Ivan Nikolaevič Kramskoj, Gesù tentato
DALL’INFERNO AGLI ABISSI UMANI LE RAFFINATE ASTUZIE DI SATANA. A Rovigo, una mostra esplora il lato luciferino che attraversò la pittura a cavallo tra Otto e Novecento. Anche la letteratura (e l’immaginario) giocò su questo senso ambiguo
di Roberta Scorranese, corriere.it, 19 febbraio 2015
Nel 1872 un russo divorato dalla febbre del gioco scrisseI demoni, un romanzo-affresco su una umanità posseduta, mossa da uno estremo istinto di distruzione creatrice. Nello stesso anno, un pittore (anche questo russo) dipinse una delle più singolari Tentazioni di Cristo: Gesù è solo, in mezzo al deserto, il demonio non è visibile, non ha le consuete sembianze caricaturali (come, per esempio, nelle Prove di Cristo di Botticelli). Perché il demonio è in Cristo, è nella sua espressione perduta, nelle sue mani strette dall’ansia, nelle pietre aride. Così Fëdor Dostoevskij e Ivan Kramskoi hanno dato vita a una nuova, rivoluzionaria visione di Satana. In Russia, e forse non a caso: nella terra degli Zar il nichilismo assunse una fisionomia originale, sospesa tra la filosofia e la denuncia sociale. L’eclisse di Satana, o, meglio, la sua trasfigurazione, prende piede anche qui.
Per continuare:
http://www.corriere.it/cultura/15_febbraio_19/dall-inferno-abissi-umani-raffinate-astuzie-satana-3c66b0ac-b83e-11e4-8ec8-87480054a31d.shtml
L’AMORE ADULTO (CHE VA OLTRE I «BACI»)
di Roberta Scorranese, cucina.corriere.it, 15 febbraio 2015
La voluttà, vi prego, sull’amore! Metteteci le mani, imbrattatevi i grembiuli, o almeno provate a credere ai biglietti che avvolgono i cioccolatini. Sì, perché se San Valentino ha un barbaglio di utilità, questa sta nel ricordarci ogni anno quanto sia complicata la manutenzione degli affetti: amarsi un po’ è come bere, però volersi bene no, partecipare, è difficile quasi come fare a mano i cioccolatini da regalare. E se quest’anno fosse diverso? E se provassimo a impastare cacao e cannella, rum e peperoncino? Guidati da due grandi interrogativi irrisolti. Quello lacaniano, che si chiede se uomini e donne si incontreranno mai, e un altro, un po’ più terra-terra: quale vino sta bene con il cioccolato? Se lo chiede anche il «New York Times», eludendo la risposta. Ma questa ci arriva da un filosofo, il professor Tullio Gregory, «nume» della Treccani e appassionato di cucina. «Ma il rum, ovviamente! Cioccolato e rum era il binomio della grande borghesia europea ottocentesca. E, in fondo, ancora oggi è parte della suggestione di benessere euforizzante che ci coglie ogni qualvolta assaggiamo un quadratino di fondente».
Per continuare:
http://cucina.corriere.it/letture/15_febbraio_12/amore-adulto-che-va-oltre-baci_15c4d896-b2e6-11e4-9344-3454b8ac44ea.shtml
Per continuare:
http://cucina.corriere.it/letture/15_febbraio_12/amore-adulto-che-va-oltre-baci_15c4d896-b2e6-11e4-9344-3454b8ac44ea.shtml
CI MANCANO I PADRI ADULTI, CAPACI DI SBAGLIARE MA NON PREVARICARE
di Stefania Andreoli, 27esimaora.corriere.it, 15 febbraio 2015
Dal commento di qualche giorno fa di Papa Bergoglio («È giusto sculacciare i figli, ma niente schiaffi in faccia»), nell’opinione pubblica – certamente – ma forse anche nelle coscienze di ognuno si è agitato qualcosa. Uno smottamento nelle pance prima ancora che nelle mani, un movimento profondo che ha a che vedere con l’essere stati figli (e quasi certamente averne presa anche più d’una, di sculacciata) e con l’essere oggi genitori, educatori, testimoni il più possibile credibili (se ci va abbastanza bene) dei nostri tentativi pedagogici.
Una reazione che ha a che fare con l’essere cresciuti in un tempo in cui ci si poneva molto, molto meno di ora la domanda sulla bontà oppure no che partisse uno scapaccione, perché non c’era la pluralità di modi di essere genitori che è accessibile oggi, non c’era confusione di ruoli tra quello femminile e materno e quello maschile e paterno, perché si aveva molta meno paura di adesso che la punizione corporale producesse nei più giovani qualche trauma più o meno grave, più o meno a lungo termine. Ebbene, io credo che non renderemmo un buon servizio alla genitorialità, soprattutto a quella contemporanea così fragile, frammentata e in difficoltà, se ci attenessimo pedissequamente al manuale, cioè alla teoria che non incontra la vita pratica, quotidiana, quella fatta delle sfide educative che si intrecciano col tentativo di arrivare a fine mese, di tenere insieme la coppia, di non perdere le proprie passioni, di provare ad essere felici. E il manuale del genitore moderno parla chiaro: i figli non si picchiano.
(Dice anche che non devono guardare la TV fino ai 3 anni, che non si deve litigare e dire le parolacce in loro presenza, che bisogna fargli fare attività il più precocemente possibile, che si deve essere informati, perseguire le proprie ambizioni di carriera ma rimanere presenti in casa, dialogare, saper riconoscere i segnali di disagio: essere dei bravi genitori. Delle persone terrificanti, insomma). Tutto buono, intendiamoci. Tutto pensato, fondato su un certo caro e ahinoi perduto buonsenso. Dopodiché, la vita vera è un’altra cosa. E allora penso che nelle nostre pance prima ancora che nelle mani, dobbiamo ammettere che tutti noi, chi più chi meno, già lo sappiamo: i figli non si picchiano.
Eppure? Eppure una volta o qualche volta, come al papà citato da Papa Francesco, lo sculaccione può essere scappato, ci scappa, ci scapperà. Però sono convinta che non possa passare come gesto sdoganabile, e che piuttosto il Pontefice volesse fare un’operazione differente, più sofisticata: una bonaria difesa a quel genitore da scapaccione, che non solo come ha affermato se ha bisogno di affermare la sua autorevolezza ha fallito, ma se ha bisogno di farlo con misure fisiche, ha fallito due volte.
Mi baso su due evidenze: la prima, tutti gli studi e le osservazioni cliniche ci confermano che le punizioni corporali non sono minimamente dei deterrenti per l’eliminazione di un comportamento sgradito, anzi. La seconda: lo sculaccione è la strada più breve, quella spiccia che scegli quando non hai più le gambe per percorrerne altre, più lunghe, più faticose. È la strada facile, e come tutte le fiabe ci insegnano, ma lo fa anche la vita, le scorciatoie non sono mai prive di insidie, brutte sorprese e rischi di allontanarsi o addirittura non raggiungere mai la meta: il compimento di una testimonianza pedagogica ai nostri figli.
Che nessuno ha mai detto sia facile e indolore. Mi piace allora leggere nell’esempio riportato del Papa un gesto da padre: una carezza e autorizzazione bonaria all’imperfezione, all’errore, alla cosa sbagliata che finiamo per fare quando siamo finiti. Il fatto che la nostra società sia ormai priva di padri è un concetto condiviso e nient’affatto originale, ma non sono tanto i padri autorevoli né tantomeno autoritari, di cui sentiamo la mancanza – non solo. Sono i padri adulti, quelli capaci di ottenere il rispetto dei loro figli per differenza, per accrescimento, non per prevaricazione. Quelli che possono permettersi di testimoniare anche il fallimento, senza per questo finire falliti.
http://27esimaora.corriere.it/articolo/ci-mancano-i-padri-adulti-capacidi-sbagliare-ma-non-prevaricare/#more-39778
Una reazione che ha a che fare con l’essere cresciuti in un tempo in cui ci si poneva molto, molto meno di ora la domanda sulla bontà oppure no che partisse uno scapaccione, perché non c’era la pluralità di modi di essere genitori che è accessibile oggi, non c’era confusione di ruoli tra quello femminile e materno e quello maschile e paterno, perché si aveva molta meno paura di adesso che la punizione corporale producesse nei più giovani qualche trauma più o meno grave, più o meno a lungo termine. Ebbene, io credo che non renderemmo un buon servizio alla genitorialità, soprattutto a quella contemporanea così fragile, frammentata e in difficoltà, se ci attenessimo pedissequamente al manuale, cioè alla teoria che non incontra la vita pratica, quotidiana, quella fatta delle sfide educative che si intrecciano col tentativo di arrivare a fine mese, di tenere insieme la coppia, di non perdere le proprie passioni, di provare ad essere felici. E il manuale del genitore moderno parla chiaro: i figli non si picchiano.
(Dice anche che non devono guardare la TV fino ai 3 anni, che non si deve litigare e dire le parolacce in loro presenza, che bisogna fargli fare attività il più precocemente possibile, che si deve essere informati, perseguire le proprie ambizioni di carriera ma rimanere presenti in casa, dialogare, saper riconoscere i segnali di disagio: essere dei bravi genitori. Delle persone terrificanti, insomma). Tutto buono, intendiamoci. Tutto pensato, fondato su un certo caro e ahinoi perduto buonsenso. Dopodiché, la vita vera è un’altra cosa. E allora penso che nelle nostre pance prima ancora che nelle mani, dobbiamo ammettere che tutti noi, chi più chi meno, già lo sappiamo: i figli non si picchiano.
Eppure? Eppure una volta o qualche volta, come al papà citato da Papa Francesco, lo sculaccione può essere scappato, ci scappa, ci scapperà. Però sono convinta che non possa passare come gesto sdoganabile, e che piuttosto il Pontefice volesse fare un’operazione differente, più sofisticata: una bonaria difesa a quel genitore da scapaccione, che non solo come ha affermato se ha bisogno di affermare la sua autorevolezza ha fallito, ma se ha bisogno di farlo con misure fisiche, ha fallito due volte.
Mi baso su due evidenze: la prima, tutti gli studi e le osservazioni cliniche ci confermano che le punizioni corporali non sono minimamente dei deterrenti per l’eliminazione di un comportamento sgradito, anzi. La seconda: lo sculaccione è la strada più breve, quella spiccia che scegli quando non hai più le gambe per percorrerne altre, più lunghe, più faticose. È la strada facile, e come tutte le fiabe ci insegnano, ma lo fa anche la vita, le scorciatoie non sono mai prive di insidie, brutte sorprese e rischi di allontanarsi o addirittura non raggiungere mai la meta: il compimento di una testimonianza pedagogica ai nostri figli.
