Nel suo ultimo articolo su Repubblica Massimo Recalcati, abbandonando la disputa fra padri e figli sulla quale si esercita da tempo, ed entrando finalmente nel merito dei rapporti fra madri e figli si propone di delineare il nuovo profilo della “mamma Narciso”. E lo fa a partire da questo assunto:
“Il nostro tempo ci confronta con una radicale trasformazione di questa rappresentazione della madre: né bocca di coccodrillo né ragnatela adesiva né sacrificio masochistico né elogio della mortificazione di sé. Alla madre della abnegazione si è sostituita una nuova figura della madre che potremmo definire “narcisistica”. Si tratta di una madre che non vive per i propri figli, ma che vuole rivendicare la propria assoluta libertà e autonomia dai propri figli.” (IL TESTO COMPLETO E' PUBBLICATO SU POL.it, SEGUI IL LINK PER LEGGERLO)
Tutto il ragionamento che segue – che sicuramente nella sua forma risente delle presunte semplificazioni che il pubblico profano richiede – gioca su una sorta di confusione fra normalità e patologia e termina con questi due periodi:
“In essi [i quattro film dalla cui esegesi nascono le riflessioni di Recalcati] emerge una rappresentazione della maternità profondamente diversa, ma egualmente patologica, da quella imposta dalla cultura patriarcale. Si tratta di donne che vivono innanzitutto per la loro carriera e, solo secondariamente e senza grande trasporto, per i loro figli. In gioco è la rappresentazione inedita di una madre che rifiuta (giustamente) il prezzo del sacrificio rivendicando il diritto di una propria passione capace di oltrepassare l’esistenza dei figli e la necessità esclusiva del loro accudimento.
È il dilemma di molte madri di oggi. Il problema però non consiste affatto in quella rivendicazione (legittima e salutare anche per gli stessi figli), ma nell’incapacità di trasmettere ai propri figli la possibilità dell’amore come realizzazione del desiderio e non come il suo sacrificio mortifero. Se la maternità è vissuta come un ostacolo alla propria vita è perché si è perduta quella connessione che deve poter unire generativamente l’essere madre all’essere donna. Se c’è stato un tempo — quello della cultura patriarcale — dove la madre tendeva ad uccidere la donna, adesso il rischio è l’opposto; è quello che la donna possa sopprimere la madre.” (ivi)
Ebbene, il ragionamento di Recalcati, a nostro avviso, non sta né in cielo né in terra.
Non sta nel cielo della teoria, se non con forzature che tendono a confondere sia il desiderio attuale di maternità e le attuali rappresentazioni sociali della genitorialità tipiche della metropoli post-industriale, sia desideri e rappresentazioni sociali della fu società patriarcale, con le patologie vecchie e nuove riscontrabili in esse.
Non sta sul terreno della pratica, poiché rinuncia a fare un’analisi puntuale della situazione sociale in cui nascono le nuove imago di maternità (e di paternità): una situazione in cui – come cercheremo di mostrare – questi nuovi introietti, queste nuove rappresentazioni sociali devono fare i conti con il grande deficit di futuro cui il neoliberismo costringe le nuove madri ed i nuovi padri. E più in generale le nuove ed i nuovi giovani.
Partiamo dal desiderio attuale di maternità e di paternità. La Bick ci ha insegnato che le attese e le proiezioni che i prossimi genitori fanno sul bambino che sta per nascere (le fantasie condivise) già concorrono a determinare la singolarità del loro desiderio. Così come la collocazione della madre (e del padre) all’interno di una determinata cultura lo rendono cultural – specifico.
Tant’è vero che – come dice Marie Rose Moro – il primo dilemma di fronte al quale si trova la madre immigrata è l’insicurezza circa la cultura in cui inserire il proprio neonato: se quella di qui, o quella di lì. Oltre ovviamente a quello derivante dall’assenza "qui" di una rete (femminile) allargata che faccia da supporto e dia senso alla nascita.
Ora è vero che al fondo del problema c’è sempre il rischio che le angosce sottostanti a tutto il processo gestazione – parto – nascita deformino il desiderio e facciano emergere delle patologie: fagocitanti o rifiutanti, ci dice Recalcati.
