Una dama parigina nel mastello magnetizzato di Mesmer, disegno di fine ’700
IL MAGNETISMO DEL DOTTOR MESMER ANTENATO DELL’INCONSCIO DI FREUD. Torna il libro con cui Stefan Zweig riabilitò il medico tedesco facendone un anticipatore ignaro della psicanalisi
di Claudio Gallo, lastampa.it, 25 febbraio 2015
Se dite a qualcuno che ha lo sguardo mesmerico, magari intendendo fare un complimento, riceverete un’occhiata perplessa, c’è da giurarlo. Eppure, a cavallo fra il ’700 e l’800, ci fu un tempo in cui in Europa (il centro del mondo, allora) il dottor Franz Anton Mesmer era celebre quanto Malala oggi. Stimato medico tedesco, massone, viennese d’adozione, amico della famiglia Mozart, credette di scoprire il magnetismo animale: un’oscura forza vitale negli esseri e nelle cose, un flusso impalpabile che la medicina poteva piegare ai fini della guarigione. Dopo i primi entusiasmi e i primi dubbi, la scienza ufficiale screditò la scoperta, ma non riuscì a guastare la fama del suo artefice, non subito almeno. Ricco, divenne ricchissimo, si trasferì nella Parigi pre rivoluzionaria e conobbe un successo favoloso. Al picco della fortuna seguì la caduta a precipizio. Senza denaro, scacciato dalle capitali europee, finì a curare i contadini in un villaggio dell’accogliente Svizzera, mentre l’incendio napoleonico infuriava intorno. Morì vecchio e dimenticato nella sua Iznag, sul Lago di Costanza nel 1815. Napoleone aveva davanti i suoi ultimi cento giorni.
La vita straordinaria di Mesmer fu raccontata nel ’900 dalla prosa leggera e scintillante di Stefan Zweig. Lo scrittore austriaco cercò di riabilitare il grande magnetizzatore con un libro del 1931 dedicato a Einstein, Die Heilung durch den Geist (La guarigione attraverso lo spirito), dove Mesmer, Mary Baker-Eddy, la creatrice della Christian Science e Sigmund Freud sono legati da un filo rosso. Il libro fu subito tradotto in Italia da Lavinia Mazzucchetti, celebre germanista e antifascista, per Sperling e Kupfer. Il titolo italiano diventato L’anima che guarisce, sarà riproposto pari pari da e/o nel 2005. Proponendo un’altra variazione nella traduzione di «Geist», la più recente edizione in inglese fa: Mental Healers: Mesmer, Eddy and Freud (Guaritori mentali, etc.). Spirito, anima, mente: non resta che «cervello» nella scala dell’attualizzazione. Adesso Castelvecchi scorpora dalla vecchia e ancor ottima versione italiana la parte dedicata a Mesmer e propone un agile libretto. L’operazione non è nuova, l’editore Lucarini aveva pubblicato nel 1991 soltanto la parte dedicata a Freud. I collezionisti aspettano l’«a solo» italiano di Mary Baker-Eddy: se uscirà sotto una nuova egida, potranno avere un libro pubblicato a rate per tre tipi diversi.
Non c’è nulla di tenebroso nel Mesmer di Zweig, è un’omone buono e quadrato, innamorato delle sue scoperte, il successo non gli dà alla testa. Facile per noi ridere del suo «mastello della salute», colmo di benefica acqua magnetizzata, bisognerebbe guardarlo con gli occhi incantati del ’700. Paradossalmente, è uno scienziato che anticipa lo spirito positivistico di pochi decenni dopo. Saranno i suoi forsennati seguaci a travalicare il confine tra osservazione medica e delirio immaginativo. Mesmer lo aveva capito: «Nella leggerezza e nell’imprudenza di coloro che imitano il mio metodo sta la ragione di molti pregiudizi contro di me». Zweig ne fa un precursore di Freud, passando per la forza guaritrice della preghiera, predicata nell’800 da Mary Baker-Eddy in America. Inventando il magnetismo animale, Mesmer anticipa, pur inconsapevolmente, il potere dell’inconscio. La suggestione guariva i malati, non il magnetismo. Cos’erano, argomenta Zweig, se non le pulsioni sommerse della psiche a scuotere le nobildonne parigine, tremanti in cerchio o dentro al mastello risanatore, in attesa delle mani tiepide del curatore? La teoria del magnetismo prevedeva che la guarigione avvenisse al culmine di una crisi. Nella grande casa parigina di Mesmer c’era «la sala delle crisi», dove i maggiordomi portavano i più esagitati a sbollire. Non è un caso che il tasso delle guarigioni fosse più alto nelle malattie nervose.
Il mesmerismo darà alla luce due figli molti diversi tra di loro: l’ipnotismo, che affascinerà il giovane Freud; e lo spiritismo che continua, con alterne fortune, a far traballare i tavolini, specialmente in Sud America. L’idea di una forza misteriosa che pervade l’universo ritornerà più volte dopo la morte di Mesmer, sotto molte vesti. Come se un archetipo ostinato spingesse la psiche a sentirsi una cosa sola con il mondo.
http://www.lastampa.it/2015/02/26/cultura/il-magnetismo-del-dottor-mesmer-antenato-dellinconscio-di-freud-lqzZanpq4UILuS9Trvs6lO/pagina.html
La vita straordinaria di Mesmer fu raccontata nel ’900 dalla prosa leggera e scintillante di Stefan Zweig. Lo scrittore austriaco cercò di riabilitare il grande magnetizzatore con un libro del 1931 dedicato a Einstein, Die Heilung durch den Geist (La guarigione attraverso lo spirito), dove Mesmer, Mary Baker-Eddy, la creatrice della Christian Science e Sigmund Freud sono legati da un filo rosso. Il libro fu subito tradotto in Italia da Lavinia Mazzucchetti, celebre germanista e antifascista, per Sperling e Kupfer. Il titolo italiano diventato L’anima che guarisce, sarà riproposto pari pari da e/o nel 2005. Proponendo un’altra variazione nella traduzione di «Geist», la più recente edizione in inglese fa: Mental Healers: Mesmer, Eddy and Freud (Guaritori mentali, etc.). Spirito, anima, mente: non resta che «cervello» nella scala dell’attualizzazione. Adesso Castelvecchi scorpora dalla vecchia e ancor ottima versione italiana la parte dedicata a Mesmer e propone un agile libretto. L’operazione non è nuova, l’editore Lucarini aveva pubblicato nel 1991 soltanto la parte dedicata a Freud. I collezionisti aspettano l’«a solo» italiano di Mary Baker-Eddy: se uscirà sotto una nuova egida, potranno avere un libro pubblicato a rate per tre tipi diversi.
Non c’è nulla di tenebroso nel Mesmer di Zweig, è un’omone buono e quadrato, innamorato delle sue scoperte, il successo non gli dà alla testa. Facile per noi ridere del suo «mastello della salute», colmo di benefica acqua magnetizzata, bisognerebbe guardarlo con gli occhi incantati del ’700. Paradossalmente, è uno scienziato che anticipa lo spirito positivistico di pochi decenni dopo. Saranno i suoi forsennati seguaci a travalicare il confine tra osservazione medica e delirio immaginativo. Mesmer lo aveva capito: «Nella leggerezza e nell’imprudenza di coloro che imitano il mio metodo sta la ragione di molti pregiudizi contro di me». Zweig ne fa un precursore di Freud, passando per la forza guaritrice della preghiera, predicata nell’800 da Mary Baker-Eddy in America. Inventando il magnetismo animale, Mesmer anticipa, pur inconsapevolmente, il potere dell’inconscio. La suggestione guariva i malati, non il magnetismo. Cos’erano, argomenta Zweig, se non le pulsioni sommerse della psiche a scuotere le nobildonne parigine, tremanti in cerchio o dentro al mastello risanatore, in attesa delle mani tiepide del curatore? La teoria del magnetismo prevedeva che la guarigione avvenisse al culmine di una crisi. Nella grande casa parigina di Mesmer c’era «la sala delle crisi», dove i maggiordomi portavano i più esagitati a sbollire. Non è un caso che il tasso delle guarigioni fosse più alto nelle malattie nervose.
Il mesmerismo darà alla luce due figli molti diversi tra di loro: l’ipnotismo, che affascinerà il giovane Freud; e lo spiritismo che continua, con alterne fortune, a far traballare i tavolini, specialmente in Sud America. L’idea di una forza misteriosa che pervade l’universo ritornerà più volte dopo la morte di Mesmer, sotto molte vesti. Come se un archetipo ostinato spingesse la psiche a sentirsi una cosa sola con il mondo.
http://www.lastampa.it/2015/02/26/cultura/il-magnetismo-del-dottor-mesmer-antenato-dellinconscio-di-freud-lqzZanpq4UILuS9Trvs6lO/pagina.html
MADRE, SOGGETTO D’AMORE
di Vittorio Lingiardi, Il Sole 24 Ore, 22 febbraio 2015
La riflessione freudiana sull’autorità «ha luogo in un mondo esclusivamente maschile. La lotta per il potere si svolge tra padre e figlio; la donna non vi ha parte alcuna, se non come ricompensa o perché induce alla regressione, oppure come terzo vertice di un triangolo. Non c’è lotta tra uomo e donna in questa storia; anzi, la subordinazione della donna all’uomo è data per scontata, invisibile». Ma la teoria femminista «non può accontentarsi di conquistare per le donne il territorio degli uomini». Il femminismo, quando incontra la psicoanalisi, ha un compito più complesso: trascendere la contrapposizione. Perché questo avvenga è però necessario che la psicoanalisi rinunci a quelle certezze che, con mano maschile, ha scritto sul corpo delle donne. Rinunci alla polarizzazione di genere, «origine profonda del disagio della nostra civiltà». Apra la gabbia teorico-evolutiva della «scissione tra un padre simbolo di liberazione e una madre simbolo di dipendenza», perché per i bambini di entrambi i sessi tale scissione significa che «l’identificazione e l’intimità con la madre devono essere barattate con l’indipendenza» (e dunque «diventare soggetto di desiderio comporta il rifiuto del ruolo materno», se non della stessa identità femminile). Impari a pensare alla madre «come soggetto a pieno diritto» e non «semplice prolungamento di un bambino di due mesi». La vera madre non è semplicemente oggetto delle richieste del suo bambino, ma «è un altro soggetto il cui centro indipendente deve restare al di fuori del bambino se dovrà sapergli concedere il riconoscimento che cerca». Solo se la madre diventa soggetto, e non solo oggetto d’amore del bambino, prenderà vita quel reciproco riconoscersi che per tutta la vita nutrirà le relazioni d’amore.
È il 1988 e così scriveva Jessica Benjamin in Legami d’amore, il saggio psicoanalitico e femminista sui rapporti di potere nelle relazioni amorose che la rese famosa nel mondo. Tradotto a regola d’arte da Anna Nadotti per Rosenberg & Sellier, ma da tempo introvabile, il volume viene oggi riproposto da Raffaello Cortina, a conferma dell’interesse della sua casa editrice per un pensiero psicoanalitico d’eccellenza. La nuova edizione, un rosso cuore annodato in copertina, comprende una riflessione dell’autrice sull’attualità del suo saggio, e un testo introduttivo («Vivi in presenza di un altro uguale») a cura di chi scrive e di Nicola Carone.