Che nessuno ha mai detto sia facile e indolore. Mi piace allora leggere nell’esempio riportato del Papa un gesto da padre: una carezza e autorizzazione bonaria all’imperfezione, all’errore, alla cosa sbagliata che finiamo per fare quando siamo finiti. Il fatto che la nostra società sia ormai priva di padri è un concetto condiviso e nient’affatto originale, ma non sono tanto i padri autorevoli né tantomeno autoritari, di cui sentiamo la mancanza – non solo. Sono i padri adulti, quelli capaci di ottenere il rispetto dei loro figli per differenza, per accrescimento, non per prevaricazione. Quelli che possono permettersi di testimoniare anche il fallimento, senza per questo finire falliti.
http://27esimaora.corriere.it/articolo/ci-mancano-i-padri-adulti-capacidi-sbagliare-ma-non-prevaricare/#more-39778
CONVEGNO CARITAS: “PANE E PAROLE. COSA NUTRE LA VITA”. Relatori: don Ettore Dubini, responsabile per la Caritas zonale; l’approfondimento è avvenuto poi a tre voci: mons. Maurizio Rolla, vicario episcopale per la zona di Lecco, il medico-psicanalista dott. Luigi Ballerini, autore tra l’altro di un libro il cui titolo è tutto un programma (“I bravi manager cenano a casa”, ed. EMI), e il dott. Luciano Gualzetti, vice-direttore della Caritas diocesana
di Ugo Baglivo, resegoneonline.it, 16 febbraio 2015
Si è tenuto nella mattinata di sabato 14 Febbraio un altro passo del percorso di programma annuale che il Centro Culturale S. Nicolò di Lecco quest’anno ha voluto condividere con Azione Cattolica, Caritas decanale, COE, ACLI, Pax Christi, MEIC, Scuola socio-politica: il percorso formativo, e non solo culturale, prevede una interpretazione particolare del tema di Expo 2015 “Nutrire il Pianeta – Energia per la vita”; e cioè “Una sola famiglia umana/Cibo per tutti”. Superando gli interessi laici, scientifici o puramente commerciali, l’interpretazione religiosa approfondisce il tema dal punto di vista umanitario, sia con lo sguardo rivolto al mondo, in cui tutti gli uomini hanno diritto al cibo, sia per il nostro microcosmo delle città occidentali, in cui convivono ricchi sempre più ricchi e poveri sempre più poveri, in una combinazione sempre più varia di uomini e donne di origini diverse. Dal diritto al cibo da parte di tutti (prima parte del programma: è possibile eliminare la fame nel mondo) si è passati al cibo come fonte di relazioni di pace (seconda parte del programma: non le guerre per accaparrarsi il cibo, ma possibilità di incontro): e ciò con lo sguardo alle nazioni, nel rapporto tra paesi sviluppati e paesi in via di sviluppo, ma anche con l’attenzione alle nostre città e alle nostre famiglie, nell’incontro con i più diversi nella società occidentale e nell’incontro con i nostri familiari, e in una famiglia aperta agli altri nelle nostre case. Ecco il tema del Convegno zonale Caritas per la zona terza di Lecco (terza su sette nella diocesi di Milano), tenutosi al Collegio Volta la mattinata del 14 febbraio: il cibo e la tavola come compagnia e come racconto. Seguirà in marzo-aprile la terza parte del programma: una finanza al servizio dell’uomo, con lo sguardo rivolto alle leggi, in materia economica e politica, che occorrono per salvaguardare i diritti di tutti. Il tema della “relazione” è balzato all’attenzione di tutti fin dalla preghiera iniziale, in cui si è fruito delle parole dell’Arcivescovo (card. A. Scola, Un nuovo Umanesimo) per ricordare che l’uomo è stato voluto da Dio non come individuo isolato ma come essere che si pone sempre in rapporto: con il suo Creatore, con gli altri uomini e donne che costituiscono la famiglia umana, e in relazione con il creato di cui egli deve prendersi cura. Ciò è vero oggi più che mai, giacché viviamo “in un mondo in cui gli uomini dipendono sempre più gli uni dagli altri e che va sempre più verso l’unificazione” (globalizzazione).
Ha introdotto i lavori, e – uno alla volta – i relatori, don Ettore Dubini, responsabile per la Caritas zonale; l’approfondimento è avvenuto poi a tre voci: mons. Maurizio Rolla, vicario episcopale per la zona di Lecco, il medico-psicanalista dott. Luigi Ballerini, autore tra l’altro di un libro il cui titolo è tutto un programma (“I bravi manager cenano a casa”, ed. EMI), e il dott. Luciano Gualzetti, vice-direttore della Caritas diocesana, impegnato all’allestimento del Padiglione S. Sede in Expo 2015, oltre che all’organizzazione a livello diocesano relativamente agli impegni di Expo. Il titolo scelto da mons. Rolla per il suo intervento desta da subito curiosità: “Mangiare e mangiarsi”. Il mangiare è bisogno fisico, ma la parola assume significati più profondi nella forma riflessiva o pseudo-riflessiva: si va da mangiarsi le unghie…mangiarsi l’eredità…mangiarsi l’un l’altro, fino a, in positivo, mangiarsi con gli occhi, e poi “io ti mangio” perché ti voglio bene. Così si passa da un valore fisico del nutrimento a un valore più intenso, che rimanda ad una avidità spirituale, che è bisogno di incontro – a tavola – tra uomo e uomo; e Gesù si è fatto cibo per l’uomo per farsi mangiare, per diventare una carne sola con l’uomo che se ne nutre. Non basta che nel mondo ci sia “riso per tutti”, ma gli uomini tutti devono farsi “cibo per gli altri”. Non è un gioco intellettualistico o linguistico, come potrebbe sembrare, ma davvero non esiste cibo – in senso pieno – senza incontro; mangiare in solitudine è la cosa più triste che si possa pensare. E poi un rimando ad una pubblicazione recente, in tema: Fulvio Ervas, Se ti abbraccio non avere paura.
L’intervento successivo dello psicologo Ballerini ha chiarito e razionalizzato alcuni passaggi di pensiero di mons. Rolla, che potevano apparire poetici, mistici, e non quotidiani e comuni. Mangiare è un “moto del corpo” che mira alla soddisfazione: il bambino non sa di avere fame e men che mai sa del cibo come bisogno per vivere, ma un altro (la mamma o chi per lei) gli offre qualcosa da mangiare, e il bambino ne succhia (e poi ne mangia) e avverte piacere, e dunque poi ne cerca ancora; il desiderio di altro cibo nasce dal piacere provato al primo assaggio. L’uomo è l’unico essere al mondo che mangia per soddisfazione cerebrale, non di solo stomaco, non di sola corporeità; fu Freud a scoprire l’”io-corpo”, e cioè la componente sovra-materiale del corpo: il mangiare è piacere, come la pulsione sessuale è piacere. Perciò in compagnia, tra buoni amici, si mangia di più, perciò sono nate intorno alla tavola tante abitudini di “finezza”, che non sono secondarie ma risultano essenziali al cibo stesso: ad esempio l’uso delle posate, la divisione del cibo in varie portate, e il rito dell’aperitivo prima del pasto, come quello del sorbetto tra pietanza e pietanza, ecc. Così la tavola è sì cibo, ma è anche parola, perché il cibo esige l’incontro con l’altro che mangia con noi: non si mangia solo per vivere, ma si mangia per gustare; insomma è ribaltata l’opinione comune: occorre “vivere per mangiare” e non solo “mangiare per vivere”. Don Dubini riprende poi il tema e lo applica alle attività Caritas in modo concreto: nelle nostre mense Caritas non dobbiamo solo dare cibo ma dobbiamo creare rapporti umani, bisogna passare dal cibo alla compagnia di più persone che dividono tra loro il cibo, e la compagnia richiama il racconto, cioè l’apertura dell’animo di un commensale verso l’altro, e dei commensali verso chi li ospita.
L’intervento del dott. Gualzetti si compiace dapprima di queste profondità e squisitezze di pensiero: il cibo come racconto! Perciò, egli ricorda, la Caritas ha istituito prima i centri di ascolto e poi le mense, e poi il fondo famiglia/lavoro; come per dire che i bisogni spirituali vengono anche prima di quelli materiali. Ben a ragione Benedetto XVI pensa che “la più grande povertà è nella solitudine”; tutta la fede cristiana, più che fede nell’interpretazione individuale, è fede sociale, è condivisione. Tuttavia i problemi dell’Africa, dell’Asia, dell’America Latina sono diversi dai problemi dell’Europa e dell’America del Nord: qui siamo obesi, e lì invece le multinazionali tolgono i diritti (e le terre) a chi li (le) possedeva: ci sono 800 milioni di uomini malnutriti nel mondo; e ci sono i poveri anche da noi. Se da una parte il cibo crea condivisione e racconto, dall’altra resta bisogno essenziale e materiale. Occorrono delle leggi che sanciscano il diritto al cibo per tutti, e tale diritto è necessario che entri nelle Costituzioni degli Stati cosiddetti avanzati: occorre che ci sia controllo sulle multinazionali che ignorano, o peggio sfruttano, le situazioni di povertà, e occorre che anche nei nostri stili di vita ci sia il controllo sugli sprechi. Ecco il richiamo di Papa Francesco ai “grandi” della Terra: “questa economia uccide!” E poi non bisogna solo pensare ad aiuti reali per le fragilità, ma occorre anche la denuncia contro i processi sbagliati. Le stesse migrazioni di popoli derivano da un sistema economico ingiusto. La visione umanitaria della Chiesa supera cioè gli egoismi delle parti, sia che si tratti – in grande – di multinazionali onnipresenti nel mondo e tutto-fare, sia che si tratti del microcosmo delle nostre famiglie. Il cibo è sì incontro e racconto, ma resta urgente il problema che il cibo va assicurato a tutti. Sono due piani diversi di pensiero, entrambi co-essenziali: come l’anima e il corpo.
Tra le voci di commento, da parte del pubblico (numeroso e in buona misura di “addetti ai lavori” provenienti da tutta la zona pastorale), particolarmente felice è stata quella del giovane Marco che si è detto apertamente fruitore di Caritas su doppio fronte, nel senso dell’essere stato dall’una e dall’altra parte del bancone: a servire cibo agli altri e talvolta nel bisogno di farsi servire. Può toccare a tutti! Importante è sì dare cibo a chi ha bisogno, ma anche sentirlo parlare. E che cosa ha detto Marco agli operatori Caritas? Ha detto che non tutti gli operatori Caritas sono autenticamente credenti, nel senso che non tutti lasciano trasparire dal loro comportamento la fede cristiana per quello che dovrebbe essere: condivisione affettuosa. Occorre davvero che tutti – rispetto al problema del bisogno di chi ha fame di cibo reale o ha fame di incontro o ha fame di racconto – riscopriamo non tanto l’aspetto scientifico delle cose quanto il lato affettuoso della carità, come solo il Cristianesimo sa accomunare i “fratelli” in una sola “famiglia umana”. Le parole di Marco sono un programma per tutti.
http://www.resegoneonline.it/articoli/Convegno-Caritas-Pane-e-parole-Cosa-nutre-la-vita-20150216/
Ha introdotto i lavori, e – uno alla volta – i relatori, don Ettore Dubini, responsabile per la Caritas zonale; l’approfondimento è avvenuto poi a tre voci: mons. Maurizio Rolla, vicario episcopale per la zona di Lecco, il medico-psicanalista dott. Luigi Ballerini, autore tra l’altro di un libro il cui titolo è tutto un programma (“I bravi manager cenano a casa”, ed. EMI), e il dott. Luciano Gualzetti, vice-direttore della Caritas diocesana, impegnato all’allestimento del Padiglione S. Sede in Expo 2015, oltre che all’organizzazione a livello diocesano relativamente agli impegni di Expo. Il titolo scelto da mons. Rolla per il suo intervento desta da subito curiosità: “Mangiare e mangiarsi”. Il mangiare è bisogno fisico, ma la parola assume significati più profondi nella forma riflessiva o pseudo-riflessiva: si va da mangiarsi le unghie…mangiarsi l’eredità…mangiarsi l’un l’altro, fino a, in positivo, mangiarsi con gli occhi, e poi “io ti mangio” perché ti voglio bene. Così si passa da un valore fisico del nutrimento a un valore più intenso, che rimanda ad una avidità spirituale, che è bisogno di incontro – a tavola – tra uomo e uomo; e Gesù si è fatto cibo per l’uomo per farsi mangiare, per diventare una carne sola con l’uomo che se ne nutre. Non basta che nel mondo ci sia “riso per tutti”, ma gli uomini tutti devono farsi “cibo per gli altri”. Non è un gioco intellettualistico o linguistico, come potrebbe sembrare, ma davvero non esiste cibo – in senso pieno – senza incontro; mangiare in solitudine è la cosa più triste che si possa pensare. E poi un rimando ad una pubblicazione recente, in tema: Fulvio Ervas, Se ti abbraccio non avere paura.