Ma intanto dobbiamo constatare l’assenza nell’analisi di Recalcati di quelle angosce generate – ieri ed oggi, sia pure in forma diversa – nelle culture maschili circa ciò che i fantasmi della maternità rappresentano per i maschi, e la conseguente assenza di analisi delle manovre difensive che il faccia a vista della luna mette in piedi per difendersi dall’altra metà della luna, cioè ad esempio dal potere generativo femminile. E come l’insieme di queste manovre si riverberi poi sulle rappresentazioni sociali di maternità, condizionandole pesantemente[1].
E poi dobbiamo distinguere fra le varie forme di patologia e le varie difese sociali che ciascuna cultura elabora per contrastarle (fra i vari inconsci etnici e i vari caratteri etnici, direbbe Devereux). Cioè dobbiamo fare un’analisi più puntuale di quella propostaci da Recalcati.
La stessa cosa va fatta sul piano empirico, cioè sul piano della clinica e dell’analisi psicosociale. I dati che emergono dalla nostra pratica clinica confermano pienamente l’ipotesi che fa Pietropolli Charmet quando analizza il passaggio dalla famiglia etica a quella affettiva: da Edipo a Narciso, per l’appunto.
Nella famiglia etica sia le fantasie condivise connesse con l’attesa di un bambino, sia la holding e l’educazione erano contraddistinte dalla presenza di fantasmi collegati all’avvento di un essere, Edipo, originariamente in preda ad un vortice istintuale da domare. In quella affettiva invece Narciso già nelle fantasie condivise dei nuovi genitori si manifesta come un essere pieno di enormi pregi e grandi potenzialità che i genitori tendono ad assecondare e coltivare.
Si definiscono così due tipi di storia, due tipi di carattere, due tipi di destino[2]. Dove lo stesso passaggio dalla famiglia etica a quella affettiva non è dovuto al caso, ma è originato dall’ingresso dei luoghi più metropolitani del pianeta nella società consumista[3], e si è sviluppato a partire dalla seconda metà del secolo scorso attraverso varie fasi.
Per cui abbiamo una fase iniziale incentrata sull’assunzione da parte dei vari stati industriali dei modelli keynesiani di sviluppo e sulla nascita del welfare. Una fase successiva, che potremmo definire di apogeo, in cui si sviluppano le varie società del benessere. Ed una fase finale di crisi – che poi è quella in cui ci troviamo attualmente – che ha comportato un restringersi sempre più accentuato dei livelli di benessere e di welfare precedentemente conquistati.
Crisi che genera in tutti, ed in special modo nei nuovi adulti che si affacciano al mondo del lavoro ed all’area della loro potenziale genitorialità, la percezione più o meno acuta di trovarsi in una strada priva di futuro che uccide ogni forma di progettualità. Nei nuovi adulti, e cioè nelle nuove madri e nei nuovi padri, che in questo modo si trovano avviluppati all’interno di una contraddizione insanabile che da una parte li predispone a scorgere nei loro figli tutte le potenzialità che l’Ideale dell’Io da cui sono dominati infonde in loro; dall’altra a intravedere l'assenza attuale di futuro per essi, se solo riescano a squarciare lo schermo e ad andare oltre il Truman Show quotidiano che li opprime e conforma i loro sogni a quelli della pubblicità.
Contraddizione insanabile, e generatrice di grandi alienazioni e di grandi dolori, dove non è impossibile trovare quel profilo di donna in carriera che sopprime il proprio profilo di madre, cui evidentemente si riferisce Recalcati. Ma dove è molto più probabile trovare o un profilo di madre (e di padre), spesso tardivo nel suo emergere, collegato – come dicono i sociologi – a nuove concezioni della famiglia, che pur tuttavia continua a riempire il proprio Narciso con i propri sogni ed i propri desideri narcisistici, anche i più improbabili. Oppure un profilo più dolente che è costretto dalla crisi a vedere spegnersi ogni speranza su entrambi i piani delle riproduzione sociale: lavoro da una parte; vita di coppia e genitorialità dall’altra.