«Come se avessimo bisogno di una qualche prova della persistenza del patriarcato – scrive Benjamin 25 anni dopo, cioè oggi – la passività e la sottomissione non hanno abbandonato il discorso del femminile». Ma anziché indagare il tema del sadomasochismo dal punto di vista dell’«indignazione morale», lo considera da quello della psicoanalisi e delle cicatrici psichiche prodotte dai percorsi obbligati del binarismo di genere. «In che modo il dominio è radicato nei cuori di coloro che vi si sottomettono?». Perché Cinquanta sfumature di grigio è diventato un bestseller per giovani madri e per donne manager? Le prime risposte di Benjamin (una delle quali è «perché queste donne vogliono arrendersi al controllo, vogliono perdersi») risalgono al 1967, quando Histoire d’O, letto dal mio gruppo poco dopo de Beauvoir, mi ha consentito di capire le molte permutazioni del desiderio che avrebbero trovato espressione culturale anni più tardi». Domande solo apparentemente pop che trovano risposte complesse nell’analisi della dinamica servo-padrone di hegeliana memoria, o nel concetto di «complementarità scissa», cioè un sistema dinamico in cui ciascuna incarnazione del partner (sadico, masochista; colui che agisce, colui che viene agito) «dipende dall’altro». Un’idea che diventerà centrale per la comprensione delle impasse cliniche, ma anche delle relazioni tra carnefice e vittima e di quelle «relazioni simmetriche nelle quali ciascuna persona si sente di subire, ciascuna persona sente di aver ragione, ciascuno ha paura di essere incolpato». Non stupisce che oggi Benjamin si stia dedicando al progetto politico-psicoanalitico di declinare la sua teoria del riconoscimento in una teoria della testimonianza. In The Discarded and the Dignified, ultimo scritto non ancora pubblicato, racconta la sua collaborazione, da cinque anni a questa parte, con il Community Mental Health Programme di Gaza. La scommessa è quella di costruire un dialogo con i professionisti della salute mentale israeliani e palestinesi. Di fronte ai traumi, dice, spesso reagiamo appellandoci al senso di «ciò che è giusto o sbagliato» e perdiamo la possibilità di avvicinarci in maniera autentica all’esperienza di chi soffre. Essere testimoni e non spettatori indignati rientra invece in un più ampio processo di umanizzazione di vittime e carnefici, in cui le prime non aspirino a una qualche fantasia di vendetta o, al contrario, di rassegnazione malinconica per rimediare alla perdita di persone care o alla violazione di parti di sé e le seconde prendano contatto con parti dolorose di sé dissociate.
Nato per fare luce sul perché spesso preferiamo «il dolore che accompagna la sottomissione» al «dolore che accompagna la libertà», Legami d’amore ha nei fatti inaugurato il progetto di una psicoanalisi relazionale e intersoggettiva. Il motivo per cui sono diventata psicoanalista, dice Benjamin, è stato «la ricerca di una guarigione e di un’integrazione personale». Come intellettuale, genitore, clinica, attivista politica, aggiunge, «cercherò di essere più integrata e di fare in modo che ciò che dico vada insieme a ciò che faccio per tutte quelle parti che non riguardano solo la mia guarigione personale, ma si estendono anche al lavoro e allo stare con gli altri». Creatura di confine, spigolosa e sincera, Benjamin riesce a far dialogare posizioni diverse e spesso in conflitto. «Per quanto mi riguarda – dice – sono arrivata alla convinzione che l’esperienza di essere spinta in più di una direzione nello stesso momento è una cosa fondamentale per la mia vita psichica».
Jessica Benjamin, Legami d’amore, Raffaello Cortina, pagg. 220, € 24
http://www.iniziativalaica.it/?p=24282
È il 1988 e così scriveva Jessica Benjamin in Legami d’amore, il saggio psicoanalitico e femminista sui rapporti di potere nelle relazioni amorose che la rese famosa nel mondo. Tradotto a regola d’arte da Anna Nadotti per Rosenberg & Sellier, ma da tempo introvabile, il volume viene oggi riproposto da Raffaello Cortina, a conferma dell’interesse della sua casa editrice per un pensiero psicoanalitico d’eccellenza. La nuova edizione, un rosso cuore annodato in copertina, comprende una riflessione dell’autrice sull’attualità del suo saggio, e un testo introduttivo («Vivi in presenza di un altro uguale») a cura di chi scrive e di Nicola Carone.
«Come se avessimo bisogno di una qualche prova della persistenza del patriarcato – scrive Benjamin 25 anni dopo, cioè oggi – la passività e la sottomissione non hanno abbandonato il discorso del femminile». Ma anziché indagare il tema del sadomasochismo dal punto di vista dell’«indignazione morale», lo considera da quello della psicoanalisi e delle cicatrici psichiche prodotte dai percorsi obbligati del binarismo di genere. «In che modo il dominio è radicato nei cuori di coloro che vi si sottomettono?». Perché Cinquanta sfumature di grigio è diventato un bestseller per giovani madri e per donne manager? Le prime risposte di Benjamin (una delle quali è «perché queste donne vogliono arrendersi al controllo, vogliono perdersi») risalgono al 1967, quando Histoire d’O, letto dal mio gruppo poco dopo de Beauvoir, mi ha consentito di capire le molte permutazioni del desiderio che avrebbero trovato espressione culturale anni più tardi». Domande solo apparentemente pop che trovano risposte complesse nell’analisi della dinamica servo-padrone di hegeliana memoria, o nel concetto di «complementarità scissa», cioè un sistema dinamico in cui ciascuna incarnazione del partner (sadico, masochista; colui che agisce, colui che viene agito) «dipende dall’altro». Un’idea che diventerà centrale per la comprensione delle impasse cliniche, ma anche delle relazioni tra carnefice e vittima e di quelle «relazioni simmetriche nelle quali ciascuna persona si sente di subire, ciascuna persona sente di aver ragione, ciascuno ha paura di essere incolpato». Non stupisce che oggi Benjamin si stia dedicando al progetto politico-psicoanalitico di declinare la sua teoria del riconoscimento in una teoria della testimonianza. In The Discarded and the Dignified, ultimo scritto non ancora pubblicato, racconta la sua collaborazione, da cinque anni a questa parte, con il Community Mental Health Programme di Gaza. La scommessa è quella di costruire un dialogo con i professionisti della salute mentale israeliani e palestinesi. Di fronte ai traumi, dice, spesso reagiamo appellandoci al senso di «ciò che è giusto o sbagliato» e perdiamo la possibilità di avvicinarci in maniera autentica all’esperienza di chi soffre. Essere testimoni e non spettatori indignati rientra invece in un più ampio processo di umanizzazione di vittime e carnefici, in cui le prime non aspirino a una qualche fantasia di vendetta o, al contrario, di rassegnazione malinconica per rimediare alla perdita di persone care o alla violazione di parti di sé e le seconde prendano contatto con parti dolorose di sé dissociate.
Nato per fare luce sul perché spesso preferiamo «il dolore che accompagna la sottomissione» al «dolore che accompagna la libertà», Legami d’amore ha nei fatti inaugurato il progetto di una psicoanalisi relazionale e intersoggettiva. Il motivo per cui sono diventata psicoanalista, dice Benjamin, è stato «la ricerca di una guarigione e di un’integrazione personale». Come intellettuale, genitore, clinica, attivista politica, aggiunge, «cercherò di essere più integrata e di fare in modo che ciò che dico vada insieme a ciò che faccio per tutte quelle parti che non riguardano solo la mia guarigione personale, ma si estendono anche al lavoro e allo stare con gli altri». Creatura di confine, spigolosa e sincera, Benjamin riesce a far dialogare posizioni diverse e spesso in conflitto. «Per quanto mi riguarda – dice – sono arrivata alla convinzione che l’esperienza di essere spinta in più di una direzione nello stesso momento è una cosa fondamentale per la mia vita psichica».
Jessica Benjamin, Legami d’amore, Raffaello Cortina, pagg. 220, € 24
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VALÉRY NUME DELLA NOSTRA MODERNITÀ. La corposa silloge di opere scelte e curate da Maria Teresa Giaveri per i Meridiani ci mostra uno scrittore di situazionistica modernità ma al tempo stesso ancora sprofondato nell’humus del dandismo fin de siècle
di Pierluigi Pellini, ilmanifesto.info, 22 febbraio 2015
Il periodo fra le due guerre, Il cimitero marino era probabilmente la poesia contemporanea più celebre in Europa; il suo autore, Paul Valéry, senz’ombra di dubbio l’intellettuale più omaggiato del continente. Perfino una sua raccolta di articoli sul presente, gli Sguardi sul mondo attuale, composta di pezzi d’occasione per lo più pensosamente superficiali (e alquanto reazionari: non manca un elogio dell’Idea di dittatura, ispirato da un libro d’interviste di Salazar, e datato sinistramente 1934), ha potuto essere per anni, in Francia, poco meno che un best seller.
Vate incensato, maître à penser, emblema del ritorno all’ordine dopo il carnevale delle avanguardie, l’uomo che per più di vent’anni si era quasi completamente negato alla parola pubblica, concentrandosi sul quotidiano esercizio di autoanalisi affidato alla scrittura privata dei Quaderni, sale improvvisamente con La giovane Parca, nel 1917, al rango di poeta ufficiale; e si costringe fino alla morte, avvenuta nel 1945, a alimentare, con rare pubblicazioni poetiche – per l’essenziale, la raccolta Charmes (Incanti), del 1922 – e innumerevoli interventi di circostanza, spesso su commissione, la figura mummificata del classico vivente.
Oggi, i versi di Paul Valéry sono certamente i meno vivi fra quelli di tutti i poeti laureati del Novecento europeo. Li condanna con poche eccezioni all’obsolescenza, se non addirittura all’illeggibilità, proprio quell’ambizione di coniugare la modernità di un linguaggio poetico intransitivo e l’impeccabile versificazione del grand siècle (Racine redivivo!), proprio quell’innesto sistematico di oscurità mallarmeana e di fulgido formalismo classicista che a suo tempo ne giustificò la canonizzazione, ad opera del cenacolo raffinato (e spesso miope) della «Nouvelle Revue Française». Un altro classicismo, quello modernista e paradossale di Eliot e di Montale, capace di riscattare poeticamente le rovine della storia e gli oggetti poveri della quotidianità, nutrirà quel che conta della poesia del Novecento (e oltre); non avranno domani, invece, la censura di ogni contingenza, l’aristocratico sprezzo della vita di ogni giorno, delle sue occasioni e soprattutto «della massa» che la popola, l’epurazione lessicale di ogni scoria contaminata dal tempo umano, i capisaldi, insomma, della poetica degli Incanti. A rileggerla oggi, la stroncatura sbarazzina di Nathalie Sarraute, che fece scandalo nel 1948 (Paul Valéry e l’elefantino, tradotto da Einaudi nel 1988, oggi purtroppo esaurito), sembra addirittura ovvia.