L’intervento successivo dello psicologo Ballerini ha chiarito e razionalizzato alcuni passaggi di pensiero di mons. Rolla, che potevano apparire poetici, mistici, e non quotidiani e comuni. Mangiare è un “moto del corpo” che mira alla soddisfazione: il bambino non sa di avere fame e men che mai sa del cibo come bisogno per vivere, ma un altro (la mamma o chi per lei) gli offre qualcosa da mangiare, e il bambino ne succhia (e poi ne mangia) e avverte piacere, e dunque poi ne cerca ancora; il desiderio di altro cibo nasce dal piacere provato al primo assaggio. L’uomo è l’unico essere al mondo che mangia per soddisfazione cerebrale, non di solo stomaco, non di sola corporeità; fu Freud a scoprire l’”io-corpo”, e cioè la componente sovra-materiale del corpo: il mangiare è piacere, come la pulsione sessuale è piacere. Perciò in compagnia, tra buoni amici, si mangia di più, perciò sono nate intorno alla tavola tante abitudini di “finezza”, che non sono secondarie ma risultano essenziali al cibo stesso: ad esempio l’uso delle posate, la divisione del cibo in varie portate, e il rito dell’aperitivo prima del pasto, come quello del sorbetto tra pietanza e pietanza, ecc. Così la tavola è sì cibo, ma è anche parola, perché il cibo esige l’incontro con l’altro che mangia con noi: non si mangia solo per vivere, ma si mangia per gustare; insomma è ribaltata l’opinione comune: occorre “vivere per mangiare” e non solo “mangiare per vivere”. Don Dubini riprende poi il tema e lo applica alle attività Caritas in modo concreto: nelle nostre mense Caritas non dobbiamo solo dare cibo ma dobbiamo creare rapporti umani, bisogna passare dal cibo alla compagnia di più persone che dividono tra loro il cibo, e la compagnia richiama il racconto, cioè l’apertura dell’animo di un commensale verso l’altro, e dei commensali verso chi li ospita.
L’intervento del dott. Gualzetti si compiace dapprima di queste profondità e squisitezze di pensiero: il cibo come racconto! Perciò, egli ricorda, la Caritas ha istituito prima i centri di ascolto e poi le mense, e poi il fondo famiglia/lavoro; come per dire che i bisogni spirituali vengono anche prima di quelli materiali. Ben a ragione Benedetto XVI pensa che “la più grande povertà è nella solitudine”; tutta la fede cristiana, più che fede nell’interpretazione individuale, è fede sociale, è condivisione. Tuttavia i problemi dell’Africa, dell’Asia, dell’America Latina sono diversi dai problemi dell’Europa e dell’America del Nord: qui siamo obesi, e lì invece le multinazionali tolgono i diritti (e le terre) a chi li (le) possedeva: ci sono 800 milioni di uomini malnutriti nel mondo; e ci sono i poveri anche da noi. Se da una parte il cibo crea condivisione e racconto, dall’altra resta bisogno essenziale e materiale. Occorrono delle leggi che sanciscano il diritto al cibo per tutti, e tale diritto è necessario che entri nelle Costituzioni degli Stati cosiddetti avanzati: occorre che ci sia controllo sulle multinazionali che ignorano, o peggio sfruttano, le situazioni di povertà, e occorre che anche nei nostri stili di vita ci sia il controllo sugli sprechi. Ecco il richiamo di Papa Francesco ai “grandi” della Terra: “questa economia uccide!” E poi non bisogna solo pensare ad aiuti reali per le fragilità, ma occorre anche la denuncia contro i processi sbagliati. Le stesse migrazioni di popoli derivano da un sistema economico ingiusto. La visione umanitaria della Chiesa supera cioè gli egoismi delle parti, sia che si tratti – in grande – di multinazionali onnipresenti nel mondo e tutto-fare, sia che si tratti del microcosmo delle nostre famiglie. Il cibo è sì incontro e racconto, ma resta urgente il problema che il cibo va assicurato a tutti. Sono due piani diversi di pensiero, entrambi co-essenziali: come l’anima e il corpo.
Tra le voci di commento, da parte del pubblico (numeroso e in buona misura di “addetti ai lavori” provenienti da tutta la zona pastorale), particolarmente felice è stata quella del giovane Marco che si è detto apertamente fruitore di Caritas su doppio fronte, nel senso dell’essere stato dall’una e dall’altra parte del bancone: a servire cibo agli altri e talvolta nel bisogno di farsi servire. Può toccare a tutti! Importante è sì dare cibo a chi ha bisogno, ma anche sentirlo parlare. E che cosa ha detto Marco agli operatori Caritas? Ha detto che non tutti gli operatori Caritas sono autenticamente credenti, nel senso che non tutti lasciano trasparire dal loro comportamento la fede cristiana per quello che dovrebbe essere: condivisione affettuosa. Occorre davvero che tutti – rispetto al problema del bisogno di chi ha fame di cibo reale o ha fame di incontro o ha fame di racconto – riscopriamo non tanto l’aspetto scientifico delle cose quanto il lato affettuoso della carità, come solo il Cristianesimo sa accomunare i “fratelli” in una sola “famiglia umana”. Le parole di Marco sono un programma per tutti.
http://www.resegoneonline.it/articoli/Convegno-Caritas-Pane-e-parole-Cosa-nutre-la-vita-20150216/
PADRI ADULTI? MEGLIO LE COPPIE VERE. Crisi del padre, della madre, o di altro?
di Daddy Full, lettera43.it, 16 febbraio 2015
Francesco Uccello, il mitico blogger di Mo Te Lo Spiego A Papà mi stimola via Twitter a riflettere su un post della 27esima ora della psicanalista Stefania Andreoli sulla mancanza nella società odierna di padri adulti. Lo spunto dell’articolo (qui sotto) è la frase «È giusto sculacciare i figli, ma niente schiaffi in faccia», pronunciata recentemente da Papa Francesco.
Con quelle parole il Papa non ha voluto certamente invitare i padri ad alzare le mani sui bambini, credo abbia cercato di ricordare che si può sbagliare in tante piccole cose (la sculacciata è una di queste, ma certo non la sola), che l’importante è non umiliarli, ma andare avanti, tenere duro e non lasciarsi prendere dallo sconforto, continuare ad amare i propri figli e la loro madre, e cercare invece di non sbagliare nelle grandi cose, in quelle che contano veramente nell’educazione e nella vita.
Interpretazioni personali a parte, la dottoressa Andreoli ne trae spunto per ragionare sulle imperfezioni della genitorialità e sulla difficoltà in quanto genitori di conciliare la teoria e la vita pratica. Arrivando alla conclusione che la nostra società è ormai priva di “padri adulti”, cioè “quelli capaci di ottenere il rispetto dei loro figli per differenza, per accrescimento, non per prevaricazione”.
Sono abbastanza d’accordo. Ma sono d’accordo anche con il “collega” blogger, quando qui dice che in realtà “i padri adulti esistono e lottano insieme a noi”, aggiungendo: “Perché non si parla di genitori incapaci di essere adulti, di coppia che andrebbe sostenuta nel ruolo genitoriale, mentre per forza si cerca di scaricare la colpa su uno dei due?”
È vero, la figura del padre è in crisi. Lo è da anni. Troppi papà amici, troppi papà fragili e soli, troppi papà ripiegati su se stessi. Troppi papà “vecchi” (ne riflettevo in questo post), perché l’età di un padre conta: ai bambini non servono genitori apprensivi, spaventati e sempre stanchi, ma padri leggeri, forti, un po’ cazzari, irresponsabili, spericolati, analfabeti, liberi. E poi troppi papà di figli unici, condizione che può non aiutare a evolvere come genitore, soprattutto se attorno ci sono tante figure ingaggiate nell’accudimento della prole.
Ma se la crisi del padre è questione antica, oggi pochi parlano del problema delle madri. Io vedo aumentare le madri apprensive, le madri sole e isolate, le madri iper-protettive, le madri aggressive e competitive sempre e solo in difesa e adorazione del figlio, le madri male-educate, le madri senza alcun minimo rudimento di puericultura (a che ora si va a letto, cosa non si mangia, cosa si guarda e cosa non si guarda in tv…), le madri incapaci di rinunce. E poi, come per i padri, ci sono poche madri giovani e con tanti figli, condizione che può aiutare a maturare come genitore.
C’è crisi di padri adulti, è vero, ma non ovunque: è la rendita che non aiuta a crescere, il sacrificio spesso fa la differenza. C’è crisi anche di madri, perché c’è crisi di “maternità”. E c’è soprattutto bisogno di coppie vere, non di genitori assemblati, ma di padri e madri capaci di essere una coppia stabile e fedele. Poi possono essere anche due povericristi, ai quali può scappare una sculacciata o una scenata isterica. Non si deve, mai. Ma quello che fa veramente male ai bambini è avere genitori egoisti, convinti che amore sia sinonimo di opportunità. Questo sì che lascia il segno.
http://www.lettera43.it/blog/papa-24-7/padri-adulti-meglio-le-coppie-vere_43675158775.htm
Con quelle parole il Papa non ha voluto certamente invitare i padri ad alzare le mani sui bambini, credo abbia cercato di ricordare che si può sbagliare in tante piccole cose (la sculacciata è una di queste, ma certo non la sola), che l’importante è non umiliarli, ma andare avanti, tenere duro e non lasciarsi prendere dallo sconforto, continuare ad amare i propri figli e la loro madre, e cercare invece di non sbagliare nelle grandi cose, in quelle che contano veramente nell’educazione e nella vita.
Interpretazioni personali a parte, la dottoressa Andreoli ne trae spunto per ragionare sulle imperfezioni della genitorialità e sulla difficoltà in quanto genitori di conciliare la teoria e la vita pratica. Arrivando alla conclusione che la nostra società è ormai priva di “padri adulti”, cioè “quelli capaci di ottenere il rispetto dei loro figli per differenza, per accrescimento, non per prevaricazione”.
Sono abbastanza d’accordo. Ma sono d’accordo anche con il “collega” blogger, quando qui dice che in realtà “i padri adulti esistono e lottano insieme a noi”, aggiungendo: “Perché non si parla di genitori incapaci di essere adulti, di coppia che andrebbe sostenuta nel ruolo genitoriale, mentre per forza si cerca di scaricare la colpa su uno dei due?”
