Se Veronica Panariello ha ucciso suo figlio, lo stabiliranno i giudici tramite regolare processo. Gli indizi di una sua colpevolezza sono ritenuti gravi dagli inquirenti e questo è di loro competenza e responsabilità. La sua descrizione, invece, come soggetto “cinico” e di “indole malvagia”, è un giudizio morale. Dalle valutazioni morali è meglio che i giudici si astengano, per la serenità dell’esercizio della loro funzione. Quando una madre uccide il figlio, la malvagità, sotto forma di sadismo, può essere presente solo come effetto secondario e il cinismo è un elemento assente. Manca ugualmente l’odio fisiologico dei genitori nei confronti dei figli, che è associato al loro amore e lo rende autentico, non convenzionale. L’odio che può contribuire al figlicidio, è un sentimento dissociato dall’amore che è percepito come profondamente illegittimo. La dissociazione ha radici nella primissima infanzia, quando l’amore è una passione che odia gli ostacoli (a partire dalla libertà dell’oggetto amato). Se la passione del bambino è radicalmente rigettata dai genitori, che temono la sua forza coinvolgente, l’odio perde la sua sponda nell’amore ed è associato alla distruzione. Resta escluso dallo sviluppo mentale e affettivo e dalla socializzazione del desiderio e, incistato nella soggettività, imprigiona nella sua gabbia tutta la forza ineducata del vivere di cui era espressione. Ciò rende i sentimenti aridi e convenzionali e fa apparire la distruttività come unica forma di esistenza vera. La vita scorre nel tentativo inumano di appiattirsi nella normalità, per evitare che si possa uccidere l’oggetto più prossimo e caro. La madre che uccide il figlio agisce come una bambina alla quale è stata preclusa la possibilità di amare in modo libero e dunque di sentirsi amata. Il bambino ucciso non è percepito da lei come suo creato ma come un fratello che le ha tolto il posto nel mondo, che l’ha privata dell’amore, o come mostro uscito dalle sue viscere, un alieno che la minaccia: il prodotto della sua inconscia aspirazione alienante di dare alla propria madre, attraverso il figlio, l’oggetto messianico –vivo sul piano dell’idealità e morto sul piano della vita- che lei non è stata. La donna che vive con l’odio dissociato dal resto della sua soggettività non riesce a costituirsi come madre vera: usando la capacità biologica di procreazione, imita un ruolo sociale in cui cerca invano il riscatto dalla sua auto-percezione come essere privo di valore. È una mina vagante, che a contatto con situazioni emotivamente coinvolgenti, può capitare che esploda, mettendo in moto il suo odio come strumento di morte. Successivamente al figlicidio, la parte di sé socialmente integrata è frastornata, travolta dall’evento in cui non si riconosce, e la parte che l’ha causato si comporta con tutta la determinazione a salvarsi di un animale braccato. La ricomposizione della frattura è un fatto automatico di sopravvivenza psichica e il negare disperatamente l’evidenza serve entrambe le cause: difendersi da una percezione mostruosa di se stessa e dalla punizione per il misfatto commesso. Lasciare che la giustizia compia il suo corso, astenendosi dalla moralità braccante, ci consente di stendere un “velo pietoso” su vittima e carnefice. Non per volgere lo sguardo altrove ma per guardare dentro di noi, per vivere i sentimenti di compassione e di terrore di fronte a una tragedia che ci riguarda.Per assumere la responsabilità, noi che ci pensiamo in grado di farlo, di un mondo che ingabbia la donna in modelli impersonali di maternità, condannando la passione femminile alla disperazione sorda.
Condivido la conclusione di
Condivido la conclusione di Sarantis: ‘Lasciare che la giustizia compia il suo corso, astenendosi dalla moralità braccante, ci consente di stendere un “velo pietoso” su vittima e carnefice.’
Sottolineo – fortemente – la congiunzione: vittima E carnefice..