Eppure, uno stesso punto di partenza storico e teorico accomuna l’autore della Giovane Parca e i poeti maggiori del primo Novecento: la convinzione controintuitiva, che Valéry meglio di chiunque altro ha saputo esprimere in un saggio memorabile su Baudelaire, che «ogni classicismo presuppone un romanticismo anteriore», perché «l’essenza del classicismo è di venir dopo», e «l’ordine presuppone un certo disordine che esso ha il compito di ridurre». Idea di cui si appropria tempestivamente, in Italia, un ammiratore e emulo di Valéry – poeticamente, diciamolo pure, assai più dotato di lui – Giuseppe Ungaretti, per motivare la svolta restauratrice che dall’Allegria conduce a Sentimento del tempo. Come per Baudelaire l’effusione sentimentale dei romantici è al tempo stesso presupposto imprescindibile e oggetto di polemico rifiuto, così la rottura avanguardista, lo scardinamento delle forme tradizionali, lo sberleffo all’istituzione letteraria sono ineludibile pietra di paragone (per emulazione o per antitesi) di ogni poesia che si voglia, negli anni immediatamente successivi alla Grande Guerra, all’altezza dei tempi.
La consapevolezza di «venir dopo», appunto, è il primum della scrittura: solo il provincialismo dei nostri ermetici potrà rimuoverla tout court, nella velleità di una poesia sedicente pura. I modernisti la integrano invece, questa consapevolezza, nella sostanza stessa dei testi: così nella poetica del correlativo oggettivo; così nella rifrazione degli eteronimi in Pessoa; così nell’ostentata, artefatta naturalezza di Saba (gli esempi, diversissimi e convergenti, si potrebbero moltiplicare). Valéry segue un percorso diverso: espunge quasi ogni riverbero di creaturale impurità dai suoi rari, algidi versi, peraltro sempre mirabili per levigata fattura, e affida al contrario alla prosa saggistica, e più ancora alle pagine tormentate dei Quaderni, una riflessione inquieta e spregiudicata, che ha tratti di vertiginoso acume e di assoluta modernità. Quasi, si direbbe, con una sorta di lucida schizofrenia: come se rifiutasse di spezzare il cristallo polito della metrica regolare, il vieto simulacro del bello tradizionale, pur riconoscendone l’intima, insostenibile vacuità di «piccolo monumento forse funebre», fatto delle «parole più pure» e della «forme più nobili» della lingua francese – e non senza intuire, forse, che i suoi confusi brogliacci avrebbero trovato grazia, presso i posteri, assai più degli aridi frutti del labor limae.
Per questo conviene salutare con gratitudine il lavoro immenso che ha consentito a Maria Teresa Giaveri di offrire, per la prima volta in Italia, e con cura editoriale impeccabile, una corposa silloge di Opere scelte («I Meridiani», Mondadori, pp. CIII + 1782, euro 80,00), capace di restituire, in sei ampie sezioni (Poesia, Prosa poetica, Modelli e strumenti del pensiero, Dialoghi, Teatro, Saggi: traduzioni tutte rigorosamente nuove), l’immagine complessa e sfaccettata di uno scrittore molto diverso da quello canonizzato negli anni trenta e, al contrario di quello, in parte ancora incontestabilmente vivo: non solo (non tanto) nella levigata lentezza, punteggiata di squarci illuminanti, dei dialoghi socratici (in specie i celeberrimi Eupalinos o L’architetto, e L’anima e la danza); ma anche (forse soprattutto) nella prosa giovanile di Monsieur Teste e nello sterminato cantiere dei Quaderni: al tempo stesso traboccante zibaldone di pensieri e ascetica ginnastica della mente, cui sono dedicate ogni mattina le energie più fresche; e, ancora, nella tendenziosa lucidità dei saggi letterari, che costruiscono una genealogia della lirica moderna con cui rimane inevitabile fare i conti (la linea Baudelaire, Mallarmé, Valéry), anche se è viziata da un’ottica nazionale angusta – questo scrittore come pochi intimamente franco-francese (ancorché di origini italiane per parte di madre, e di costumi cosmopoliti) elegge a testa di turco un romanticismo sentimentale di cui fa mostra d’ignorare la complessità filosofica sviluppata oltre Reno.
Di Valéry, dunque, reggono oggi soprattutto i Quaderni: esercizio di scrittura inaugurato, non a caso, nel 1894, dopo che, due anni prima, si è incrinata – fra le ambasce della celebre notte di Genova, e non solo – la fiducia nel platonismo del maestro riverito, Stéphane Mallarmé, e nella possibilità, per la parola poetica, di attingere l’ideale. L’interesse della ricerca si concentra ormai sui meccanismi di funzionamento della mente; il valore della scrittura diventa meramente gnoseologico: non più l’opera perfetta, ma la conoscenza di sé, ne sarà il fine. Accanto a quello di Mallarmé, s’impone il modello di Edgar Allan Poe, da cui Valéry mutua l’imperativo dell’autocoscienza, e alla cui filosofia della composizione vota un autentico culto. Rari gli altri interlocutori di questo autentico «Robinson intellettuale», che sfiora l’egotismo forgiando di volta in volta i concetti di cui si serve, e fingendo di ignorare il contemporaneo dibattito culturale – i riferimenti alle scienze esatte sono più pregnanti di quelli al dibattito filosofico o letterario. E, di quaderno in quaderno, delinea, con puntiglioso rigore razionale, l’abbozzo di una dottrina della creazione artistica, per poi offrirne un compendio, a partire dal 1937, nel corso di Poetica al Collège de France, di cui Giaveri regala al lettore italiano la traduzione di tre lezioni (due inedite anche in francese).
Quella dei Quaderni è una nebulosa di appunti, aforismi, formulazioni parziali che non trovano mai (e probabilmente non potevano trovare) definitiva sistemazione; ma pochi altri testi contengono un insieme più fecondo di intuizioni disparate, capaci di nutrire gli studi letterari (e non solo) dei decenni a venire. Il catalogo è impressionante (e incompleto).
Il formalismo e lo strutturalismo degli anni sessanta e settanta, prevedibilmente, hanno potuto vedere in Valéry un precursore – al punto che le due riviste parigine più significative di quella stagione, «Tel Quel» e «Poétique», gli sono debitrici del titolo. Il ruolo riconosciuto, nella genesi del testo letterario, a «non so qual presentimento delle reazioni esterne», e la consapevolezza che l’opera d’arte vive solo «in atto», nella concreta singolarità della lettura («è l’esecuzione della poesia che è poesia»), anticipano – ed era cosa molto meno scontata – le tesi della critica della ricezione.
La volontà di promuovere la «fabbricazione dell’opera» a «cosa principale» (perché «fare una poesia è poesia»), lo studio instancabile dei processi mentali che presiedono alla creazione artistica (intesa («come danza, come scherma»), l’assioma per cui «l’opera non è mai finita interiormente», e anche il fascino per i manoscritti del passato (di Stendhal, di Hugo), lo predisponevano a diventare il nume tutelare, oltre che un oggetto d’indagine privilegiato, della critique génétique (versione francese, teoricamente più agguerrita, della nostrana critica delle varianti e degli scartafacci). Infine, l’odierna voga degli studi cognitivi può trovare stimolo e riscontro in quell’instancabile autoanalisi del pensiero, e dei suoi più sottili meccanismi, che sembra fare dell’impresa intellettuale di Paul Valéry il rovescio difensivo, ma non per questo meno grandioso, dell’opera di Sigmund Freud.
Perché davvero, come l’avanguardia è l’implicito antimodello della sua poesia, così la psicoanalisi pare il rimosso – o, se si preferisce, il bersaglio nascosto – della sua personale filosofia della mente: che dei sogni, della memoria, dell’attenzione, dell’immaginazione, e in genere dei meccanismi psichici, cerca ostinatamente di descrivere il funzionamento facendo economia di ogni ipotesi di inconscio.
Una postura intellettuale, questa, che non poteva non entrare in rotta di collisione con il movimento surrealista, a lungo egemone sulla scena letteraria francese; ma che sul medio e lungo periodo si è rivelata più produttiva dell’opera in versi anche in termini di discendenza letteraria, come mostra bene un esempio italiano. È infatti alle prose e ai Quaderni, assai più che agli Incanti, che ha guardato un poeta come Valerio Magrelli: non solo nel saggio einaudiano che ha dedicato all’autoscopia di Monsieur Teste e alla ripresa del mito di Narciso (Vedersi vedersi, 2002), ma anche nei temi e nelle forme delle raccolte in versi degli anni ottanta.
I due episodi maggiori della ricezione italiana di Valéry – Ungaretti e Magrelli, appunto – disegnano esemplarmente il destino di un’opera: da monumentale cauzione di un irrigidimento classicista a stimolo seminale, e disperso nell’infinibilità del work in progress, di un’autorappresentazione fluida, metamorfica, aporetica. Anche se poi quell’«Inesausta volontà di autocostruzione», che dà il titolo all’elegante introduzione di Maria Teresa Giaveri, quel rifiuto di oggettivare sé stesso nella materialità finita dell’opera («Gli altri fanno libri. Quanto a me, io faccio la mia mente»), quel subordinare la conoscenza e la scrittura stessa alla trasformazione di sé (per cui l’opera di Paul Valéry, in definitiva, è Paul Valéry), se per un verso è lascito di stupefacente, quasi situazionista modernità, per un altro – ancora un paradosso – affonda le sue radici nell’humus del dandysmo fin de siècle, si ammanta di pretese estetizzanti, e insomma rivela insospettabili parentele con l’auto-mitologizzazione di un altro, più pacchiano vate: ovviamente, il nostro d’Annunzio, cui infatti l’autore della Giovane Parca non manca di render visita e omaggi.
Per l’allievo più dotato dello schivo Mallarmé, del poeta moderno più autenticamente alieno da esibizionismo, per il poeta metafisico che nel finale del Cimitero marino ha offerto un precoce emblema ai dilemmi dell’esistenzialismo – il celebre «Le vent se lève!…il faut tenter de vivre», che nella traduzione di Giaveri suona (svantaggiosamente infedele): «S’alza il vento!… Affrontiamo la vita» – pare l’ennesima ironia della sorte.
http://ilmanifesto.info/valery-nume-della-nostra-modernita/
Vate incensato, maître à penser, emblema del ritorno all’ordine dopo il carnevale delle avanguardie, l’uomo che per più di vent’anni si era quasi completamente negato alla parola pubblica, concentrandosi sul quotidiano esercizio di autoanalisi affidato alla scrittura privata dei Quaderni, sale improvvisamente con La giovane Parca, nel 1917, al rango di poeta ufficiale; e si costringe fino alla morte, avvenuta nel 1945, a alimentare, con rare pubblicazioni poetiche – per l’essenziale, la raccolta Charmes (Incanti), del 1922 – e innumerevoli interventi di circostanza, spesso su commissione, la figura mummificata del classico vivente.