È vero, la figura del padre è in crisi. Lo è da anni. Troppi papà amici, troppi papà fragili e soli, troppi papà ripiegati su se stessi. Troppi papà “vecchi” (ne riflettevo in questo post), perché l’età di un padre conta: ai bambini non servono genitori apprensivi, spaventati e sempre stanchi, ma padri leggeri, forti, un po’ cazzari, irresponsabili, spericolati, analfabeti, liberi. E poi troppi papà di figli unici, condizione che può non aiutare a evolvere come genitore, soprattutto se attorno ci sono tante figure ingaggiate nell’accudimento della prole.
Ma se la crisi del padre è questione antica, oggi pochi parlano del problema delle madri. Io vedo aumentare le madri apprensive, le madri sole e isolate, le madri iper-protettive, le madri aggressive e competitive sempre e solo in difesa e adorazione del figlio, le madri male-educate, le madri senza alcun minimo rudimento di puericultura (a che ora si va a letto, cosa non si mangia, cosa si guarda e cosa non si guarda in tv…), le madri incapaci di rinunce. E poi, come per i padri, ci sono poche madri giovani e con tanti figli, condizione che può aiutare a maturare come genitore.
C’è crisi di padri adulti, è vero, ma non ovunque: è la rendita che non aiuta a crescere, il sacrificio spesso fa la differenza. C’è crisi anche di madri, perché c’è crisi di “maternità”. E c’è soprattutto bisogno di coppie vere, non di genitori assemblati, ma di padri e madri capaci di essere una coppia stabile e fedele. Poi possono essere anche due povericristi, ai quali può scappare una sculacciata o una scenata isterica. Non si deve, mai. Ma quello che fa veramente male ai bambini è avere genitori egoisti, convinti che amore sia sinonimo di opportunità. Questo sì che lascia il segno.
http://www.lettera43.it/blog/papa-24-7/padri-adulti-meglio-le-coppie-vere_43675158775.htm
ZOJA: “SCONTRI DI CIVILTÀ”
di Luigi Zoja, doppiozero.com, 16 febbraio 2015
Era il crepuscolo. L’auto era grande, ma allo stadio finale. Troppo vicina al muro: come fanno gatti randagi o colombi, quando in città cercano un angolo per morire. Lungo la parte posteriore l’uomo aveva steso uno straccio e ci si coricava sopra. Ho fatto gli ultimi metri verso casa. Prima di entrare, mi sono voltato verso quei due relitti. C’era qualcosa di incomprensibile: perché non si metteva sulla schiena, perché non scivolava sotto la macchina, perché in mano non aveva una chiave inglese? Su un palmo di vento mi hanno raggiunto le aspirate forti del Corano. Allah, il soffio divino. Salito in casa, ho aperto la finestra; sono rimasto a contemplare quel fossile spirituale che respirava su un marciapiede di Milano, finché si è incamminato con la coperta sotto il braccio. Con una carta geografica, ho traguardato i tetti nella direzione del suo inchino: l’auto non era sua, gli era solo servita da riparo per volgersi perfettamente alla Mecca. Non ci si inginocchia davanti a una automobile, solo davanti a Dio. Chi dice che l’Islam è troppo orgoglioso e assolutista per adattarsi al nostro mondo dovrebbe inciampare in questa umiltà, stesa fra gli interstizi dell’asfalto.
Mi tornava alla memoria mentre ascoltavo le notizie di Parigi. Quell’uomo, in cosa crede? Certo, non nelle responsabilità personali, come noi europei moderni, ma in quelle collettive e storiche, delle grandi masse o magari dei continenti. Nelle registrazioni francesi risuona la voce di uno degli attentatori: «Voi bombardate la Siria e l’Iraq, massacrando ogni giorno bambini. “Noi” non abbiamo ucciso civili. Abbiamo dei codici di onore». Per “loro” è semplicemente una guerra: con la redazione di Charlie, ma in cui “noi” siamo già tutti arruolati, se accettiamo Charlie e il sistema in cui si pubblica. Del resto, già distinguere così tra “loro” e “noi” è guerra. Bush aveva reagito all’11 settembre dichiarando «Siamo in guerra». Dal 2001. Contro di “loro” non esiste “de-terrenza”: un concetto (usato per le armi nucleari nella Guerra Fredda) che significa “terrorizzare l’avversario paralizzandolo prima che agisca”. Come suggerisce la calma delle loro telefonate un attimo prima di morire, di cosa possono avere ancora paura? Tutte le misure di sicurezza, tutte le nuove immense spese, serviranno a poco. O forse serviranno a surriscaldare l’odio e la paranoia collettiva in un gioco di riarmi. Non si accumuleranno più studi e analisi, in cui si sottolineano le diversità ma ci si accetta, solo sospetti: così si sarà tentati di ricorrere alla violenza per primi.
Poco dopo la strage, un collega di Parigi manda una mail circolare: “Io non sono Charlie”. Vuole distinguere, usando la propria mente. Proviamo anche noi. La libertà di espressione non si esercita nel vuoto, ma nella società e nella storia: fitte di altri diritti, con cui deve essere bilanciata. Per l’Europa e per l’Italia, fra l’altro, con un diritto alla diversità: al suo riconoscimento e al suo rispetto, che hanno dovuto ricevere più attenzione da quando la piramide della società posa su un pianterreno di immigrati. L’Europa è più centralizzata e sottoposta a interventi statali dell’America. Questo vale anche per la libertà d’espressione: il Mein Kampf di Hitler è vietato in Germania, ma in libera vendita negli Stati Uniti. Nella società multietnica di oggi sarebbe meglio spostarsi verso il modello americano. Là, il Primo Emendamento della costituzione proibisce al parlamento di varare qualunque legge che limiti la libertà di espressione. I ragionevoli argini all’arbitrio e all’eccesso nell’uso di questi diritti sono ottenuti attraverso auto-limitazioni. Come sappiamo da Hollywood, dove per le pellicole con temi sessuali si producono una versione europea ed una americana, castigata. Con la diffusione del “politicamente corretto”, l’informazione degli Stati Uniti si è poi auto-imposta dei limiti nei confronti delle minoranze: afro-americani, omosessuali, disabili vengono presentati facendo attenzione a separare la critica dalla condizione di appartenente a quel gruppo. Si scriverà: il ladro che ha commesso furto, non il ladro “latino”, anche se è tale e se il giornalista odia i latinos.
Cosa fa chi critica senza porsi limiti? Chi provoca dovrebbe dichiarare il proprio scopo e assumersene i costi. La provocazione è tale perché contiene un volontario eccesso espressivo, che ho già cercato di analizzare nel breve saggio La morte del prossimo. La provocazione ripetuta perde il suo effetto critico: le caricature di Maometto si ripetono, talvolta senza neppure variazioni, da dieci anni (lo Jyllands-Posten le pubblicò per la prima volta nel 2005). Sembrano diventate un braccio di ferro, un fatto personale: Vuoi impedirmi di ripetere le vignette? E io invece insisto. Alla fine “provoca” un risultato opposto: non solo non è più novità ma, come è accaduto negli anni ’60 e ’70, può ritorcersi contro gli autori. Qualcosa di simile sembra essere avvenuto con le vignette di Charlie. Il settimanale fa satira con potenziale politico. Ma qual è il programma che propone, o semplicemente sottintende, offendendo le immagini dell’Islam, ridicolizzandole in sé e per sé? La satira, si dice giustamente, è benefica perché esercita alla critica dei potenti. Charlie non fa satira contro i disabili. Anche i cinque milioni di musulmani, però, non sono un settore potente ma debole della società francese. Dei due fratelli che hanno commesso la strage, uno lavorava saltuariamente come fattorino di pizze, l’altro era iscritto alle liste disoccupati. È giusta una satira contro i deboli, che si sentono derisi non in quanto commettano azioni criticabili ma proprio in quanto appartenenti a un’altra cultura, ad altri valori, a un’altra religione? All’Islam sono finora mancati i vantaggi dell’Europa e oltre sei secoli di elaborazione storica rispetto al cristianesimo (per non parlare dell’ebraismo che ha millenni in più). Neppur troppo tempo fa, anche i cristiani mandavano a morte i “sacrileghi”. Gli spagnoli diedero all’inca Atauhalpa una Bibbia invitandolo (come oggi fanno i fondamentalisti islamici) ad ascoltarla e convertirti: siccome né il testo parlava, né lui sapeva leggere, l’inca lo buttò da parte. I rappresentanti della civiltà e del cristianesimo ne ricavarono un utile pretesto per massacrare lui e i suoi.
Invocare la libertà di espressione totale, di tipo americano, è quello che fanno i dimostranti con le matite alzate. Un rito commovente, ma che serve come rassicurazione reciproca all’interno della società francese ferita: mentre non serve, o addirittura è negativo, rispetto ai complessi equilibri tra le culture. Invocare una libertà di espressione assoluta, di tipo americano, ha senso quando si applica fino in fondo il modello americano: che include l’auto-limitazione per non offendere determinati settori della società. Un rito politico e mediatico nato dal Primo Emendamento, del 1791. Per il momento non ha funzionato non solo in Francia (figuriamoci in Italia), ma neppure in Danimarca, dove il maggior quotidiano di destra (lo Jyllands-Posten) fu il primo a pubblicare vignette satiriche su Maometto: per poi chiedere scusa con un editoriale alcuni mesi dopo. Una cultura che negli Stati Uniti ha oltre due secoli non può essere importata dall’oggi al domani: eppure, l’auto-responsabilizzazione e una certa dose di auto-censura sono strade da praticare se vogliamo sopravvivere in una società multietnica. Con la strage delle Torri Gemelle Susan Sontag scrisse che l’America aveva perso l’innocenza. Anche l’evento di Parigi corrisponde a una perdita di candore da parte del bianco frutto europeo, circondato dalla buccia scura delle periferie islamiche. Noi viviamo in un ottimismo occidentale, mercantile, ormai americano. La psicologia collettiva ha sempre un contrappeso nascosto: laici senza Dio, non siamo più abituati a credere al male. Le organizzazioni fondamentaliste avevano preannunciato le loro intenzioni: eppure, quando i sacrifici umani si compiono, la mente europea è raggiunta di sorpresa. Era avvenuto con Hitler, che aveva anticipato le sue aggressioni nel Mein Kampf, ma non fu creduto.
I proclami fanatici dischiudono culture diverse, ma non sempre per il peggio. Dagli archivi di polizia sui due fratelli attentatori apprendiamo che sul lavoro non stringevano la mano alle donne, che in tribunale non si alzavano in piedi se il giudice era femmina. Anche questo ha una controfaccia nascosta. Una sopravvissuta della redazione di Charlie si è stupita di essere viva. Le hanno puntato addosso il Kalashnikov, ma hanno aggiunto: Noi non uccidiamo le donne. Ma tu devi leggere il Corano. Più tragicamente si è stupito un suo collega: Ai primi spari, ha detto, pensavamo fosse il solito scherzo. Dai mortaretti si è passati ai morti. Noi europei sorridiamo, finché le nostre lacrime non dimostrano a noi stessi il contrario (è avvenuto con la ministro Fornero). Berlusconi faceva le corna nelle foto ufficiali. Hollande – meno volontariamente, ma facendo ridere di più – si è fatto fotografare nascosto dal casco, mentre sul sellino posteriore di uno scooter se la svignava dalla presidenza per una scappatella. Molti immigrati islamici non vogliono integrarsi né ridere con gli europei perché sono convinti – non sempre infondatamente – di avere nella borsa meno soldi ma più dignità.
