuno di noi non fa alcuna fatica a rinunciare alla propria esperienza, per adottare il punto di vista della scienza sul mondo. Rinunciamo così a vedere le cose da una prospettiva per vederle scientificamente da nessuna prospettiva. Rinunciamo a vederle in un tempo perché preferiamo vederle scientificamente da nessuno tempo. Rinunciamo a vederle con i nostri occhi perché ci imponiamo a vederle con gli occhi di tutti. Le cose non sono più avvicinate dal desiderio o allontanate dalla ripugnanza, le cose distano» (U. Galimberti, Psichiatria e fenomenologia, Milano, Feltrinelli, 2009, pg. 94). La scienza è divenuta cioè un a-priori esistenziale, portando quindi alla perdita originaria della mente nelle sue caratteristiche fondamentali e fondanti, in quanto essa: «è pur sempre un’ideazione che l’umanità ha prodotto nel corso della storia, sarebbe perciò assurdo se l’uomo decidesse di lasciarsi definitivamente giudicare da una sola delle sue ideazioni» (E. Husserl (1934-1937) La crisi delle scienze europee e la filosofia trascendentale, Milano, Il Saggiatore, 1954, pg. 147; in U. Galimberti, Psichiatria e fenomenologia, Milano, Feltrinelli, 2009, pg. 237). Secondo lo stesso Galimberti (2005), è proprio a questa sorta di tradimento alle sue origini, che la civiltà occidentale, orgogliosa del progresso, cresciuto sulla lacerazione dell’uomo, sulla divisione in anima e corpo, spirito e materia, deve ricondurre forse il senso ultimo di ogni lamentata alienazione (cfr. U. Galimberti, Il tramonto dell’occidente nella lettura di Heidegger e Jaspers, Milano, Feltrinelli, 2005).
Fondamentale in questi orizzonti tematici è la distinzione proposta dal filosofo Dilthey (1909) tra le scienze della natura (Naturwissenschaften) e le scienze dello spirito (Geisteswissenshaften) e tra il comprendere (Versthen) di queste e lo spiegare (Erklären) di quelle. «Le scienze dello spirito si distinguono dalle scienze della natura in quanto queste hanno come loro oggetto dei fatti che si presentano nella coscienza dall’esterno, cioè come fenomeni singolarmente dati, mentre in quelle i fatti sorgono originariamente dall’interno, come una connessione vivente. Da ciò deriva che nelle scienze naturali la connessione della natura è data soltanto in virtù di ragionamenti che integrano i fatti, cioè mediante un collegamento di ipotesi. Per le scienze dello spirito ne consegue invece che a loro fondamento c’è sempre la connessione originaria della vita psichica. Noi spieghiamo la natura, ma comprendiamo la vita psichica. […] La connessione vissuta è qui l’elemento primo, la distinzione dei suoi singoli membri sopravviene in seguito. Ciò condiziona la grande differenza dei metodi con cui studiamo la vita psichica, la storia e la società, da quelli con cui è stata condotta innanzi la conoscenza della natura». (W. Dilthey Introduzione alle scienze dello spirito (1909) pg. 142, in U. Galimberti, Psichiatria e fenomenologia, Milano, Feltrinelli, 2009, pg. 171). In proposito scrive Jaspers (1913-1959): «A evitare ambiguità e oscurità impiegheremo sempre l’espressione “comprendere” [versthen] per la visione intuitiva dello spirito, dal di dentro. Non chiameremo mai comprendere, ma “spiegare [erklären] il conoscere i nessi causali oggettivi che sono sempre visti dal di fuori. […] È dunque possibile spiegare qualcosa senza comprenderlo». (K. Jaspers (1913-1959) pg. 30 in U. Galimberti, Psichiatria e fenomenologia, Milano, Feltrinelli, 2009, pg. 9). Da qui anche la distinzione jaspersiana tra una psicologia esplicativa e una psicologia comprensiva.