Oggi, i versi di Paul Valéry sono certamente i meno vivi fra quelli di tutti i poeti laureati del Novecento europeo. Li condanna con poche eccezioni all’obsolescenza, se non addirittura all’illeggibilità, proprio quell’ambizione di coniugare la modernità di un linguaggio poetico intransitivo e l’impeccabile versificazione del grand siècle (Racine redivivo!), proprio quell’innesto sistematico di oscurità mallarmeana e di fulgido formalismo classicista che a suo tempo ne giustificò la canonizzazione, ad opera del cenacolo raffinato (e spesso miope) della «Nouvelle Revue Française». Un altro classicismo, quello modernista e paradossale di Eliot e di Montale, capace di riscattare poeticamente le rovine della storia e gli oggetti poveri della quotidianità, nutrirà quel che conta della poesia del Novecento (e oltre); non avranno domani, invece, la censura di ogni contingenza, l’aristocratico sprezzo della vita di ogni giorno, delle sue occasioni e soprattutto «della massa» che la popola, l’epurazione lessicale di ogni scoria contaminata dal tempo umano, i capisaldi, insomma, della poetica degli Incanti. A rileggerla oggi, la stroncatura sbarazzina di Nathalie Sarraute, che fece scandalo nel 1948 (Paul Valéry e l’elefantino, tradotto da Einaudi nel 1988, oggi purtroppo esaurito), sembra addirittura ovvia.
Eppure, uno stesso punto di partenza storico e teorico accomuna l’autore della Giovane Parca e i poeti maggiori del primo Novecento: la convinzione controintuitiva, che Valéry meglio di chiunque altro ha saputo esprimere in un saggio memorabile su Baudelaire, che «ogni classicismo presuppone un romanticismo anteriore», perché «l’essenza del classicismo è di venir dopo», e «l’ordine presuppone un certo disordine che esso ha il compito di ridurre». Idea di cui si appropria tempestivamente, in Italia, un ammiratore e emulo di Valéry – poeticamente, diciamolo pure, assai più dotato di lui – Giuseppe Ungaretti, per motivare la svolta restauratrice che dall’Allegria conduce a Sentimento del tempo. Come per Baudelaire l’effusione sentimentale dei romantici è al tempo stesso presupposto imprescindibile e oggetto di polemico rifiuto, così la rottura avanguardista, lo scardinamento delle forme tradizionali, lo sberleffo all’istituzione letteraria sono ineludibile pietra di paragone (per emulazione o per antitesi) di ogni poesia che si voglia, negli anni immediatamente successivi alla Grande Guerra, all’altezza dei tempi.
La consapevolezza di «venir dopo», appunto, è il primum della scrittura: solo il provincialismo dei nostri ermetici potrà rimuoverla tout court, nella velleità di una poesia sedicente pura. I modernisti la integrano invece, questa consapevolezza, nella sostanza stessa dei testi: così nella poetica del correlativo oggettivo; così nella rifrazione degli eteronimi in Pessoa; così nell’ostentata, artefatta naturalezza di Saba (gli esempi, diversissimi e convergenti, si potrebbero moltiplicare). Valéry segue un percorso diverso: espunge quasi ogni riverbero di creaturale impurità dai suoi rari, algidi versi, peraltro sempre mirabili per levigata fattura, e affida al contrario alla prosa saggistica, e più ancora alle pagine tormentate dei Quaderni, una riflessione inquieta e spregiudicata, che ha tratti di vertiginoso acume e di assoluta modernità. Quasi, si direbbe, con una sorta di lucida schizofrenia: come se rifiutasse di spezzare il cristallo polito della metrica regolare, il vieto simulacro del bello tradizionale, pur riconoscendone l’intima, insostenibile vacuità di «piccolo monumento forse funebre», fatto delle «parole più pure» e della «forme più nobili» della lingua francese – e non senza intuire, forse, che i suoi confusi brogliacci avrebbero trovato grazia, presso i posteri, assai più degli aridi frutti del labor limae.
Per questo conviene salutare con gratitudine il lavoro immenso che ha consentito a Maria Teresa Giaveri di offrire, per la prima volta in Italia, e con cura editoriale impeccabile, una corposa silloge di Opere scelte («I Meridiani», Mondadori, pp. CIII + 1782, euro 80,00), capace di restituire, in sei ampie sezioni (Poesia, Prosa poetica, Modelli e strumenti del pensiero, Dialoghi, Teatro, Saggi: traduzioni tutte rigorosamente nuove), l’immagine complessa e sfaccettata di uno scrittore molto diverso da quello canonizzato negli anni trenta e, al contrario di quello, in parte ancora incontestabilmente vivo: non solo (non tanto) nella levigata lentezza, punteggiata di squarci illuminanti, dei dialoghi socratici (in specie i celeberrimi Eupalinos o L’architetto, e L’anima e la danza); ma anche (forse soprattutto) nella prosa giovanile di Monsieur Teste e nello sterminato cantiere dei Quaderni: al tempo stesso traboccante zibaldone di pensieri e ascetica ginnastica della mente, cui sono dedicate ogni mattina le energie più fresche; e, ancora, nella tendenziosa lucidità dei saggi letterari, che costruiscono una genealogia della lirica moderna con cui rimane inevitabile fare i conti (la linea Baudelaire, Mallarmé, Valéry), anche se è viziata da un’ottica nazionale angusta – questo scrittore come pochi intimamente franco-francese (ancorché di origini italiane per parte di madre, e di costumi cosmopoliti) elegge a testa di turco un romanticismo sentimentale di cui fa mostra d’ignorare la complessità filosofica sviluppata oltre Reno.
Di Valéry, dunque, reggono oggi soprattutto i Quaderni: esercizio di scrittura inaugurato, non a caso, nel 1894, dopo che, due anni prima, si è incrinata – fra le ambasce della celebre notte di Genova, e non solo – la fiducia nel platonismo del maestro riverito, Stéphane Mallarmé, e nella possibilità, per la parola poetica, di attingere l’ideale. L’interesse della ricerca si concentra ormai sui meccanismi di funzionamento della mente; il valore della scrittura diventa meramente gnoseologico: non più l’opera perfetta, ma la conoscenza di sé, ne sarà il fine. Accanto a quello di Mallarmé, s’impone il modello di Edgar Allan Poe, da cui Valéry mutua l’imperativo dell’autocoscienza, e alla cui filosofia della composizione vota un autentico culto. Rari gli altri interlocutori di questo autentico «Robinson intellettuale», che sfiora l’egotismo forgiando di volta in volta i concetti di cui si serve, e fingendo di ignorare il contemporaneo dibattito culturale – i riferimenti alle scienze esatte sono più pregnanti di quelli al dibattito filosofico o letterario. E, di quaderno in quaderno, delinea, con puntiglioso rigore razionale, l’abbozzo di una dottrina della creazione artistica, per poi offrirne un compendio, a partire dal 1937, nel corso di Poetica al Collège de France, di cui Giaveri regala al lettore italiano la traduzione di tre lezioni (due inedite anche in francese).
Quella dei Quaderni è una nebulosa di appunti, aforismi, formulazioni parziali che non trovano mai (e probabilmente non potevano trovare) definitiva sistemazione; ma pochi altri testi contengono un insieme più fecondo di intuizioni disparate, capaci di nutrire gli studi letterari (e non solo) dei decenni a venire. Il catalogo è impressionante (e incompleto).
Il formalismo e lo strutturalismo degli anni sessanta e settanta, prevedibilmente, hanno potuto vedere in Valéry un precursore – al punto che le due riviste parigine più significative di quella stagione, «Tel Quel» e «Poétique», gli sono debitrici del titolo. Il ruolo riconosciuto, nella genesi del testo letterario, a «non so qual presentimento delle reazioni esterne», e la consapevolezza che l’opera d’arte vive solo «in atto», nella concreta singolarità della lettura («è l’esecuzione della poesia che è poesia»), anticipano – ed era cosa molto meno scontata – le tesi della critica della ricezione.
La volontà di promuovere la «fabbricazione dell’opera» a «cosa principale» (perché «fare una poesia è poesia»), lo studio instancabile dei processi mentali che presiedono alla creazione artistica (intesa («come danza, come scherma»), l’assioma per cui «l’opera non è mai finita interiormente», e anche il fascino per i manoscritti del passato (di Stendhal, di Hugo), lo predisponevano a diventare il nume tutelare, oltre che un oggetto d’indagine privilegiato, della critique génétique (versione francese, teoricamente più agguerrita, della nostrana critica delle varianti e degli scartafacci). Infine, l’odierna voga degli studi cognitivi può trovare stimolo e riscontro in quell’instancabile autoanalisi del pensiero, e dei suoi più sottili meccanismi, che sembra fare dell’impresa intellettuale di Paul Valéry il rovescio difensivo, ma non per questo meno grandioso, dell’opera di Sigmund Freud.
Perché davvero, come l’avanguardia è l’implicito antimodello della sua poesia, così la psicoanalisi pare il rimosso – o, se si preferisce, il bersaglio nascosto – della sua personale filosofia della mente: che dei sogni, della memoria, dell’attenzione, dell’immaginazione, e in genere dei meccanismi psichici, cerca ostinatamente di descrivere il funzionamento facendo economia di ogni ipotesi di inconscio.
Una postura intellettuale, questa, che non poteva non entrare in rotta di collisione con il movimento surrealista, a lungo egemone sulla scena letteraria francese; ma che sul medio e lungo periodo si è rivelata più produttiva dell’opera in versi anche in termini di discendenza letteraria, come mostra bene un esempio italiano. È infatti alle prose e ai Quaderni, assai più che agli Incanti, che ha guardato un poeta come Valerio Magrelli: non solo nel saggio einaudiano che ha dedicato all’autoscopia di Monsieur Teste e alla ripresa del mito di Narciso (Vedersi vedersi, 2002), ma anche nei temi e nelle forme delle raccolte in versi degli anni ottanta.
I due episodi maggiori della ricezione italiana di Valéry – Ungaretti e Magrelli, appunto – disegnano esemplarmente il destino di un’opera: da monumentale cauzione di un irrigidimento classicista a stimolo seminale, e disperso nell’infinibilità del work in progress, di un’autorappresentazione fluida, metamorfica, aporetica. Anche se poi quell’«Inesausta volontà di autocostruzione», che dà il titolo all’elegante introduzione di Maria Teresa Giaveri, quel rifiuto di oggettivare sé stesso nella materialità finita dell’opera («Gli altri fanno libri. Quanto a me, io faccio la mia mente»), quel subordinare la conoscenza e la scrittura stessa alla trasformazione di sé (per cui l’opera di Paul Valéry, in definitiva, è Paul Valéry), se per un verso è lascito di stupefacente, quasi situazionista modernità, per un altro – ancora un paradosso – affonda le sue radici nell’humus del dandysmo fin de siècle, si ammanta di pretese estetizzanti, e insomma rivela insospettabili parentele con l’auto-mitologizzazione di un altro, più pacchiano vate: ovviamente, il nostro d’Annunzio, cui infatti l’autore della Giovane Parca non manca di render visita e omaggi.
Per l’allievo più dotato dello schivo Mallarmé, del poeta moderno più autenticamente alieno da esibizionismo, per il poeta metafisico che nel finale del Cimitero marino ha offerto un precoce emblema ai dilemmi dell’esistenzialismo – il celebre «Le vent se lève!…il faut tenter de vivre», che nella traduzione di Giaveri suona (svantaggiosamente infedele): «S’alza il vento!… Affrontiamo la vita» – pare l’ennesima ironia della sorte.