Con la nuova copertina di Charlie – dove Maometto piange – si cerca di non separare più la coesistenza di lacrime e sorriso, umana e psicologicamente vera. Ma anche questa, dovremmo temere, è una considerazione postilluminista, quasi psicoanalitica: sorda, per quel mussulmano naufrago che ha trovato una zattera nella Jihad. Per molti islamici continuerà lo scandalo. Che non consiste, va notato, nel rappresentare il profeta in sé, ma nel farne caricatura. È un “sacrilegio” che sta allargando la sua diffusione: Charlie normalmente vende 60.000 copie, ma il nuovo numero è arrivato di colpo a tre milioni; e ci si sta attrezzando per tirarne cinque. Serve davvero la loro diffusione? Tre, cinque milioni di offese a una religione sentita come diversa sono come altrettanti nuovi voti alla destra estrema. Sono scelte in favore del minaccioso “scontro di civiltà” di cui, dopo qualche anno di pausa, ora si tornerà a parlare. Significano credere a una contrapposizione tra Cristianità e Islam che trabocca in guerra civile dei monoteismi.
Mi tornava alla memoria mentre ascoltavo le notizie di Parigi. Quell’uomo, in cosa crede? Certo, non nelle responsabilità personali, come noi europei moderni, ma in quelle collettive e storiche, delle grandi masse o magari dei continenti. Nelle registrazioni francesi risuona la voce di uno degli attentatori: «Voi bombardate la Siria e l’Iraq, massacrando ogni giorno bambini. “Noi” non abbiamo ucciso civili. Abbiamo dei codici di onore». Per “loro” è semplicemente una guerra: con la redazione di Charlie, ma in cui “noi” siamo già tutti arruolati, se accettiamo Charlie e il sistema in cui si pubblica. Del resto, già distinguere così tra “loro” e “noi” è guerra. Bush aveva reagito all’11 settembre dichiarando «Siamo in guerra». Dal 2001. Contro di “loro” non esiste “de-terrenza”: un concetto (usato per le armi nucleari nella Guerra Fredda) che significa “terrorizzare l’avversario paralizzandolo prima che agisca”. Come suggerisce la calma delle loro telefonate un attimo prima di morire, di cosa possono avere ancora paura? Tutte le misure di sicurezza, tutte le nuove immense spese, serviranno a poco. O forse serviranno a surriscaldare l’odio e la paranoia collettiva in un gioco di riarmi. Non si accumuleranno più studi e analisi, in cui si sottolineano le diversità ma ci si accetta, solo sospetti: così si sarà tentati di ricorrere alla violenza per primi.
Poco dopo la strage, un collega di Parigi manda una mail circolare: “Io non sono Charlie”. Vuole distinguere, usando la propria mente. Proviamo anche noi. La libertà di espressione non si esercita nel vuoto, ma nella società e nella storia: fitte di altri diritti, con cui deve essere bilanciata. Per l’Europa e per l’Italia, fra l’altro, con un diritto alla diversità: al suo riconoscimento e al suo rispetto, che hanno dovuto ricevere più attenzione da quando la piramide della società posa su un pianterreno di immigrati. L’Europa è più centralizzata e sottoposta a interventi statali dell’America. Questo vale anche per la libertà d’espressione: il Mein Kampf di Hitler è vietato in Germania, ma in libera vendita negli Stati Uniti. Nella società multietnica di oggi sarebbe meglio spostarsi verso il modello americano. Là, il Primo Emendamento della costituzione proibisce al parlamento di varare qualunque legge che limiti la libertà di espressione. I ragionevoli argini all’arbitrio e all’eccesso nell’uso di questi diritti sono ottenuti attraverso auto-limitazioni. Come sappiamo da Hollywood, dove per le pellicole con temi sessuali si producono una versione europea ed una americana, castigata. Con la diffusione del “politicamente corretto”, l’informazione degli Stati Uniti si è poi auto-imposta dei limiti nei confronti delle minoranze: afro-americani, omosessuali, disabili vengono presentati facendo attenzione a separare la critica dalla condizione di appartenente a quel gruppo. Si scriverà: il ladro che ha commesso furto, non il ladro “latino”, anche se è tale e se il giornalista odia i latinos.
Cosa fa chi critica senza porsi limiti? Chi provoca dovrebbe dichiarare il proprio scopo e assumersene i costi. La provocazione è tale perché contiene un volontario eccesso espressivo, che ho già cercato di analizzare nel breve saggio La morte del prossimo. La provocazione ripetuta perde il suo effetto critico: le caricature di Maometto si ripetono, talvolta senza neppure variazioni, da dieci anni (lo Jyllands-Posten le pubblicò per la prima volta nel 2005). Sembrano diventate un braccio di ferro, un fatto personale: Vuoi impedirmi di ripetere le vignette? E io invece insisto. Alla fine “provoca” un risultato opposto: non solo non è più novità ma, come è accaduto negli anni ’60 e ’70, può ritorcersi contro gli autori. Qualcosa di simile sembra essere avvenuto con le vignette di Charlie. Il settimanale fa satira con potenziale politico. Ma qual è il programma che propone, o semplicemente sottintende, offendendo le immagini dell’Islam, ridicolizzandole in sé e per sé? La satira, si dice giustamente, è benefica perché esercita alla critica dei potenti. Charlie non fa satira contro i disabili. Anche i cinque milioni di musulmani, però, non sono un settore potente ma debole della società francese. Dei due fratelli che hanno commesso la strage, uno lavorava saltuariamente come fattorino di pizze, l’altro era iscritto alle liste disoccupati. È giusta una satira contro i deboli, che si sentono derisi non in quanto commettano azioni criticabili ma proprio in quanto appartenenti a un’altra cultura, ad altri valori, a un’altra religione? All’Islam sono finora mancati i vantaggi dell’Europa e oltre sei secoli di elaborazione storica rispetto al cristianesimo (per non parlare dell’ebraismo che ha millenni in più). Neppur troppo tempo fa, anche i cristiani mandavano a morte i “sacrileghi”. Gli spagnoli diedero all’inca Atauhalpa una Bibbia invitandolo (come oggi fanno i fondamentalisti islamici) ad ascoltarla e convertirti: siccome né il testo parlava, né lui sapeva leggere, l’inca lo buttò da parte. I rappresentanti della civiltà e del cristianesimo ne ricavarono un utile pretesto per massacrare lui e i suoi.
Invocare la libertà di espressione totale, di tipo americano, è quello che fanno i dimostranti con le matite alzate. Un rito commovente, ma che serve come rassicurazione reciproca all’interno della società francese ferita: mentre non serve, o addirittura è negativo, rispetto ai complessi equilibri tra le culture. Invocare una libertà di espressione assoluta, di tipo americano, ha senso quando si applica fino in fondo il modello americano: che include l’auto-limitazione per non offendere determinati settori della società. Un rito politico e mediatico nato dal Primo Emendamento, del 1791. Per il momento non ha funzionato non solo in Francia (figuriamoci in Italia), ma neppure in Danimarca, dove il maggior quotidiano di destra (lo Jyllands-Posten) fu il primo a pubblicare vignette satiriche su Maometto: per poi chiedere scusa con un editoriale alcuni mesi dopo. Una cultura che negli Stati Uniti ha oltre due secoli non può essere importata dall’oggi al domani: eppure, l’auto-responsabilizzazione e una certa dose di auto-censura sono strade da praticare se vogliamo sopravvivere in una società multietnica. Con la strage delle Torri Gemelle Susan Sontag scrisse che l’America aveva perso l’innocenza. Anche l’evento di Parigi corrisponde a una perdita di candore da parte del bianco frutto europeo, circondato dalla buccia scura delle periferie islamiche. Noi viviamo in un ottimismo occidentale, mercantile, ormai americano. La psicologia collettiva ha sempre un contrappeso nascosto: laici senza Dio, non siamo più abituati a credere al male. Le organizzazioni fondamentaliste avevano preannunciato le loro intenzioni: eppure, quando i sacrifici umani si compiono, la mente europea è raggiunta di sorpresa. Era avvenuto con Hitler, che aveva anticipato le sue aggressioni nel Mein Kampf, ma non fu creduto.
I proclami fanatici dischiudono culture diverse, ma non sempre per il peggio. Dagli archivi di polizia sui due fratelli attentatori apprendiamo che sul lavoro non stringevano la mano alle donne, che in tribunale non si alzavano in piedi se il giudice era femmina. Anche questo ha una controfaccia nascosta. Una sopravvissuta della redazione di Charlie si è stupita di essere viva. Le hanno puntato addosso il Kalashnikov, ma hanno aggiunto: Noi non uccidiamo le donne. Ma tu devi leggere il Corano. Più tragicamente si è stupito un suo collega: Ai primi spari, ha detto, pensavamo fosse il solito scherzo. Dai mortaretti si è passati ai morti. Noi europei sorridiamo, finché le nostre lacrime non dimostrano a noi stessi il contrario (è avvenuto con la ministro Fornero). Berlusconi faceva le corna nelle foto ufficiali. Hollande – meno volontariamente, ma facendo ridere di più – si è fatto fotografare nascosto dal casco, mentre sul sellino posteriore di uno scooter se la svignava dalla presidenza per una scappatella. Molti immigrati islamici non vogliono integrarsi né ridere con gli europei perché sono convinti – non sempre infondatamente – di avere nella borsa meno soldi ma più dignità.
Con la nuova copertina di Charlie – dove Maometto piange – si cerca di non separare più la coesistenza di lacrime e sorriso, umana e psicologicamente vera. Ma anche questa, dovremmo temere, è una considerazione postilluminista, quasi psicoanalitica: sorda, per quel mussulmano naufrago che ha trovato una zattera nella Jihad. Per molti islamici continuerà lo scandalo. Che non consiste, va notato, nel rappresentare il profeta in sé, ma nel farne caricatura. È un “sacrilegio” che sta allargando la sua diffusione: Charlie normalmente vende 60.000 copie, ma il nuovo numero è arrivato di colpo a tre milioni; e ci si sta attrezzando per tirarne cinque. Serve davvero la loro diffusione? Tre, cinque milioni di offese a una religione sentita come diversa sono come altrettanti nuovi voti alla destra estrema. Sono scelte in favore del minaccioso “scontro di civiltà” di cui, dopo qualche anno di pausa, ora si tornerà a parlare. Significano credere a una contrapposizione tra Cristianità e Islam che trabocca in guerra civile dei monoteismi.
Questo testo è uscito in versione breve su il Venerdì di la Repubblica.
http://www.doppiozero.com/materiali/commenti/scontri-di-civilta
CARLO GINZBURG: “FRANCESCO ORLANDO FRA LA SICILIA E FREUD”. Oggi e domani a Parigi due incontri sul critico e francesista. Ne parla il suo amico Carlo Ginzburg
di Fabio Gambaro, repubblica.it, 18 febbraio 2015
“L’opera di Francesco Orlando è straordinariamente ricca: la sua fortuna internazionale sta appena cominciando “. Carlo Ginzburg, che dell’autore di Per una teoria freudiana della letteratura fu molto amico, lo ribadirà oggi all’Istituto Italiano di Cultura di Parigi, dove, insieme ad Antoine Compagnon, Paolo Tortonese e Luca Pietromarchi, ricorderà il francesista e critico scomparso quasi cinque anni fa. “Al centro degli studi di Orlando c’è quella che lui, appassionato di Wagner, definì la sua “tetralogia freudiana”, i quattro libri dedicati a una teoria della letteratura ispirata a Freud”, spiega Ginzburg, che il giorno dopo, alla Sorbona, farà una lezione sul Gattopardo letto da Orlando.