Insomma a noi pare che quando Recalcati descrive la madre Narciso, parli di un certo particolare tipo di donna e non delle donne; di un certo particolare tipo di madre, e non delle madri. Di quel residuo di donne in carriera che la crisi ha finora risparmiato, o forse prodotto; e non della maggior parte delle donne che svolgono lavori extradomestici sempre più precari, o che sono costrette a casa dalla disoccupazione.
Se lo facesse scoprirebbe da una parte che le angosce manifeste di queste donne derivano dalla constatazione che i servizi per l’infanzia, per gli anziani, etc. non ci sono, o sono sempre più cari, che questo deficit di servizi fa si che tutti i tipi di cura – e non solo l’allevamento delle prole – ricadano sulle loro spalle. Dall’altra che, nonostante ciò, il desiderio di maternità nella maggior parte di loro rimanga vivissimo. Persistenti le angosce derivanti dal timore di non essere feconde, e dolorosissima la constatazione di non esserlo.
Certo, si tratta spessissimo di un desiderio di diventare madri di uno o di una Narciso, esponendosi in quest’ultimo periodo al rischio di vedere vanificato questo desiderio narcisistico dalla crisi e dal conseguente deficit di mobilità verticale positiva. Certo, poi sulle angosce di non essere feconde interviene la scienza che agisce pesantemente ed in vari modi sulla fecondità femminile, deformandone e sconvolgendone i confini. Certo, stiamo progressivamente assistendo alla perdita di tutti i diritti legati alla maternità (vedi le lettere di licenziamento in bianco nel caso la lavoratrice donna rimanga incinta).
Ma, nonostante tutto questo renda molto difficile “trasmettere ai propri figli la possibilità dell’amore come realizzazione del desiderio e non come il suo sacrificio mortifero”, a nostro avviso le mamme Narciso, a modo loro, continuano ancora testardamente a cercare nuove strade che permettano loro di unire generativamente il proprio essere madre con il proprio essere donna.
il testo dell’articolo di
il testo dell’articolo di Massimo Recalcati è pubblicato nella sua Rubrica sulla Rivista
ecco il link diretto all’articolo: http://www.psychiatryonline.it/node/5532
Premettendo che sento
Premettendo che sento maggiore sintonia con le tesi di Recalcati, rispetto alle obiezioni di Angelini e Bertani, mi soffermo sulla conclusione dei due autori: “Ma, nonostante tutto questo renda molto difficile “trasmettere ai propri figli la possibilità dell’amore come realizzazione del desiderio e non come il suo sacrificio mortifero”, a nostro avviso le mamme Narciso, a modo loro, continuano ancora testardamente a cercare nuove strade che permettano loro di unire generativamente il proprio essere madre con il proprio essere donna.”
Mi viene spontanea una domanda: quale connessione vedono Angelini e Bertani tra la dimensione narcisistica (che oggi appare in certo modo ‘normalizzata’) e l’incidenza del figlicidio..? Domanda estensibile anche a Recalcati….
Mah, non è che oggi il
Mah, non è che oggi il narcisismo si sia ‘normalizzato’. Semmai, a mio avviso, si può dire che assistiamo oggi al prevalere di profili di personalità narcisistica dovute all’insieme delle trasformazioni avvenute nella ns società, e su queste a loro volta interagenti.
Il fatto che poi dentro di noi possa svilupparsi un narcisismo adulto, parente della saggezza (direbbe Kernberg) è un’altra cosa, che mi pare abbia a che fare col processo maturativo in qualsiasi società, o cultura.
Non so nulla sull’incidenza delle personalità narcisistiche sul figlicidio, che mi pare sia la vera tua domanda, Simonetta. Me ne sono occupato “di striscio” una sola volta per commentare, in occasione della scomparsa di Mariangela Melato, la Medea di Euripide (dalla Melato interpretata pochi mesi prima a Modena) e l’interpretazione del mito di Medea da parte di Christa Wolf, di cui sono un ammiratore, che in certi punti è una interessante rivisitazione di quel mito. Un testo – quello della Wolf – che ti consiglio di leggere, o di rileggere, cfr.: http://reggiofa.com/?p=1690 . Ciao! Dino A.