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ORRORE
di Marco Belpoliti, doppiozero.com, 23 febbraio 2015
Il primo è stato il fotoreporter americano James Foley. Poi nell’arco di un mese sono stati decapitati il reporter statunitense, Steven Sotoff, e il cooperante scozzese David Haines. Il rito pressoché identico prevede che il condannato sia vestito di un camicione arancione, mentre il boia è in nero, con il capo e il viso occultati. Tiene in mano un coltello esibito come strumento di morte. La decapitazione ha generato un immediato senso di orrore lasciando attonita e stupefatta l’intera platea televisiva occidentale e il popolo del web. Le immagini della decollazione sono state viste da milioni di persone e commentate da giornali, televisioni, siti internet. Un commando di Talebani entra in una scuola in Pakistan, a Peshwar e uccide a freddo 132 bambini e i loro insegnanti, come a Beslan, per poi essere ucciso a sua volta dalle forze di sicurezza. Non è finita lì. Da vari mesi è un susseguirsi di sgozzamenti, decapitazioni, eccidi. Altri bambini la cui colpa era di aver assistito a una partita di calcio. L’ISIS, lo stato islamico, o Califfato, come si è autoproclamato, continua imperterrito la strage. Fino al massacro di Parigi: lupi solitari, si è detto.
L’orrifico delle decapitazioni è entrato nelle case degli abitanti dell’Europa e dell’America. Qualcosa che era scomparso dalle piazze del Vecchio Continente da due secoli, almeno, ha fatto così la sua cruenta riapparizione, per quanto ci siano state, spesso invisibili, decapitazioni nelle guerre combattute nella ex-Jugoslavia, e in altri sequestri di ostaggi. Basti ricordare il reporter americano Daniel Pearl, sequestrato in Pakistan e decapitato nel 2002, e il giovane imprenditore Nicholas Berg in Iraq nel 2004: non sempre così platealmente visibili all’opinione pubblica. Le loro decapitazioni non prevedevano la “serialità” che caratterizza quelle recenti in Siria e in Libia. Non c’era una telecamera che riprendeva, un occhio elettronico che guardava. All’inizio del suo volume Sorvegliare e punire (1975) Michel Foucault racconta un supplizio, tratto dalla “Gazzetta di Amsterdam”, cui è condannato il 2 marzo 1757 tale Robert-François Damiens. Il suo corpo è squartato tra terribili tormenti sulla pubblica piazza a opera di sei cavalli, che tirano le membra da parti opposte. Nell’arco di pochi decenni da quella data in Europa si smette di amputare, fare a pezzi e marchiare i condannati; il corpo non è più oggetto dello spettacolo pubblico, così da scomparire come “principale bersaglio della repressione penale”. Salvo poi fare la sua terribile ricomparsa con il Terrore, attraverso l’uso della ghigliottina e delle teste mozzate esibite, ancora sulle piazze, durante la Rivoluzione francese.
Nel sistema giuridico americano, dove tuttora esiste la pena di morte, cancellata invece in Europa, ha ricordato qui Giorgio Mariani, è contemplata l’uccisione del condannato mediante una iniezione letale, sistema indolore e privo di spettacolarità. Nella cultura puritana di quel paese, almeno sul suo territorio, è respinta come barbara ogni forma di decollazione: la testa non può e non deve essere separata dal corpo, il quale va conservato nella sua integrità nel momento in cui viene eseguita una sentenza di morte. L’orrore che hanno suscitato i filmati dell’ISIS proviene anche da questa tradizione, oltre che dal culto del corpo che negli ultimi settant’anni si è diffuso in Occidente. Questo nonostante che nei decenni passati in Europa, come in altri luoghi del Pianeta, siano accaduti fatti terribili, le guerre e i conseguenti massacri della ex-Jugoslavia, o le vicende del genocidio in Ruanda, con amputazioni, decapitazioni, squartamenti.
In Europa la decapitazione degli ostaggi americani e inglesi nelle mani dei membri dell’ISIS sono state vissute come un ritorno al passato, a pratiche medievali, barbariche. Che sopravvivono però nella nostra tradizione iconografica, almeno in quanto immagini di culto, che insieme condannano l’atto e suscitano compassione o devozione per la vittima, come quelle di san Giovanni Battista, o viceversa (con sinistra parentela di certe decollazioni odierne) vengono glorificate come atto pio, di giustizia e libertà, come nel caso di quella inflitta da Giuditta nei confronti di Oloferne, come ci ha ricordato non molti anni fa la mostra allestita da Julia Kristeva al Museo del Louvre, poi raccolta in La testa senza il corpo (Donzelli). C’è persino un santo, San Dionigi, protettore di Parigi, il cui miracolo è consistito nel mettersi sotto braccio la propria testa tagliata, per mano dei soldati romani, e risalire la collina che prende ora il suo nome nella capitale francese.
Per quanto espunto dalla nostra giustizia, l’orrore ritorna continuamente nelle nostre cronache. Si è letto solo poche settimane fa di una madre che avrebbe ucciso il proprio bambino, o di un padre che ha colpito a morte i propri figli e anche la moglie (anche l’altro giorno di nuovo). L’orrore è cosa ben diversa dal terrore che con gli atti di decapitazione l’ISIS vorrebbe provocare nel mondo occidentale, qualcosa di più profondo e radicale. La parola “orrore”, ricorda Adriana Cavarero, viene dal verbo latino horreo, di incerta etimologia ma di sicuro significato: indica il rizzarsi dei peli del corpo, il loro tremolio per via dello spavento. Secondo uno studio a rizzarsi sarebbero i capelli, azione inconsueta ma possibile, che si conserverebbe nel significato della parola italiana “orripilante”. La filosofa nel suo libro Orrorismo (Feltrinelli), il cui titolo costituisce un neologismo, sostiene che esiste una “fisica dell’orrore”, collegata a quella dell’agghiacciarsi, reazione fisiologica al freddo, che provoca la cosiddetta “pelle d’oca”. Sono tutti stati del corpo, reazioni, che colpiscono chi è esposto direttamente a spettacoli orripilanti.
Primo Levi, all’inizio della Tregua, descrive la reazione dei giovani soldati russi che raggiungono il Lager dove il deportato si trova nel gennaio del 1945. I russi osservano dall’alto dei loro cavalli lo spettacolo bestiale dei cumuli dei cadaveri abbandonati dai nazisti in fuga. Orrore e insieme ripugnanza, qualcosa di diverso dalla paura che in un libro, Poteri dell’orrore (Spirali), Julia Kristeva ha definito “ribrezzo”. C’è una figura classica che incarna perfettamente l’orrore di cui si parla: Medusa. La sua visione agghiaccia, paralizza, pietrifica. L’orrore è tale che chiunque ne fissi il viso – gli occhi, lo sguardo, ma anche i capelli a forma di serpenti come l’ha dipinta Caravaggio – viene trasformato in pietra. Quelle che si presentano al nostro sguardo nei film rilasciati nel web dai carnefici dell’ISIS sono immagini inguardabili, ripugnanti, che fanno ribrezzo. Lo scopo di questi carnefici non è solo quello di uccidere, bensì d’infierire sul corpo, esattamente come accadeva nei supplizi che precedono le riforme penali prodotte dall’Illuminismo nel diritto occidentale. Si vuole distruggere l’unità del corpo provocando negli spettatori l’orrore. Più questo, ribadisce Cavarero, che non il terrore.
C’è un’altra figura mitologica, che viene spesso evocata proprio per definire l’altro aspetto dell’orrore, cui ci hanno abituato le cronache recenti: Medea. Ripudiata da Giasone a vantaggio della figlia del re di Corinto, Medea uccide i suoi figli per vendetta, come racconta Euripide nella tragedia. Lei che aveva aiutato il suo uomo a conquistare il Vello d’oro, diventa il modello degli infanticidi a seguire. In una versione del mito citata da Károly Kerényi, Medea taglia a pezzi i corpi delle sue vittime, evocando così la fantasia orripilante dello smembramento. Adriana Cavarero sottolinea come non esista un analogo mito maschile per descrivere l’orrore dell’uccisione dei propri congiunti, e come l’orrore dell’infanticidio sia ascritto alla madre quale segno di una follia estrema. Per riscattare Medea, o almeno cercare di capire l’orrore che la abita, la filosofa ricorda un episodio presente nel libro di W. G. Sebald, Storia naturale della distruzione (Adelphi), dedicato ai bombardamenti con cui gli Alleati distrussero le città tedesche nel corso del Secondo conflitto mondiale. Durante una delle fughe dalle tempeste di fuoco, a una donna si aprì di colpo la valigia che recava con sé. Non conteneva gioielli, indumenti o oggetti, bensì il cadavere di un bambino, suo figlio. Sebald riporta altri casi da lui riscontrati, in cui le madri recarono con loro nella fuga corpi di bambini soffocati dal fumo o uccisi da altre cause durante i bombardamenti. Nella loro immensa disperazione, scrive Cavarero, in cui l’orrore le aveva colpite in profondità, queste donne cercavano di curare le loro inermi creature oltre la stessa morte. Un modo per salvare i corpi dall’orrore terribile di quella distruzione.
Davanti all’orrore delle immagini trasmesse dal web o sui canali televisivi, riportate nelle pagine dei giornali sotto forma di fotografie, a Gaza come in Afghanistan, in Cecenia come in Siria, possiamo decidere legittimamente di distogliere lo sguardo, cambiare canale, girare pagina, per non restare paralizzati, pietrificati da quello che si vede. Per quanto evochino qualcosa di pornografico – piacere morboso insieme all’orrore, com’è stato giustamente detto –, non possiamo esimerci dal sapere che queste immagini hanno un valore etico, come ci ha ricorda Susan Sontag in Davanti al dolore degli altri(Mondadori). Fanno sorgere domande decisive e ci rendono consapevoli del fatto che esseri umani commettono cose terribili nei confronti di altri esseri umani. Cavarero la chiama “la violenza sull’inerme”, ed è questo il vero orrore che suscitano in noi. Bisogna esserne consapevoli.
L’articolo è comparso in forma abbreviata su L’Espresso. Per le immagini:
http://www.doppiozero.com/rubriche/3/201502/orrore
L’orrifico delle decapitazioni è entrato nelle case degli abitanti dell’Europa e dell’America. Qualcosa che era scomparso dalle piazze del Vecchio Continente da due secoli, almeno, ha fatto così la sua cruenta riapparizione, per quanto ci siano state, spesso invisibili, decapitazioni nelle guerre combattute nella ex-Jugoslavia, e in altri sequestri di ostaggi. Basti ricordare il reporter americano Daniel Pearl, sequestrato in Pakistan e decapitato nel 2002, e il giovane imprenditore Nicholas Berg in Iraq nel 2004: non sempre così platealmente visibili all’opinione pubblica. Le loro decapitazioni non prevedevano la “serialità” che caratterizza quelle recenti in Siria e in Libia. Non c’era una telecamera che riprendeva, un occhio elettronico che guardava. All’inizio del suo volume Sorvegliare e punire (1975) Michel Foucault racconta un supplizio, tratto dalla “Gazzetta di Amsterdam”, cui è condannato il 2 marzo 1757 tale Robert-François Damiens. Il suo corpo è squartato tra terribili tormenti sulla pubblica piazza a opera di sei cavalli, che tirano le membra da parti opposte. Nell’arco di pochi decenni da quella data in Europa si smette di amputare, fare a pezzi e marchiare i condannati; il corpo non è più oggetto dello spettacolo pubblico, così da scomparire come “principale bersaglio della repressione penale”. Salvo poi fare la sua terribile ricomparsa con il Terrore, attraverso l’uso della ghigliottina e delle teste mozzate esibite, ancora sulle piazze, durante la Rivoluzione francese.