Per continuare:
http://www.repubblica.it/cultura/2015/02/18/news/carlo_ginzburg_francesco_orlando_fra_la_sicilia_e_freud-107637084/
Per continuare:
http://www.repubblica.it/cultura/2015/02/18/news/carlo_ginzburg_francesco_orlando_fra_la_sicilia_e_freud-107637084/
OMOSESSUALITÀ: FREUD E LA PASTORALE. Sigmund Freud e l’omosessualità. La lettera ritrovata che svela il suo pensiero: “Non c’è niente di cui vergognarsi”
di Redazione, huffingtonpost.it, 19 febbraio 2015
Nel 1935, Sigmund Freud scrisse una lettera di risposta a una madre che gli aveva chiesto aiuto per il figlio gay. Nonostante le percezioni più ampie sull’omosessualità a quel tempo Freud aveva un approccio diverso: “Non c’è nulla di cui vergognarsi”, scriveva alla donna. “Deduco dalla tua lettera che tuo figlio è omosessuale. Sono molto colpito dal fatto che non utilizzi questo termine quando dai informazioni su di lui. Posso chiedere perché lo eviti?” scrive Freud. “L’omosessualità non è di certo un vantaggio, ma non c’è nulla di cui vergognarsi, non è un vizio, non è degradante, non può essere classificata come una malattia, riteniamo che sia una variazione della funzione sessuale, prodotta da un arresto dello sviluppo sessuale. Molti individui altamente rispettabili di tempi antichi e moderni sono stati omosessuali, molti dei quali sono stati grandi uomini”. Questa corrispondenza getta una luce sulle opinioni personali di Freud: è noto da tempo che non considerava l’omosessualità come una patologia. Credeva che tutti nascessero bisessuali e più tardi si orientassero verso l’etero o l’omosessualità. Nella lettera, Freud suggerisce che una “terapia” per trattare l’omosessualità può essere possibile, ma dice che il risultato “non può essere previsto”. La lettera è attualmente esposta a Londra nell’ambito della mostra alla Wellcome Collection.
Ecco il testo integrale:
Cara signora,
deduco dalla sua lettera che suo figlio è omosessuale. Sono molto colpito dal fatto che non usi mai questo termine nel darmi le informazioni su di lui. Posso chiedere perché lo evita? L’omosessualità non è certo un vantaggio, ma non c’è nulla di cui vergognarsi, non è un vizio, non è degradante; non può essere classificata come una malattia; riteniamo che sia una variazione della funzione sessuale, prodotta da un arresto dello sviluppo sessuale. Molti individui altamente rispettabili di tempi antichi e moderni erano omosessuali, tra di loro c’erano grandi uomini. (Platone, Michelangelo, Leonardo da Vinci, ecc).
È una grande ingiustizia perseguitare l’omosessualità come un crimine – e anche una crudeltà. Se non mi credete, leggete i libri di Havelock Ellis. Mi chiede se posso aiutarla, intendendo dire, suppongo, se posso sopprimere l’omosessualità e fare in modo che al suo posto subentri l’eterosessualità. La risposta è, in linea generale, che non posso promettere che questo accada.
In un certo numero di casi riusciamo a sviluppare i semi degradati delle tendenze eterosessuali, che sono presenti in ogni omosessuale, ma nella maggior parte dei casi non è più possibile. Dipende dal tipo e dall’età dell’individuo. Il risultato del trattamento non può essere previsto. Quello che l’analisi può fare per suo figlio è un’altra cosa. Se lui è infelice, nevrotico, lacerato da conflitti, inibito nella sua vita sociale, l’analisi può portargli armonia, pace della mente, piena efficienza, sia che rimanga un omosessuale, sia che diventi eterosessuale. Se si decide, può fare l’analisi con me – non mi aspetto che lo farete – lui deve venire a Vienna. Non ho alcuna intenzione di spostarmi da qui. Tuttavia, non trascurate di darmi una risposta.
Cordiali saluti con i migliori auguri,
Freud
Post Scriptum
Non ho trovato difficoltà a leggere la sua scrittura. Spero che non troverete la mia scrittura e il mio inglese difficile da leggere.
http://www.huffingtonpost.it/2015/02/19/sigmund-freud-lettera-omosessualita_n_6713954.html
Ecco il testo integrale:
Cara signora,
deduco dalla sua lettera che suo figlio è omosessuale. Sono molto colpito dal fatto che non usi mai questo termine nel darmi le informazioni su di lui. Posso chiedere perché lo evita? L’omosessualità non è certo un vantaggio, ma non c’è nulla di cui vergognarsi, non è un vizio, non è degradante; non può essere classificata come una malattia; riteniamo che sia una variazione della funzione sessuale, prodotta da un arresto dello sviluppo sessuale. Molti individui altamente rispettabili di tempi antichi e moderni erano omosessuali, tra di loro c’erano grandi uomini. (Platone, Michelangelo, Leonardo da Vinci, ecc).
È una grande ingiustizia perseguitare l’omosessualità come un crimine – e anche una crudeltà. Se non mi credete, leggete i libri di Havelock Ellis. Mi chiede se posso aiutarla, intendendo dire, suppongo, se posso sopprimere l’omosessualità e fare in modo che al suo posto subentri l’eterosessualità. La risposta è, in linea generale, che non posso promettere che questo accada.
In un certo numero di casi riusciamo a sviluppare i semi degradati delle tendenze eterosessuali, che sono presenti in ogni omosessuale, ma nella maggior parte dei casi non è più possibile. Dipende dal tipo e dall’età dell’individuo. Il risultato del trattamento non può essere previsto. Quello che l’analisi può fare per suo figlio è un’altra cosa. Se lui è infelice, nevrotico, lacerato da conflitti, inibito nella sua vita sociale, l’analisi può portargli armonia, pace della mente, piena efficienza, sia che rimanga un omosessuale, sia che diventi eterosessuale. Se si decide, può fare l’analisi con me – non mi aspetto che lo farete – lui deve venire a Vienna. Non ho alcuna intenzione di spostarmi da qui. Tuttavia, non trascurate di darmi una risposta.
Cordiali saluti con i migliori auguri,
Freud
Post Scriptum
Non ho trovato difficoltà a leggere la sua scrittura. Spero che non troverete la mia scrittura e il mio inglese difficile da leggere.
http://www.huffingtonpost.it/2015/02/19/sigmund-freud-lettera-omosessualita_n_6713954.html
CONIUGARE AMORE GAY E FEDE: LIBRO CHOC DI DUE STUDIOSI PADOVANI. Beatrice Brogliato e Damiano Migliorini hanno pubblicato il saggio “L’amore omosessuale” in cui si dimostra che i fedeli cattolici sono pronti al cambio di passo
di Redazione, mattinopadova.gelocal.it, 19 febbraio 2015
Potrebbe essere un testo rivoluzionario. Un libro che fornisce le basi psicoanalitiche e teologiche per il riconoscimento dell’amore omosessuale nella Chiesa. È il testo che Beatrice Brogliato e Damiano Migliorini, psicoanalista la prima e filosofo-teologo il secondo, entrambi laureati a Padova, hanno pubblicato per “Cittadella Editrice”. Il saggio si intitola “L’amore omosessuale. Saggi di psicoanalisi, teologia e pastorale. In dialogo per una nuova sintesi”, ed è una voluminosa opera sul tema cardine del Sinodo sulla Famiglia in programma per il prossimo ottobre. Un testo inedito destinato a far discutere, soprattutto per i destinatari a cui si rivolge, i padri sinodali e Papa Francesco, a cui è dedicata l’opera. Pur rimanendo pienamente all’interno delle categorie morali della Chiesa, nel saggio si incontrano nuove proposte e nuove analisi che coinvolgono diverse discipline, dalla psicoanalisi alla teologia, alla pastorale, ma anche storia, filosofia, sociologia, antropologia e biologia. Si tratta della più aggiornata sintesi tra le pubblicazioni esistenti, un testo unico e dirompente nel panorama cattolico, per la sua completezza e ampiezza di analisi.
A confermare la scientificità della proposta, sono le introduzioni di due autori noti a livello nazionale, Paolo Rigliano per la parte psicoanalitica e Giannino Piana per la parte teologica. L’intento degli autori è di lasciarsi interrogare dall’amore omosessuale, compresa la sfera dell’erotismo, in tutta la sua complessità e integralità. Una prospettiva nuova, soprattutto in ambito cattolico, ma anche psicoanalitico. Il testo vuole aprire un dibattito pacato, serio e senza polemiche, che sappia abbattere le barriere ideologiche che ancor oggi impediscono al mondo omosessuale e a quello cattolico di parlarsi senza scontrarsi. Con questo spirito, il testo è stato inviato a numerosi vescovi e cardinali italiani, per dar vita con loro a un fecondo dialogo, nella speranza che possano portare le istanze del mondo omosessuale nell’assemblea sinodale.
Ciò che distingue questa opera dalle precedenti pubblicazioni sul tema, è l’analisi di questionari somministrati dagli autori nelle parrocchie della provincia di Vicenza durante incontri formativi tenuti prima della pubblicazione. Dai dati raccolti emerge un quadro del tutto inedito della chiesa, che apre numerosi interrogativi e fornisce spunti di riflessione importanti al Sinodo sulla Famiglia in programma quest’anno: i fedeli cattolici, soprattutto nelle fasce più giovani, sembrano pronti ad un cambio di passo, verso un’accoglienza piena e serena delle relazioni omosessuali come forma positiva d’amore. Una risposta indiretta alle famose domande poste dal Papa ai fedeli in vista del Sinodo. Un libro che si rivolge alla Chiesa, per aprire un dialogo durante il Sinodo, che finora sulla pastorale rivolta alle persone omosessuali non sembra intenzionato a perseguire aggiornamenti di rilievo. La parte pastorale del libro, allora, si armonizza perfettamente con le intenzioni del Sinodo, ed è d’avanguardia, secondo alcuni commentatori.
http://mattinopadova.gelocal.it/padova/cronaca/2015/02/19/news/coniugare-amore-gay-e-fede-libro-choc-di-due-studiosi-padovani-1.10897384
A confermare la scientificità della proposta, sono le introduzioni di due autori noti a livello nazionale, Paolo Rigliano per la parte psicoanalitica e Giannino Piana per la parte teologica. L’intento degli autori è di lasciarsi interrogare dall’amore omosessuale, compresa la sfera dell’erotismo, in tutta la sua complessità e integralità. Una prospettiva nuova, soprattutto in ambito cattolico, ma anche psicoanalitico. Il testo vuole aprire un dibattito pacato, serio e senza polemiche, che sappia abbattere le barriere ideologiche che ancor oggi impediscono al mondo omosessuale e a quello cattolico di parlarsi senza scontrarsi. Con questo spirito, il testo è stato inviato a numerosi vescovi e cardinali italiani, per dar vita con loro a un fecondo dialogo, nella speranza che possano portare le istanze del mondo omosessuale nell’assemblea sinodale.