E poi ancora: «Nelle scienze naturali noi cerchiamo di afferrare soltanto un tipo di relazioni: le relazioni di causalità. Mediante l'osservazione, la sperimentazione o la raccolta di molti casi cerchiamo poi di trovare le regole dell'evento. […] In psicologia mai e poi mai possiamo stabilire equazioni di causalità come in fisica o in chimica, perché questo presupporrebbe una completa quantificazione dei processi indagati. Ma nello psichico, che per sua natura precipua è sempre qualitativo, questa quantificazione per principio non è mai possibile, senza che vada perduto il vero oggetto di indagine, cioè lo psichico». (Jaspers (1913-1959) pp. 327-328, in U. Galimberti, Psichiatria e fenomenologia, Milano, Feltrinelli, 2009, pg. 105).
 
[3] E. Kraepelin, (1905), in R. Laing, L’Io diviso. Studio di psichiatria esistenziale, Torino, Einaudi, 1969, pp. 36-37.
[4] Ivi, pp.36-37.
[5] Cfr. M Galzigna, La malattia morale. Alle origini della psichiatria moderna, Venezia, Marsilio, 1988.
Tuttavia, non sono mancate le oziose e del tutto irrilevanti dispute sulla priorità cronologica dell’iniziativa riguardante la liberazione dei malati mentali dalle catene, che alcuni autori farebbero risalire a Chiarughi piuttosto che a Pinel (cfr. M. Schiavone (1990, 1993) in G. Invernizzi, Manuale di psichiatria e psicologia clinica, Milano, McGraw-Hill, 2006).
[6] P. Pinel, La mania. Trattato medico-filosofico sull’alienazione mentale, Venezia, Marsilio, 1800, pg. 79.
[7] P. Pinel, opera citata, pg. 81.
[8] Tra le diverse e molteplici considerazioni e definizioni di transfert prodotte nel contesto degli studi psicoanalitici è stato pure fatto notare che esso non può essere considerato come un mero rivivere i sentimenti del passato, ma come un modo della (umana) presenza di vivere l’attualità del momento presente (cfr. F. Fornari, La vita affettiva del bambino, Milano, Feltrinelli, 1971; U. Galimberti, Psichiatria e fenomenologia, Milano, Feltrinelli, 1979) .
[9] Nei confronti delle rivendicazioni della priorità di Daquin su Pinel per il concetto e il metodo di trattamento morale, giustamente è stato affermato che in realtà si tratta di due concezioni diverse, solo apparentemente ed esteriormente affini. Ciò non sottrae comunque a Pinel un ruolo importante nel percorso storico dell’intreccio di psichiatria ed etica. (cfr. F. Ferro (2005) in G. Invernizzi (a cura di), Manuale di psichiatria e psicologia clinica, Milano, McGraw-Hill, 2006).
 Nel Traitè mèdico-philosophique sur l’alienation mentale confluiscono le teorie psicopatologiche di Cullen, l’eredità della prima psichiatria inglese e il pensiero di Condillac, Cabanis e Rousseau, in cui il paradigma della ragione illuministica acquista una forte connotazione naturalistica. Benché Pinel sia poco incline a recepire gli apporti del’anatomia patologica, non nega tuttavia una base biologica della malattia mentale, ma le sue convinzioni eziologiche vertono sullo squilibrio della ragione e delle passioni in interazione con le condizioni ambientali. Ben lungi dall’aderire non solo al materialismo teorico ma anche a una metodologia di riconduzione e connessione univoche dell’alienazione con lesioni anatomiche o anomalie morfologiche del cervello, egli è tuttavia – come acutamente ha osservato Petrella – l’iniziatore di una psichiatria naturalistica e medica (cfr. M. Schiavone, 1990, 1993 in G. Invernizzi (a cura di), Manuale di psichiatria e psicologia clinica, Milano, McGraw-Hill, 2006).