Nel sistema giuridico americano, dove tuttora esiste la pena di morte, cancellata invece in Europa, ha ricordato qui Giorgio Mariani, è contemplata l’uccisione del condannato mediante una iniezione letale, sistema indolore e privo di spettacolarità. Nella cultura puritana di quel paese, almeno sul suo territorio, è respinta come barbara ogni forma di decollazione: la testa non può e non deve essere separata dal corpo, il quale va conservato nella sua integrità nel momento in cui viene eseguita una sentenza di morte. L’orrore che hanno suscitato i filmati dell’ISIS proviene anche da questa tradizione, oltre che dal culto del corpo che negli ultimi settant’anni si è diffuso in Occidente. Questo nonostante che nei decenni passati in Europa, come in altri luoghi del Pianeta, siano accaduti fatti terribili, le guerre e i conseguenti massacri della ex-Jugoslavia, o le vicende del genocidio in Ruanda, con amputazioni, decapitazioni, squartamenti.
In Europa la decapitazione degli ostaggi americani e inglesi nelle mani dei membri dell’ISIS sono state vissute come un ritorno al passato, a pratiche medievali, barbariche. Che sopravvivono però nella nostra tradizione iconografica, almeno in quanto immagini di culto, che insieme condannano l’atto e suscitano compassione o devozione per la vittima, come quelle di san Giovanni Battista, o viceversa (con sinistra parentela di certe decollazioni odierne) vengono glorificate come atto pio, di giustizia e libertà, come nel caso di quella inflitta da Giuditta nei confronti di Oloferne, come ci ha ricordato non molti anni fa la mostra allestita da Julia Kristeva al Museo del Louvre, poi raccolta in La testa senza il corpo (Donzelli). C’è persino un santo, San Dionigi, protettore di Parigi, il cui miracolo è consistito nel mettersi sotto braccio la propria testa tagliata, per mano dei soldati romani, e risalire la collina che prende ora il suo nome nella capitale francese.
Per quanto espunto dalla nostra giustizia, l’orrore ritorna continuamente nelle nostre cronache. Si è letto solo poche settimane fa di una madre che avrebbe ucciso il proprio bambino, o di un padre che ha colpito a morte i propri figli e anche la moglie (anche l’altro giorno di nuovo). L’orrore è cosa ben diversa dal terrore che con gli atti di decapitazione l’ISIS vorrebbe provocare nel mondo occidentale, qualcosa di più profondo e radicale. La parola “orrore”, ricorda Adriana Cavarero, viene dal verbo latino horreo, di incerta etimologia ma di sicuro significato: indica il rizzarsi dei peli del corpo, il loro tremolio per via dello spavento. Secondo uno studio a rizzarsi sarebbero i capelli, azione inconsueta ma possibile, che si conserverebbe nel significato della parola italiana “orripilante”. La filosofa nel suo libro Orrorismo (Feltrinelli), il cui titolo costituisce un neologismo, sostiene che esiste una “fisica dell’orrore”, collegata a quella dell’agghiacciarsi, reazione fisiologica al freddo, che provoca la cosiddetta “pelle d’oca”. Sono tutti stati del corpo, reazioni, che colpiscono chi è esposto direttamente a spettacoli orripilanti.
Primo Levi, all’inizio della Tregua, descrive la reazione dei giovani soldati russi che raggiungono il Lager dove il deportato si trova nel gennaio del 1945. I russi osservano dall’alto dei loro cavalli lo spettacolo bestiale dei cumuli dei cadaveri abbandonati dai nazisti in fuga. Orrore e insieme ripugnanza, qualcosa di diverso dalla paura che in un libro, Poteri dell’orrore (Spirali), Julia Kristeva ha definito “ribrezzo”. C’è una figura classica che incarna perfettamente l’orrore di cui si parla: Medusa. La sua visione agghiaccia, paralizza, pietrifica. L’orrore è tale che chiunque ne fissi il viso – gli occhi, lo sguardo, ma anche i capelli a forma di serpenti come l’ha dipinta Caravaggio – viene trasformato in pietra. Quelle che si presentano al nostro sguardo nei film rilasciati nel web dai carnefici dell’ISIS sono immagini inguardabili, ripugnanti, che fanno ribrezzo. Lo scopo di questi carnefici non è solo quello di uccidere, bensì d’infierire sul corpo, esattamente come accadeva nei supplizi che precedono le riforme penali prodotte dall’Illuminismo nel diritto occidentale. Si vuole distruggere l’unità del corpo provocando negli spettatori l’orrore. Più questo, ribadisce Cavarero, che non il terrore.
C’è un’altra figura mitologica, che viene spesso evocata proprio per definire l’altro aspetto dell’orrore, cui ci hanno abituato le cronache recenti: Medea. Ripudiata da Giasone a vantaggio della figlia del re di Corinto, Medea uccide i suoi figli per vendetta, come racconta Euripide nella tragedia. Lei che aveva aiutato il suo uomo a conquistare il Vello d’oro, diventa il modello degli infanticidi a seguire. In una versione del mito citata da Károly Kerényi, Medea taglia a pezzi i corpi delle sue vittime, evocando così la fantasia orripilante dello smembramento. Adriana Cavarero sottolinea come non esista un analogo mito maschile per descrivere l’orrore dell’uccisione dei propri congiunti, e come l’orrore dell’infanticidio sia ascritto alla madre quale segno di una follia estrema. Per riscattare Medea, o almeno cercare di capire l’orrore che la abita, la filosofa ricorda un episodio presente nel libro di W. G. Sebald, Storia naturale della distruzione (Adelphi), dedicato ai bombardamenti con cui gli Alleati distrussero le città tedesche nel corso del Secondo conflitto mondiale. Durante una delle fughe dalle tempeste di fuoco, a una donna si aprì di colpo la valigia che recava con sé. Non conteneva gioielli, indumenti o oggetti, bensì il cadavere di un bambino, suo figlio. Sebald riporta altri casi da lui riscontrati, in cui le madri recarono con loro nella fuga corpi di bambini soffocati dal fumo o uccisi da altre cause durante i bombardamenti. Nella loro immensa disperazione, scrive Cavarero, in cui l’orrore le aveva colpite in profondità, queste donne cercavano di curare le loro inermi creature oltre la stessa morte. Un modo per salvare i corpi dall’orrore terribile di quella distruzione.
Davanti all’orrore delle immagini trasmesse dal web o sui canali televisivi, riportate nelle pagine dei giornali sotto forma di fotografie, a Gaza come in Afghanistan, in Cecenia come in Siria, possiamo decidere legittimamente di distogliere lo sguardo, cambiare canale, girare pagina, per non restare paralizzati, pietrificati da quello che si vede. Per quanto evochino qualcosa di pornografico – piacere morboso insieme all’orrore, com’è stato giustamente detto –, non possiamo esimerci dal sapere che queste immagini hanno un valore etico, come ci ha ricorda Susan Sontag in Davanti al dolore degli altri(Mondadori). Fanno sorgere domande decisive e ci rendono consapevoli del fatto che esseri umani commettono cose terribili nei confronti di altri esseri umani. Cavarero la chiama “la violenza sull’inerme”, ed è questo il vero orrore che suscitano in noi. Bisogna esserne consapevoli.
L’articolo è comparso in forma abbreviata su L’Espresso. Per le immagini:
http://www.doppiozero.com/rubriche/3/201502/orrore
UN PAPÀ TROPPE COSE INSIEME PER ESSERE VERO. Forse i due soli strumenti del cosiddetto genitore-modello (in sé una contraddizione in termini) che valgono da sempre sono le qualità umane: la capacità di ascoltare e la capacità di usare la parola
di Paolo Di Stefano, corriere.it, 24 febbraio 2015
Virile e femminile, paterno e materno, autorevole e affabile, forte e sexy, vicino e lontano. Il nuovo papà, delineato al summit di San Francisco Dad 2.0, è troppe cose insieme per essere vero. Troppi aggettivi. Una sfilza di aggettivi qualificativi che tolgono valore alla sola cosa che conta, il sostantivo: padre. Il convegno americano ha messo insieme esperti, psicologi, psicoanalisti, sociologi, blogger che «condividono in rete il nuovo modo di essere papà», per definire il solo ruolo al mondo che non sopporta l’esemplarità valida per tutti, perché ognuno è genitore a suo modo, nel bene e nel male.
Per continuare:
http://www.corriere.it/opinioni/15_febbraio_24/papa-troppe-cose-insieme-essere-vero-54c744f8-bc31-11e4-9889-956e36696542.shtml
Per continuare:
http://www.corriere.it/opinioni/15_febbraio_24/papa-troppe-cose-insieme-essere-vero-54c744f8-bc31-11e4-9889-956e36696542.shtml
UN DIO IN INCOGNITO IN SCENA ALLA PERGOLA. Una cosa comunque è certa: in questo testo c’è ben poco di gratificante o consolatorio
di Domenico Del Nero, totalita.it, 27 febbraio 2015
Tutti, forse persino gli atei più incalliti, sognano probabilmente di incontrare Dio. Non necessariamente per ringraziarlo o per adorarlo; qualcuno – probabilmente molti – per fargli le proprie rimostranze e far notare quanto, dove e come ha sbagliato. Ma sicuramente pochi immaginerebbero di trovarselo nello studio di casa propria, nelle vesti di un raffinato gentiluomo o ancor meno in quelle di un barbone; va bene che secondo alcuni Dio predilige gli ultimi, però almeno la camicia pulita…
Eppure certe cose possono accadere per davvero: forse non in una Chiesa (per quanto… mai mettere limiti alla Provvidenza!) ma in un teatro sì. E’ quanto ha immaginato il celebre scrittore e drammaturgo belga Éric-Emmanuel Schmitt nel suo dramma Il visitatore, da martedì in scena al teatro fiorentino della Pergola con la traduzione, adattamento e regia di Valerio Binasco. Forse è eccessivo e persino blasfemo dire uno spettacolo recitato in modo… divino, ma straordinario senz’altro sì e il pubblico, giustamente, ha santificato il tutto con grandi applausi. Una cosa comunque è certa: in questo testo c’è ben poco di gratificante o consolatorio. Vincitore di tre premi Molière per il teatro, rappresentato per la prima volta nel 1993, è stato tradotto in 15 lingue e rappresentato in 25 paesi. L’edizione in corso alla Pergola si affida a due eccellenti protagonisti e a due discreti comprimari: Alessandro Haber nei panni del dottor Sigmund Freud e Alessio Boni nei panni di un misterioso visitatore che lascia intendere di essere nientemeno che il Principale in persona, o meglio in un corpo… di fortuna. Ma lo è veramente, o si tratta solo di un pazzo appena fuggito dal manicomio?