Ciò che distingue questa opera dalle precedenti pubblicazioni sul tema, è l’analisi di questionari somministrati dagli autori nelle parrocchie della provincia di Vicenza durante incontri formativi tenuti prima della pubblicazione. Dai dati raccolti emerge un quadro del tutto inedito della chiesa, che apre numerosi interrogativi e fornisce spunti di riflessione importanti al Sinodo sulla Famiglia in programma quest’anno: i fedeli cattolici, soprattutto nelle fasce più giovani, sembrano pronti ad un cambio di passo, verso un’accoglienza piena e serena delle relazioni omosessuali come forma positiva d’amore. Una risposta indiretta alle famose domande poste dal Papa ai fedeli in vista del Sinodo. Un libro che si rivolge alla Chiesa, per aprire un dialogo durante il Sinodo, che finora sulla pastorale rivolta alle persone omosessuali non sembra intenzionato a perseguire aggiornamenti di rilievo. La parte pastorale del libro, allora, si armonizza perfettamente con le intenzioni del Sinodo, ed è d’avanguardia, secondo alcuni commentatori.
http://mattinopadova.gelocal.it/padova/cronaca/2015/02/19/news/coniugare-amore-gay-e-fede-libro-choc-di-due-studiosi-padovani-1.10897384
“MATRIMONI GAY? COME L’ISIS”. LA DICHIARAZIONE CHOC IN AULA. Bagarre in Commissione Giustizia con le associazioni in difesa della famiglia. C’è chi indica il pericolo che la legge possa riconoscere anche “unioni multiple o fra specie diverse” e addirittura chi la paragona “all’Isis”. I senatori Monica Cirinnà e Sergio Lo Giudice si alzano e se ne vanno
di Simone Alliva, espresso.repubblica.it,19 febbraio 2015
Si sono alzati in piedi, hanno girato le spalle alle associazioni in difesa per la famiglia e hanno abbandonato l’aula a metà discussione. È quello che hanno fatto in Commissione Giustizia i senatori Monica Cirinnà e Sergio Lo Giudice, durante l’ultima audizione per la nuova legge sulle unioni civili. Giovedì scorso erano state ascoltate le associazioni Lgbt e oggi su iniziativa del senatore Ncd, Carlo Giovanardi, è stato il turno delle associazioni in difesa per la famiglia tradizionale. Tra queste il Moige, Manif Pour Touis Italia e Comitati Sì alla Famiglia. Secondo quanto twittato dal deputato di Forza Italia, Lucio Malan, sarebbe stata la frase della dottoressa Dina Nerozzi, medico psichiatra, ad offendere la relatrice del ddl Cirinnà e il primo firmatario Sergio Lo Giudice: “Va chiarito che cosa vuol dire “vincolo affettivo” – avrebbe dichiarato la rappresentante dell’associazione Comitato Articolo 26. Io ho affetto per il mio cane ma che significa?”.
Per continuare:
http://espresso.repubblica.it/palazzo/2015/02/19/news/io-ho-affetto-per-il-mio-cane-ma-che-significa-e-i-pd-abbandonano-l-aula-1.200308
Per continuare:
http://espresso.repubblica.it/palazzo/2015/02/19/news/io-ho-affetto-per-il-mio-cane-ma-che-significa-e-i-pd-abbandonano-l-aula-1.200308
SADICI DI TUTTO IL MONDO UNITEVI, IL GRIDO DI QUESTI TEMPI. Cinquanta sfumature di Grigio, film brutto, è però un’indagine sociologia e politica sullo stato del godimento della società attuale che mira alla ricchezza ostentata e a qualche sculacciata. Triste specchio dei tempi che viviamo, tempi di decapitazioni di fanatici religiosi non come nella gloriosa Francia della Rivoluzione francese, della ghigliottina, delle grandi ideologie, degli scritti di Kant e del Marchese de Sade
di Virginia Zullo, daringtodo, 20 febbraio 2015
“Io non faccio l’amore, io scopo e scopo forte”, dice il giovane miliardario Christian Grey, faccia da bamboccio deficiente, mezzo strabico, mani brutte, dita corte, alla giovane giornalista Anastasia Steele che lo incontra per fargli un’intervista, nel film campione d’incassi Cinquanta sfumature di grigio, diretto, male, da Sam Taylor-Johnson e scritto ancora peggio da Kelly Marcel, Patrick Marber, Mark Bombarck. Del resto essendo tratto dal pessimo romanzo Cinquanta sfumature di grigio (Fifty Shades of Grey), dove la scrittura è inesistente, la sceneggiatura del film non poteva che rispecchiare il vuoto e la superficialità stilistica del romanzo. Parlare di stile per Cinquanta sfumature di grigio è fuori luogo, il film è inconsistente, trama banale, attori pessimi e senza fascino. Unico pregio del film che ha evidentemente attecchito sull’immaginario degli spettatori sono gli esterni (vedute da elicottero) e l’interno della casa del super miliardario Christian Grey, che gira con il suo “elicotterino” privato con tanto di nome stampato, ha una cabina armadio favolosa, tonalità rigorosamente sul grigio, e un enorme super attico con vetrate e vista strepitosa su Seattle.
Il magico e folle mondo del cinema smaschera spesso l’immaginario corrente e dimostra che talvolta basta un appartamento favoloso e qualche sculacciata sul sedere per fare incassare solo nel primo weekend 8,4 milioni di euro (con 1 milione 143 mila spettatori). Il film esce appositamente, operazione geniale della Universal, nel weekend di San Valentino e tutti ci cascano… Di sesso se ne vede ben poco e quel poco è girato male e fatto altrettanto peggio, molto brutti i seni della protagonista l’attrice Dakota Johnson, mosci nonostante la giovane età che richiederebbe il turgore e peraltro anche piccoli, roba non certo da buon gustai. Nella stanza dei giochi del protagonista, fruste frustini e manette saranno usati ben poco e male e dopo qualche sculacciata, anche quelle poche, se ne contano all’incirca quattro o cinque in tutto il film (per un film a sfondo sado-maso sono veramente niente), la giovane e per nulla sexy Anastasia Steele si accontenta di qualche cunnilingus e teneri baci, insomma roba da educande. A parte qualche polso legato e una mascherina grigia anche quella banalissima, di sfrenatamente erotico non c’è nulla. Almeno sulla mascherina potevano avere un po’ di fantasia; ve ne sono davvero di belle, di pizzo, raffinatissime ed eleganti, da abbinare alla lingerie, in tono con le Guêpière e i reggicalze. Insomma neanche qualche raffinatezza nella scelta dell’intimo e dunque viene da chiedersi: ma che razza di dominatore miliardario è Christian Grey che benda la tua sottomessa con un pezzo di stoffa grigia o al massimo con le sue tristi cravatte grigie? Insieme alla produttrice cinematografica italiana Donatella Botti, ci domandavamo il motivo di tanto successo, banalmente si potrebbe ammettere che le donne di oggi sono delle represse a cui basta qualche sculacciata, un viaggio su un elicottero personale, un super attico da sogno e un’auto di lusso come regalo di laurea per perdere la testa. Tutte escort represse le donne che hanno comprato l’intera trilogia di Cinquanta sfumature di grigio, Cinquanta sfumature di nero e Cinquanta sfumature di rosso di E. L. James, che ha venduto oltre 100 milioni di copie in tutto il mondo? Tutte aspiranti sottomesse con natiche pronte all’uso le mogli e le fidanzate che a San Valentino hanno trascinato i malcapitati al cinema? E gli uomini? Anche loro a sognare di possedere un garage pieno di Ferrari, Porsche e Lamborghini, di girare in elicottero, atterrare sul mega terrazzo del proprio attico e avere una stanza tutta rossa, lettone compreso, dove praticare qualche giochino erotico? Che povertà, non quella materiale, perché nel film non si fa che ostentare ricchezza, ma di fantasia. Non è il genere che preferisco ma un porno soft non fa mai male nella vita, purtroppo Cinquanta sfumature di grigio non è neanche un porno soft, insomma scordatevi gli eccitantissimi e ben girati film di Tinto Brass, per giocare in casa nostra, e almeno che non ci andiate muniti di Viagra, sarà anche difficile concedersi qualche erezione.
Per continuare:
http://www.daringtodo.com/lang/it/2015/02/20/sadici-di-tutto-il-mondo-unitevi-il-grido-di-questi-tempi/
Il magico e folle mondo del cinema smaschera spesso l’immaginario corrente e dimostra che talvolta basta un appartamento favoloso e qualche sculacciata sul sedere per fare incassare solo nel primo weekend 8,4 milioni di euro (con 1 milione 143 mila spettatori). Il film esce appositamente, operazione geniale della Universal, nel weekend di San Valentino e tutti ci cascano… Di sesso se ne vede ben poco e quel poco è girato male e fatto altrettanto peggio, molto brutti i seni della protagonista l’attrice Dakota Johnson, mosci nonostante la giovane età che richiederebbe il turgore e peraltro anche piccoli, roba non certo da buon gustai. Nella stanza dei giochi del protagonista, fruste frustini e manette saranno usati ben poco e male e dopo qualche sculacciata, anche quelle poche, se ne contano all’incirca quattro o cinque in tutto il film (per un film a sfondo sado-maso sono veramente niente), la giovane e per nulla sexy Anastasia Steele si accontenta di qualche cunnilingus e teneri baci, insomma roba da educande. A parte qualche polso legato e una mascherina grigia anche quella banalissima, di sfrenatamente erotico non c’è nulla. Almeno sulla mascherina potevano avere un po’ di fantasia; ve ne sono davvero di belle, di pizzo, raffinatissime ed eleganti, da abbinare alla lingerie, in tono con le Guêpière e i reggicalze. Insomma neanche qualche raffinatezza nella scelta dell’intimo e dunque viene da chiedersi: ma che razza di dominatore miliardario è Christian Grey che benda la tua sottomessa con un pezzo di stoffa grigia o al massimo con le sue tristi cravatte grigie? Insieme alla produttrice cinematografica italiana Donatella Botti, ci domandavamo il motivo di tanto successo, banalmente si potrebbe ammettere che le donne di oggi sono delle represse a cui basta qualche sculacciata, un viaggio su un elicottero personale, un super attico da sogno e un’auto di lusso come regalo di laurea per perdere la testa. Tutte escort represse le donne che hanno comprato l’intera trilogia di Cinquanta sfumature di grigio, Cinquanta sfumature di nero e Cinquanta sfumature di rosso di E. L. James, che ha venduto oltre 100 milioni di copie in tutto il mondo? Tutte aspiranti sottomesse con natiche pronte all’uso le mogli e le fidanzate che a San Valentino hanno trascinato i malcapitati al cinema? E gli uomini? Anche loro a sognare di possedere un garage pieno di Ferrari, Porsche e Lamborghini, di girare in elicottero, atterrare sul mega terrazzo del proprio attico e avere una stanza tutta rossa, lettone compreso, dove praticare qualche giochino erotico? Che povertà, non quella materiale, perché nel film non si fa che ostentare ricchezza, ma di fantasia. Non è il genere che preferisco ma un porno soft non fa mai male nella vita, purtroppo Cinquanta sfumature di grigio non è neanche un porno soft, insomma scordatevi gli eccitantissimi e ben girati film di Tinto Brass, per giocare in casa nostra, e almeno che non ci andiate muniti di Viagra, sarà anche difficile concedersi qualche erezione.