[10] Per quanto riguarda il contesto italiano, non mancano naturalmente esperienze di trattamenti rispettosi del malato e dei suoi diritti anche nell’orientamento organicistico. È il caso per esempio di Morselli nel periodo in cui diresse i manicomi di Macerata e Torino. Al pari del suo maestro Livi – che aveva radicalmente riformato durante la sua direzione i presidi asilari di Siena e Reggio Emilia facendone degli ospedali moderni e decorosi – Morselli, erede del filantropismo di Chiarugi, Pinel e Tuke per il suo ottimismo prognostico e catamnestico, avversa un rigido e mero custodialismo in funzione sia della sua formazione culturale e professionale, sia delle sue concezioni teoriche e metodologiche. Contrasta in maniera attiva le precarie situazioni sotto l’aspetto igienico-sanitario, le carenze professionali, i comportamenti scorretti del personale infermieristico, l’abbandono dei malati, spesso soggetti a strumenti di contenzione; interviene con energia e severità per liberare i pazienti dai mezzi barbari e carcerari per tentare un approccio terapeutico ai ricoverati. Promuove una riorganizzazione ispirata a criteri di ordine, efficienza, formazione del personale assistenziale e infermieristico. Da convinto e coerente positivista ha infatti incondizionata fiducia nella scienza, anche nei suoi risvolti pratico-applicativi, e nei rivoluzionari sviluppi della biologia e della fisiopatologia ottocentesche individua l’imminente possibilità dell’ideale del progresso dell’umanità. E inoltre partecipe ed erede dell’espansione e della crescita della clinica medica (promossa da Bernard e sviluppata in Italia da Tommasi, Catani, Bufalini, sino a Maragliano e Murri) che conferisce alla medicina una rigorosa metodologia scientifica con correlative nuova efficacia terapeutica. Il suo programma è esplicitamente quello di curare i malati mentali e non solo di custodirli: programma che ha in comune con Livi, ma che conduce con impegno e coraggio all’interno delle sue responsabilità amministrative non senza una giustificazione critica dei presupposti teorici.  Non si tratta di mera filantropia: Morselli è persuaso della curabilità della follia mediante terapie somatiche e farmacologiche, ma soprattutto mediante il trattamento morale. Tale terapia affinata dalle sue specifiche competenze psicologiche deve avvenire – come per Pinel – all’interno del manicomio. Risulta pertanto necessaria la trasformazione dei vecchi edifici asilari e la costruzione di nuovi che obbediscano a criteri coerenti con le finalità terapeutiche. Nell’ambito del trattamento morale ha il merito dell’applicazione sistematica dell’ergoterapia, con la connessione del lavoro agricolo e artigianale alla psicoterapia in un approccio globale medico e psicologico (cfr. M. Schiavone, 1990, 1993 in G. Invernizzi (a cura di), Manuale di psichiatria e psicologia clinica, Milano, McGraw-Hill, 2006).
[11] All’origine della nevrosi (ma anche dell’isteria che hanno costituito il terreno clinico da cui è nata la psicoanalisi) risiede una rimozione imperfetta di un desiderio sessuale che il soggetto, nell’insieme della sua personalità, non può tollerare e accettare (A. Civita, D. Cosenza, (a cura di), La cura della malattia mentale I. Storia ed epistemologia, Milano, Mondadori, 1999 pg. 109).
[12] In molti contesti la patologia psichica costituisce una preziosa cartina di tornasole per far emergere delle caratteristiche dell’indagine psicologica che nello studio della normalità restano spesso nell’ombra.
[13] Parliamo di psicoanalisi classica, perché nel quadro attuale della ricerca psicoanalitica i metodi oggettivi e la ricerca empirica stanno assumendo un’importanza sempre maggiore. Tuttavia, ci preme far notare come: «con la logica di ricerca dei RCT in psicoterapia rischia di ricondurre il disturbo psichico alla sola presenza di sintomi comportamentali e la guarigione alla remissione degli stessi, entro disegni di ricerca in cui si sperimenta un trattamento di una malattia più che su individui malati. Le critiche a questo modello di ricerca provengono ormai anche da vari ricercatori sperimentalisti che ne constatano, accanto al riconoscimento dei progressi apportati, il debole legame con la pratica clinica reale» (Hansen & Lambert & Forman (2002) in G. Lo Verso & M. Di Blasi, Gruppoanalisi soggettuale, Milano, Raffaello Cortina, 2006, pg. 72). 