Per la verità, Haber e Boni danno vita a un vero… scontro tra titani, o come dice Boni, tra gladiatori. La scena di Carlo de Marino rappresenta lo studio del dottor Freud in una Vienna ormai occupata dai nazisti, i cui canti e le cui parate si odono sullo, in modo velato ma minaccioso. Freud e sua figlia Anna (Nicoletta Robello Bracciforti) discutono se sia o meno il caso di abbandonare l’Austria, quando un ufficiale della Gestapo (Alessandro Tedeschi) irrompe e arresta la figlia. Haber dà vita a un personaggio ormai stanco e malato, ma non per questo meno lucido e deciso a riaffermare con forza le ragioni di tutta una vita, difronte al misterioso visitatore che proprio in quella drammatica circostanza viene a far intendere di essere Dio, venuto a dimostrargli che in realtà la sua prospettiva è del tutto sbagliata. Ma Freud non rinuncia facilmente al suo ateismo da battaglia …
Haber e Boni si danno il cambio sul lettino dello psicanalista, ma quello che lasciano chiaramente intendere è che il vero “malato” sia il Novecento, che non per nulla a un certo punto il sedicente Dio definisce una delle epoche più crudeli della storia dell’umanità, in cui l’uomo ha voluto farsi divinità di se stesso. Parole pesanti che dal palcoscenico rimbalzano, o dovrebbero rimbalzare, nella coscienza dello spettatore grazie anche alla bravura di Boni, che si rivela un Dio… straordinariamente umano, capace anche di perdere la calma davanti alla superbia e alla cecità della sua creatura; mentre da parte sua il Freud di Haber difende in fondo non solo e non tanto la scienza, ma soprattutto il dolore e la sofferenza umana. “L’argomento dello spettacolo avvicina il pubblico perché sono domande, legate al senso della nostra esistenza, che toccano tutti noi” sottolinea Haber. “Credo che il testo sia perfetto in questo momento storico” dichiara Boni che rileva come il Dio di Schmitt non voglia convertire nessuno e parlare molto più di etica e di umanità che di religione. E senz’altro è così. Eppure, dalle pieghe del testo e anche dalla sua bellissima resa fiorentina, emerge in fondo che persino un ateo convinto e “razionalista” come Freud può aver bisogno di Dio e magari incontrarlo. Salvo poi nell’ultima scena sparargli addosso, pur senza colpirlo… Un grande spettacolo da vedere, meditare e soprattutto applaudire. Repliche sino a domenica 1 marzo: feriali ore 20.45, festivo ore 15,45.
http://www.totalita.it/articolo.asp?articolo=6751&categoria=1&sezione=8&rubrica=8
Eppure certe cose possono accadere per davvero: forse non in una Chiesa (per quanto… mai mettere limiti alla Provvidenza!) ma in un teatro sì. E’ quanto ha immaginato il celebre scrittore e drammaturgo belga Éric-Emmanuel Schmitt nel suo dramma Il visitatore, da martedì in scena al teatro fiorentino della Pergola con la traduzione, adattamento e regia di Valerio Binasco. Forse è eccessivo e persino blasfemo dire uno spettacolo recitato in modo… divino, ma straordinario senz’altro sì e il pubblico, giustamente, ha santificato il tutto con grandi applausi. Una cosa comunque è certa: in questo testo c’è ben poco di gratificante o consolatorio. Vincitore di tre premi Molière per il teatro, rappresentato per la prima volta nel 1993, è stato tradotto in 15 lingue e rappresentato in 25 paesi. L’edizione in corso alla Pergola si affida a due eccellenti protagonisti e a due discreti comprimari: Alessandro Haber nei panni del dottor Sigmund Freud e Alessio Boni nei panni di un misterioso visitatore che lascia intendere di essere nientemeno che il Principale in persona, o meglio in un corpo… di fortuna. Ma lo è veramente, o si tratta solo di un pazzo appena fuggito dal manicomio?
Per la verità, Haber e Boni danno vita a un vero… scontro tra titani, o come dice Boni, tra gladiatori. La scena di Carlo de Marino rappresenta lo studio del dottor Freud in una Vienna ormai occupata dai nazisti, i cui canti e le cui parate si odono sullo, in modo velato ma minaccioso. Freud e sua figlia Anna (Nicoletta Robello Bracciforti) discutono se sia o meno il caso di abbandonare l’Austria, quando un ufficiale della Gestapo (Alessandro Tedeschi) irrompe e arresta la figlia. Haber dà vita a un personaggio ormai stanco e malato, ma non per questo meno lucido e deciso a riaffermare con forza le ragioni di tutta una vita, difronte al misterioso visitatore che proprio in quella drammatica circostanza viene a far intendere di essere Dio, venuto a dimostrargli che in realtà la sua prospettiva è del tutto sbagliata. Ma Freud non rinuncia facilmente al suo ateismo da battaglia …
Haber e Boni si danno il cambio sul lettino dello psicanalista, ma quello che lasciano chiaramente intendere è che il vero “malato” sia il Novecento, che non per nulla a un certo punto il sedicente Dio definisce una delle epoche più crudeli della storia dell’umanità, in cui l’uomo ha voluto farsi divinità di se stesso. Parole pesanti che dal palcoscenico rimbalzano, o dovrebbero rimbalzare, nella coscienza dello spettatore grazie anche alla bravura di Boni, che si rivela un Dio… straordinariamente umano, capace anche di perdere la calma davanti alla superbia e alla cecità della sua creatura; mentre da parte sua il Freud di Haber difende in fondo non solo e non tanto la scienza, ma soprattutto il dolore e la sofferenza umana. “L’argomento dello spettacolo avvicina il pubblico perché sono domande, legate al senso della nostra esistenza, che toccano tutti noi” sottolinea Haber. “Credo che il testo sia perfetto in questo momento storico” dichiara Boni che rileva come il Dio di Schmitt non voglia convertire nessuno e parlare molto più di etica e di umanità che di religione. E senz’altro è così. Eppure, dalle pieghe del testo e anche dalla sua bellissima resa fiorentina, emerge in fondo che persino un ateo convinto e “razionalista” come Freud può aver bisogno di Dio e magari incontrarlo. Salvo poi nell’ultima scena sparargli addosso, pur senza colpirlo… Un grande spettacolo da vedere, meditare e soprattutto applaudire. Repliche sino a domenica 1 marzo: feriali ore 20.45, festivo ore 15,45.
http://www.totalita.it/articolo.asp?articolo=6751&categoria=1&sezione=8&rubrica=8
STATO ISLAMICO: POSSIAMO CAPIRE LA SUA PSICOLOGIA?
di Luciano Casolari, ilfattoquotidiano.it, 27 febbraio 2015
Nell’ultimo anno il così detto Stato islamico (Is) si è imposto all’attenzione dei mezzi di comunicazione. Pur trattandosi di un numero limitato di combattenti, stime apparse sui giornali parlano di cinquantamila, è riuscito ad imporsi sul piano mediatico inculcando terrore nei suoi avversari e attrazione da parte di giovani sostenitori. Recentemente la vicenda di tre giovani ragazze partite dall’Occidente per recarsi in questa zona di guerra ha destato scalpore. Soprattutto per noi, è difficile comprendere come una ragazza emancipata, secondo il modello occidentale, possa desiderare di recarsi in una zona ove c’è una guerra e le donne subiscono il potere maschile.
Il primo punto da analizzare è il rapporto fra individualismo e senso di appartenenza a una comunità. In Occidente si è dato, negli ultimi secoli, sempre più risalto all’individuo che risulta essere portatore di desideri propri e che si arroga il diritto di ricercare una sua personale felicità. L’uomo occidentale si sente solo marginalmente facente parte di una comunità religiosa, politica o territoriale e sempre più cittadino di un mondo globale in cui, da solo, deve cercare un suo spazio vitale. Il messaggio dell’Is è, al contrario, un messaggio indistinto comunitario. È vero che c’è un califfo ma, come succede nelle realtà tribali, il capo è parte della massa che per altro appare indistinta e amalgamata. Avere i volti coperti da turbanti esprime plasticamente l’immagine del gruppo indistinto in cui tutti si sentono facenti parte di un unicum omogeneo. È chiaro che, soprattutto in età adolescenziale, il messaggio dell’appartenenza ha un grande fascino. Anche in Occidente gli adolescenti cercano il senso di appartenenza; a volte in modo fisiologico, vestendosi tutti alla stessa maniera o partecipando allo stesso concerto, e a volte in modo patologico frequentando gli hooligan o bande dedite alle droghe o ad ogni estremismo. La forza attrattiva dello Stato islamico è quella di fornire, in particolare all’adolescente, un punto di riferimento che offre sicurezza rispetto all’incertezza dell’individualismo e alle sfide che l’essere solo di fronte al mondo pone alla nostra vita.
Il secondo punto, che si ricollega al primo, riguarda le dinamiche di gruppo. Secondo il famoso psicoanalista W. Bion ogni individuo, quando viene a far parte di un gruppo, assume alcuni “assunti di base” che corrispondono a una mentalità, impulsi irrazionali, pensieri e desideri. Uno degli assunti di base più diffusi è quello di dover lottare contro un nemico. Delegare la complessità della nostra funzione desiderante a un desiderio collettivo che offra uno sfogo al disagio che, eventualmente, sentiamo dentro di noi permette di sentirci improvvisamente in pace con noi stessi. Il senso d’ansia, che prima ci attanagliava, improvvisamente si placa. Lo stesso meccanismo, d’altro canto, lo vediamo anche nella nostra politica quando gruppi enormi di persone seguono un leader che riesce ad indicare un avversario, come ad esempio i politici o gli immigrati, e incanala in questo modo l’ansia collettiva verso un nemico. La dinamica di gruppo dell’Is si avverte in modo emblematico nelle esecuzioni collettive in cui un “noi indistinto” sgozza un “loro altrettanto indistinto”. La ferocia è espressione e forza del gruppo che, al contrario del singolo, non si fa impietosire e non attua dei distinguo scacciando da sé il senso di colpa che, quindi, singolarmente non viene avvertito.
Il terzo elemento è forse il più subdolo e complesso. La società consumistica si basa sulla necessità che i consumi aumentino sempre. Il famoso Pil deve crescere costantemente per alimentare un processo produttivo verso beni che l’individuo deve desiderare. Ma come imporre a una persona che ha tutto di desiderare e comprare ancora qualcosa? Ponendolo in una condizione esistenziale di sofferenza perenne. Se qualcuno è felice non desidera e non compera. Neanche chi è disperato desidera. Bisogna, quindi, indurre miliardi di persone ad essere insoddisfatte tramite una pubblicità ossessiva e invadente in cui appare che c’è sempre un telefonino più performante del tuo, un’auto ultimo modello che ha qualcosa che la tua non ha, una modella che mostra una magrezza che tu non riuscirai mai a raggiungere. Questa insoddisfazione esistenziale è una componente essenziale del consumismo e pervade la nostra società. Il messaggio basico dello Stato islamico è invece quello della semplicità e della delega del desiderio a qualcosa che ti trascende come può essere l’immagine di Dio e del trionfo di un’idea del mondo. La forza che esprime si manifesta nella possibilità che un singolo, per il bene comune, decida di perdere la propria vita facendo il kamikaze. Di fronte alla mollezza del giovane occidentale che desidera l’iPhone 6, si staglia come un gigante chi è disposto a mettere a rischio la vita per un bene comune superiore.