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IN DIALOGO CON BENASAYAG PER PARLARE DI GIOVANI E VECCHI. Il trentino Riccardo Mazzeo si confronta col grande psicanalista e filosofo argentino Il libro, pubblicato da Erickson, ha un titolo provocatorio: “C’è una vita prima della morte?”
di Carlo Martinelli, trentinocorrierealpi.gelocal.it, 20 febbraio 2015
Le etichette, talvolta, lasciano il tempo che trovano. Così a Riccardo Mazzeo sta decisamente stretta la definizione di editor, ruolo che pure gli compete nella squadra delle edizioni Erickson. Ormai trentino a tutti gli effetti (ed affetti), Mazzeo è infatti prima di ogni altra cosa un intellettuale. Colto, raffinato, aggiornato, sempre in movimento: un uomo benevolmente posseduto dalla febbre dell’editoria, certo, ma anche capace di tessere sodalizi di pensiero di prim’ordine.
L’ultimo – ma solo in ordine cronologico, ché già il nostro sta lavorando a nuove intraprese – è un libro destinato, come i precedenti che ha curato, a conoscere traduzioni e riconoscimenti. Già. Perché dopo aver firmato con un certo Zygmunt Bauman le “Conversazioni sull’educazione”, dopo averci regalato una nuova traduzione di un classico del pensiero quale “L’uomo e la morte” di Edgar Morin, adesso Riccardo Mazzeo firma con Miguel Benasayag un testo tanto agile quanto intrigante, fulminante fin dal titolo: “C’è una vita prima della morte?” (ovviamente edizioni Erickson, 134 pagine, 15 euro).
Attenzione: il libro non parla solo, come suggerisce l’ultima di copertina, di come è cambiato, nell’Occidente contemporaneo, il modo di vivere l’età anziana. Si sa: in passato, un «vecchio» era immagine autorevole cui guardare con rispetto e da cui cercare esempio e ispirazione. Oggi, invece, l’età dei legami fluidi e dei rapporti virtuali genera persone che invecchiano senza diventare anziane, e le costringe a scegliere tra le opzioni — egualmente svalutanti — di abdicare al proprio ruolo di guida pagando il prezzo dell’esclusione sociale o di imitare i ragazzi in una deriva di ridicolo giovanilismo. D’altro canto, alla negazione dell’età anziana corrisponde in modo speculare lo smarrimento di quella giovanile, sempre meno in grado di riconoscere il proprio desiderio, formattata dalla società dei consumi e incapace di assumere le reali possibilità della propria giovinezza.
Su questo, sui cicli di vita snaturati, sulle modalità di restituire un senso al presente si muove il dialogo tra Miguel Benasayag, filosofo e psicanalista di fama internazionale, autore del best-seller “L’epoca delle passioni tristi” e Riccardo Mazzeo.
Il loro dialogo, infatti – ventidue capitoli, un botta e risposta lucido ed appassionato che spazia dalla perdita dei cicli di vita all’abitare il presente, dal bisogno di conservare la dignità negli anziani al riconoscimento di un’epoca che ha perso il senso del tragico – è anche squisitamente politico, con giudizi netti e taglienti, ad esempio sui cattivi maestri che mandano gli altri a mimare rivoluzioni impossibili.
Certamente in questo si riverbera la biografia dell’argentino Miguel Benasayag, classe 1953, studente di medicina, militante nella guerriglia guevarista al tempo dei generali golpisti ed assassini. Tre volte arrestato, torturato fin quasi a morire, detenuto per molti anni. Solo grazie alla doppia nazionalità (la madre, ebrea francese, aveva lasciato Parigi nel 1939) venne liberato e approdò proprio in Francia, dove – libro dopo libro, conferenza dopo conferenza – è diventato uno dei filosofi e psicanalisti più conosciuti, all’insegna di una radicalità libera, non intrisa di ideologia.
Ed è dunque anche la sua esperienza che ritorna, qua e là, nella densa conversazione con Mazzeo. Dove fanno capolino Clint Eastwood e Mauro Marcantoni, Toni Negri e Google, il panopticon e l’epistemologia /biologia, Simone de Beauvoir e la demografia, Hegel e cosa vuol dire essere di sinistra o di destra, Frankestein e la fantascienza, Matteo Renzi e Dino Buzzati, la medicalizzazione e la memoria. Insomma, un vertiginoso viaggio attraverso il pensiero e i pensieri, sullo sfondo di orizzonti mutevoli, fin troppo…
E così il dialogo attorno alla condizione degli anziani diventa prima di tutto il tentativo di rispondere – e Benasayag e Mazzeo mettono carne in quantità sul fuoco e, già che ci sono, vi gettano anche un po’ di benzina – a quello che nella presentazione suona stentoreo. Laddove si prendendo a prestito le parole dell’australiano Jeff Sparrow: “Tutto quello che temevamo con il comunismo – che avremmo perso la nostra casa, i nostri risparmi, che saremmo stati costretti a lavorare per salari da fame, senza nessuna voce in capitolo all’interno del sistema – è diventato realtà col capitalismo”. Ovvero: cosa è successo perché nel “migliore dei mondi possibili”, la democrazia nordamericana ed europea, la vita vera venisse progressivamente erosa e prevalessero l’adeguamento conformista e una lotta a coltello per la mera sopravvivenza?
http://trentinocorrierealpi.gelocal.it/tempo-libero/2015/02/20/news/in-dialogo-con-benasayag-per-parlare-di-giovani-e-vecchi-1.10907227
L’ultimo – ma solo in ordine cronologico, ché già il nostro sta lavorando a nuove intraprese – è un libro destinato, come i precedenti che ha curato, a conoscere traduzioni e riconoscimenti. Già. Perché dopo aver firmato con un certo Zygmunt Bauman le “Conversazioni sull’educazione”, dopo averci regalato una nuova traduzione di un classico del pensiero quale “L’uomo e la morte” di Edgar Morin, adesso Riccardo Mazzeo firma con Miguel Benasayag un testo tanto agile quanto intrigante, fulminante fin dal titolo: “C’è una vita prima della morte?” (ovviamente edizioni Erickson, 134 pagine, 15 euro).
Attenzione: il libro non parla solo, come suggerisce l’ultima di copertina, di come è cambiato, nell’Occidente contemporaneo, il modo di vivere l’età anziana. Si sa: in passato, un «vecchio» era immagine autorevole cui guardare con rispetto e da cui cercare esempio e ispirazione. Oggi, invece, l’età dei legami fluidi e dei rapporti virtuali genera persone che invecchiano senza diventare anziane, e le costringe a scegliere tra le opzioni — egualmente svalutanti — di abdicare al proprio ruolo di guida pagando il prezzo dell’esclusione sociale o di imitare i ragazzi in una deriva di ridicolo giovanilismo. D’altro canto, alla negazione dell’età anziana corrisponde in modo speculare lo smarrimento di quella giovanile, sempre meno in grado di riconoscere il proprio desiderio, formattata dalla società dei consumi e incapace di assumere le reali possibilità della propria giovinezza.
Su questo, sui cicli di vita snaturati, sulle modalità di restituire un senso al presente si muove il dialogo tra Miguel Benasayag, filosofo e psicanalista di fama internazionale, autore del best-seller “L’epoca delle passioni tristi” e Riccardo Mazzeo.
Il loro dialogo, infatti – ventidue capitoli, un botta e risposta lucido ed appassionato che spazia dalla perdita dei cicli di vita all’abitare il presente, dal bisogno di conservare la dignità negli anziani al riconoscimento di un’epoca che ha perso il senso del tragico – è anche squisitamente politico, con giudizi netti e taglienti, ad esempio sui cattivi maestri che mandano gli altri a mimare rivoluzioni impossibili.
Certamente in questo si riverbera la biografia dell’argentino Miguel Benasayag, classe 1953, studente di medicina, militante nella guerriglia guevarista al tempo dei generali golpisti ed assassini. Tre volte arrestato, torturato fin quasi a morire, detenuto per molti anni. Solo grazie alla doppia nazionalità (la madre, ebrea francese, aveva lasciato Parigi nel 1939) venne liberato e approdò proprio in Francia, dove – libro dopo libro, conferenza dopo conferenza – è diventato uno dei filosofi e psicanalisti più conosciuti, all’insegna di una radicalità libera, non intrisa di ideologia.
Ed è dunque anche la sua esperienza che ritorna, qua e là, nella densa conversazione con Mazzeo. Dove fanno capolino Clint Eastwood e Mauro Marcantoni, Toni Negri e Google, il panopticon e l’epistemologia /biologia, Simone de Beauvoir e la demografia, Hegel e cosa vuol dire essere di sinistra o di destra, Frankestein e la fantascienza, Matteo Renzi e Dino Buzzati, la medicalizzazione e la memoria. Insomma, un vertiginoso viaggio attraverso il pensiero e i pensieri, sullo sfondo di orizzonti mutevoli, fin troppo…
E così il dialogo attorno alla condizione degli anziani diventa prima di tutto il tentativo di rispondere – e Benasayag e Mazzeo mettono carne in quantità sul fuoco e, già che ci sono, vi gettano anche un po’ di benzina – a quello che nella presentazione suona stentoreo. Laddove si prendendo a prestito le parole dell’australiano Jeff Sparrow: “Tutto quello che temevamo con il comunismo – che avremmo perso la nostra casa, i nostri risparmi, che saremmo stati costretti a lavorare per salari da fame, senza nessuna voce in capitolo all’interno del sistema – è diventato realtà col capitalismo”. Ovvero: cosa è successo perché nel “migliore dei mondi possibili”, la democrazia nordamericana ed europea, la vita vera venisse progressivamente erosa e prevalessero l’adeguamento conformista e una lotta a coltello per la mera sopravvivenza?
http://trentinocorrierealpi.gelocal.it/tempo-libero/2015/02/20/news/in-dialogo-con-benasayag-per-parlare-di-giovani-e-vecchi-1.10907227
VIDEO
da Youtbe, liberi.tv, 17 febbraio 2015
“Il padre dov’era. Le omosessualità nella psicanalisi” – Giancarlo Calciolari legge Giancarlo Ricci
Loredana Micati a Sottovoce
di Redazione, rai.tv, 19 febbraio 2015
Vai al link:
http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-b604d876-d666-4a5b-b822-56baa6d5a01b.html
RepTv News, Vasco: “Altro che rockstar, volevo fare il dj e lo psicanalista”
di Luca Valtorta, video.repubblica.it, 20 febbraio 2015
Tutti conoscono bene il Vasco Rossi autore di successi come “Alba chiara” e “Vita spericolata”, ma pochi sanno della sua storia vera di dj e di analista mancato. Montaggio di Emanuelle Cedrangolo
http://video.repubblica.it/rubriche/reptv-news/reptv-news-vasco-altro-che-rockstar-volevo-fare-il-dj-e-lo-psicanalista/192774/191745
http://video.repubblica.it/rubriche/reptv-news/reptv-news-vasco-altro-che-rockstar-volevo-fare-il-dj-e-lo-psicanalista/192774/191745
I più recenti pezzi apparsi sui quotidiani di Massimo Recalcati e Sarantis Thanopulos sono disponibili su questo sito rispettivamente ai link:
http://www.psychiatryonline.it/rubrica/4545
http://www.psychiatryonline.it/rubrica/4788
(Fonte: http://rassegnaflp.wordpress.com)
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