Ma quali sono le motivazioni relative al ritardo della psichiatria rispetto alla medicina, alla biologia, alla fisica nell’uso del metodo sperimentale e nell’acquisizione di una struttura autenticamente scientifica? Secondo alcuni autori a determinare il gap nei confronti delle altre aree disciplinari non è tanto l’influenza di filosofie invadenti e prevaricanti – si pensi alla medicina di Galeno, nella quale sono esplicitamente richiamati paradigmi filosofici di varia estrazione da Platone e Aristotele a Posidonio – quanto piuttosto soffocanti condizionamenti teologici. Si pensi alla profonda influenza che ebbe il Malleus maleficarum di Sprenger e Kramer del 1487 - influenza enorme per motivi storici e politici in quanto avallato dall’autorità ecclesiastica e promosso dalla bolla Summis desiderantes affectibus di Innocenzo VIII, costituendo un riferimento obbligato per i medici-filosofi del Rinascimento che affrontarono il problema della malattia mentale - nel quale vi è una radicale riduzione in termini eziopatogenetici dei sintomi psicotici a fenomeni magici derivanti da teorie interpretative della malattia mentale che si richiamano in parte alla medicina greca e araba, in parte a credenze astrologiche, in parte a concetti etici sul rapporto passione-ragione, in parte, infine, alla demonologia. Ciò consente di comprendere le modalità della frattura tra medicina e psichiatria, in opposizione alla concezione classica a partire dal Trattato sul male sacro di Ippocrate, ove la causa dell’epilessia è individuata in una noxa cerebrale e non nell’invasamento demoniaco, in un rapporto diretto al progressivo distacco dalla spiegazione somatogenetica a vantaggio di quella etico-teologica. Con Sprenger e Kramer si ha così la derubricazione del disturbo psichico dall’ambito della patologia medica a quello della teologia morale come fenomeno soprannaturale.  E si ha così una devastante intrusione dei concetti di peccato e di colpa, che influenzeranno la psichiatria non solo nel suo ritardo riguardante l’ acquisizione di una struttura scientifica, ma anche nella stigmatizzazione in ambito sociale del paziente e del conseguente utilizzo di metodi dis-umani di contenzione (cfr. M. Galzigna, La malattia morale. Alle origini della psichiatria moderna, Venezia, Marsilio, 1988; G. Lo Verso & G. Lo Coco, La cura relazionale, Milano, Raffaello Cortina, 2006; M. Schiavone, 1990, 1993 in G. Invernizzi, (a cura di), Manuale di psichiatria e psicologia clinica, Milano, McGraw-Hill, 2006 ).
È propriamente con Weyer, allievo di Agrippa, che nasce una psichiatria scientifica. Il suo De praestigiis daemonum costituisce infatti una serrata confutazione del Malleus maleficarum mediante la sistematica riduzione a sintomi psicotici di tutti quei comportamenti ritenuti opera delle streghe e dei demoni. Si ha così un netto capovolgimento dell’ottica teologica, impostata al soprannaturale, quella medica, che diagnostica in termini di patologia – e, quindi, nell’ambito di avvenimenti meramente naturali – anomalie e deviazioni psichiche. La difesa e la tutela del paziente non sono dunque più affidate esclusivamente a esigenze di natura etica e sociale, bensì a motivazioni propriamente mediche. Si può pertanto affermare che la psichiatria di Weyer è una psichiatria autenticamente scientifica in quanto è psichiatria medica. (cfr. M. Schiavone, 1990, 1993 in G. Invernizzi, (a cura di), Manuale di psichiatria e psicologia clinica, Milano, McGraw-Hill, 2006).
[14] È qui che termina il frammento tratto da A. Civita, Ricerche filosofiche sulla psichiatria, Milano, Guerini e Associati, 1990, pp 4-6.
[15] E. Borgna, ivi, pag. 21 e seg..
[16] Ivi, pp. 5-6.
[17] E. Mundo in G. Gabbard (a cura di), Le psicoterapie, Milano, Raffaello Cortina, 2010, pg. 771.
[18] D. Parisi (2004) in G. Gabbard (a cura di), Le psicoterapie, Milano, Raffaello Cortina, 2010, pg. 545.
[19] L. Wittgenstein in A. Civita, Saggio sul cervello e la mente, Milano, Guerini e Associati, 1993, pg. 47 e seguenti.
[20] Cfr. ivi.
[21] Cfr. G. Lo Verso & M. Di Blasi, Gruppoanalisi soggettuale, Milano, Raffaello Cortina, 2011.
[22] Cfr. M. Merreau-Ponty, La fenomenologia della percezione, Milano, Il Saggiatore, 1965.
[23] L. Binswanger, Sulla psicoterapia, in Per un’antropologia fenomenologica, tr. it., Milano, Feltrinelli, 1989, pp. 151-153.
[24] L’espressione “principio di carità” venne introdotta da Neil Wilson nel 1959 e successivamente fu resa popolare da Willard O. Quine, nel saggio On Empirically Equivalent Systems of the World, in Erkenntnis, 9, 1975. In base a questo principio si presuppone che argomenti che ci appaiono a prima vista illogici, irrazionali, insomma «folli», abbiano una loro logica e razionalità che deve e può essere ritrovata. Forse è a partire anche da queste considerazioni e dallo studio e dall’uso della fenomenologia che ha tratto origine il movimento anti-psichiatrico degli anni 60 e 70 (Laing, Cooper, Esterson in UK; Basaglia e Napolitani in Italia; Deleuze e Guattari in Francia), in sintonia con i movimenti di contestazione dell'epoca. Questo movimento cercava di rendere comprensibile il modo di pensare psicotico a chi psicotico non è, annullando così la barriera discriminante tra sani e malati. Per questa anti-psichiatria non bisogna, quindi, tanto curare la follia quanto renderla intelligibile, attraverso il dialogo e la relazione empatica, come forma di soggettività. 
[25] M. Heidegger, Seminari di Zollikon, Napoli, Guida, 1991, p. 172.
[26] Ivi, pg. 172. 
[27] Ivi, pg. 403. 
[28] D. Cargnello, Alterità e alienità, Milano, Feltrinelli, 1977.
[29] L. Binswanger, Per un’antropologia fenomenologica, Milano, Feltrinelli, 1970, pg. 22.
[30] Ivi, pg. 23.
[31] Cfr. M. Galzigna, Binswanger e le strutture della presenza, in L. Binswanger, Il caso Suzanne Urbane. Storia di una schizofrenia, Venezia, Masilio, 1994.
[32] C. Sini (1998) pp.171-180 in E. Borgna, I conflitti del conoscere, Milano, Feltrinelli, 2003, pp.21-22.
[33] Due altri importanti fattori hanno reso possibile il trattamento psicoterapico dei pazienti psicotici: l’avvento degli psicofarmaci e il progressivo diffondersi della cultura psicologica nei servizi psichiatrici (cfr. A. Civita, D. Cosenza (a cura di), La cura della malattia mentale I. Storia ed epistemologia, Milano, Mondadori, 1999).
[34] E. Minkowski, Cosmologia e follia, Napoli, Alfredo Guida Editore, 2000, pg. 92.
 

[1] Binswanger L., Per un’antropologia fenomenologica, Milano, Feltrinelli, 1970.
[2] Bleuler E.,, Dementia praecox o il gruppo delle schizofrenie, Roma, La Nuova Italia, 1911.
[3] Borgna E., I conflitti del conoscere, Milano, Feltrinelli, 1987.
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[5] id., Per una psichiatria fenomenologica, Milano, Feltrinelli, 1991.
[6] id., Come se finisse il mondo. Il senso dell’esperienza schizofrenica, Milano, Feltrinelli, 2002.
[7] id., Le intermittenze del cuore, Milano, Feltrinelli, 2003.
[8] Callieri B., Quando vince l’ombra, Roma, Città Nuova, 1984.
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