Questi tre elementi, che finora ho elencato, da un punto di vista psicoanalitico esprimono la ribellione dell’Es rispetto al Super Io. L’Es, in psicologia, rappresenta un amalgama inconscia di bisogni, desideri, spinte e pulsioni fra cui campeggia quello che Freud descriveva come istinto di morte e cioè il desiderio inconscio di un ritorno allo stato primitivo indifferenziato da cui proveniamo. Il Super-Io, in parte inconscio ma soprattutto cosciente, è quella componente psicologica che ci detta le regole morali e le proibizioni. Lo Stato Islamico libera i suoi militanti dalle proibizioni del Super-Io per permettere di dispiegare le pulsioni basiche dell’Es. Per questo motivo risulta attrattivo verso i giovani adolescenti occidentali.
Naturalmente, accanto a questi elementi psicologici del profondo, vi sono elementi di psicologia più superficiale legati al senso di emarginazione che gruppi di persone, per fede o per motivi economici, possono vivere, alla sensazione di non essere accolti e al sentimento di rifiuto contraccambiato. Non credo, al contrario di ciò che pensano alcuni commentatori, che la fede religiosa sia importante ma piuttosto risulta un pretesto come successe nel caso di Hitler con gli ebrei.
Le persone occidentali che si arruolano nell’Is non sono, generalmente, malate mentalmente. Possono presentare tratti di personalità problematici. Possiamo ritenere che molti ragazzi avvertano il fascino di un messaggio così truce e netto come quello propagandato dallo Is, soprattutto se li coglie nelle fasi adolescenziali. Se si andasse a leggere su Facebook ciò che scrivono gli adolescenti scopriremmo molti messaggi estremisti e un rapporto di attrazione verso la violenza e la morte. Fortunatamente solo pochi avranno il coraggio o la convinzione per arruolarsi in queste milizie.
In questo scritto non affronto la domanda “cosa fare per contrastare, a livello psicologico, quest’idea del mondo?”. Prima di tutto occorre conoscere per poi poter mettere a punto delle strategie. Vorrei avere dai lettori suggerimenti e considerazioni che possano servire ad elaborare una risposta a questa fondamentale domanda.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/02/27/stato-islamico-possiamo-capire-la-sua-psicologia/1461435
Il primo punto da analizzare è il rapporto fra individualismo e senso di appartenenza a una comunità. In Occidente si è dato, negli ultimi secoli, sempre più risalto all’individuo che risulta essere portatore di desideri propri e che si arroga il diritto di ricercare una sua personale felicità. L’uomo occidentale si sente solo marginalmente facente parte di una comunità religiosa, politica o territoriale e sempre più cittadino di un mondo globale in cui, da solo, deve cercare un suo spazio vitale. Il messaggio dell’Is è, al contrario, un messaggio indistinto comunitario. È vero che c’è un califfo ma, come succede nelle realtà tribali, il capo è parte della massa che per altro appare indistinta e amalgamata. Avere i volti coperti da turbanti esprime plasticamente l’immagine del gruppo indistinto in cui tutti si sentono facenti parte di un unicum omogeneo. È chiaro che, soprattutto in età adolescenziale, il messaggio dell’appartenenza ha un grande fascino. Anche in Occidente gli adolescenti cercano il senso di appartenenza; a volte in modo fisiologico, vestendosi tutti alla stessa maniera o partecipando allo stesso concerto, e a volte in modo patologico frequentando gli hooligan o bande dedite alle droghe o ad ogni estremismo. La forza attrattiva dello Stato islamico è quella di fornire, in particolare all’adolescente, un punto di riferimento che offre sicurezza rispetto all’incertezza dell’individualismo e alle sfide che l’essere solo di fronte al mondo pone alla nostra vita.
Il secondo punto, che si ricollega al primo, riguarda le dinamiche di gruppo. Secondo il famoso psicoanalista W. Bion ogni individuo, quando viene a far parte di un gruppo, assume alcuni “assunti di base” che corrispondono a una mentalità, impulsi irrazionali, pensieri e desideri. Uno degli assunti di base più diffusi è quello di dover lottare contro un nemico. Delegare la complessità della nostra funzione desiderante a un desiderio collettivo che offra uno sfogo al disagio che, eventualmente, sentiamo dentro di noi permette di sentirci improvvisamente in pace con noi stessi. Il senso d’ansia, che prima ci attanagliava, improvvisamente si placa. Lo stesso meccanismo, d’altro canto, lo vediamo anche nella nostra politica quando gruppi enormi di persone seguono un leader che riesce ad indicare un avversario, come ad esempio i politici o gli immigrati, e incanala in questo modo l’ansia collettiva verso un nemico. La dinamica di gruppo dell’Is si avverte in modo emblematico nelle esecuzioni collettive in cui un “noi indistinto” sgozza un “loro altrettanto indistinto”. La ferocia è espressione e forza del gruppo che, al contrario del singolo, non si fa impietosire e non attua dei distinguo scacciando da sé il senso di colpa che, quindi, singolarmente non viene avvertito.
Il terzo elemento è forse il più subdolo e complesso. La società consumistica si basa sulla necessità che i consumi aumentino sempre. Il famoso Pil deve crescere costantemente per alimentare un processo produttivo verso beni che l’individuo deve desiderare. Ma come imporre a una persona che ha tutto di desiderare e comprare ancora qualcosa? Ponendolo in una condizione esistenziale di sofferenza perenne. Se qualcuno è felice non desidera e non compera. Neanche chi è disperato desidera. Bisogna, quindi, indurre miliardi di persone ad essere insoddisfatte tramite una pubblicità ossessiva e invadente in cui appare che c’è sempre un telefonino più performante del tuo, un’auto ultimo modello che ha qualcosa che la tua non ha, una modella che mostra una magrezza che tu non riuscirai mai a raggiungere. Questa insoddisfazione esistenziale è una componente essenziale del consumismo e pervade la nostra società. Il messaggio basico dello Stato islamico è invece quello della semplicità e della delega del desiderio a qualcosa che ti trascende come può essere l’immagine di Dio e del trionfo di un’idea del mondo. La forza che esprime si manifesta nella possibilità che un singolo, per il bene comune, decida di perdere la propria vita facendo il kamikaze. Di fronte alla mollezza del giovane occidentale che desidera l’iPhone 6, si staglia come un gigante chi è disposto a mettere a rischio la vita per un bene comune superiore.
Questi tre elementi, che finora ho elencato, da un punto di vista psicoanalitico esprimono la ribellione dell’Es rispetto al Super Io. L’Es, in psicologia, rappresenta un amalgama inconscia di bisogni, desideri, spinte e pulsioni fra cui campeggia quello che Freud descriveva come istinto di morte e cioè il desiderio inconscio di un ritorno allo stato primitivo indifferenziato da cui proveniamo. Il Super-Io, in parte inconscio ma soprattutto cosciente, è quella componente psicologica che ci detta le regole morali e le proibizioni. Lo Stato Islamico libera i suoi militanti dalle proibizioni del Super-Io per permettere di dispiegare le pulsioni basiche dell’Es. Per questo motivo risulta attrattivo verso i giovani adolescenti occidentali.
Naturalmente, accanto a questi elementi psicologici del profondo, vi sono elementi di psicologia più superficiale legati al senso di emarginazione che gruppi di persone, per fede o per motivi economici, possono vivere, alla sensazione di non essere accolti e al sentimento di rifiuto contraccambiato. Non credo, al contrario di ciò che pensano alcuni commentatori, che la fede religiosa sia importante ma piuttosto risulta un pretesto come successe nel caso di Hitler con gli ebrei.
Le persone occidentali che si arruolano nell’Is non sono, generalmente, malate mentalmente. Possono presentare tratti di personalità problematici. Possiamo ritenere che molti ragazzi avvertano il fascino di un messaggio così truce e netto come quello propagandato dallo Is, soprattutto se li coglie nelle fasi adolescenziali. Se si andasse a leggere su Facebook ciò che scrivono gli adolescenti scopriremmo molti messaggi estremisti e un rapporto di attrazione verso la violenza e la morte. Fortunatamente solo pochi avranno il coraggio o la convinzione per arruolarsi in queste milizie.
In questo scritto non affronto la domanda “cosa fare per contrastare, a livello psicologico, quest’idea del mondo?”. Prima di tutto occorre conoscere per poi poter mettere a punto delle strategie. Vorrei avere dai lettori suggerimenti e considerazioni che possano servire ad elaborare una risposta a questa fondamentale domanda.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/02/27/stato-islamico-possiamo-capire-la-sua-psicologia/1461435
IL CONTRATTACCO DEL PROFESSORE ACCUSATO DI PARAGONARE I MATRIMONI GAY ALL’ISIS. Lettera di Mario Binasco, ascoltato dalla Commissione Giustizia del Senato, e poi attaccato dall’Espresso. Che gli attribuisce frasi mai pronunciate e titoli mai esibiti
di Mario Binasco, tempi.it, 27 febbraio 2015
Gentile direttore, le chiedo ospitalità per informare lei e i suoi lettori di un’istruttiva disavventura che mi sta capitando: e lo chiedo a lei perché il suo giornale mi sembra tra i pochi per i quali l’esistenza reale delle persone è più importante della compulsione ideologica ad eliminarle, nel caso linciandole mediaticamente.
Giovedì 19 febbraio la Commissione Giustizia del Senato ha invitato anche me, oltre a vari membri di associazioni famigliari, a fare osservazioni e commenti al disegno di legge Cirinnà sulle unioni civili in quella che si chiama un’audizione. Ingenuamente ritenevo che “audizione” significasse che la Commissione era interessata a sentire le ragioni degli invitati, e quindi sono rimasto basito quando durante il discorso di un’invitata due senatori sono usciti dall’aula atteggiandosi ad offesi da quella che era una normalissima argomentazione. Basito perché, mi sono detto, se il semplice argomentare è offensivo allora siamo messi male: soprattutto perché a fare gli offesi erano due padroni di casa, a dirsi aggrediti erano due potenti: ma d’altronde questa è una parte che solo i (pre)potenti possono giocare: è Caifa a stracciarsi le vesti, non Gesù, ed è sempre il lupo a fare l’offeso, mai l’agnello.
Comunque veniamo a quanto mi riguarda direttamente. Come penso lei sappia – o come può venire a sapere facilmente – io sono professore stabile straordinario di Psicologia e psicopatologia delle relazioni famigliari al Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per studi sul matrimonio e la famiglia presso l’Università Lateranense, e professionalmente faccio l’analista da quaranta anni, attualmente faccio parte de l’Ecole de Psychanalyse des Forums du Champ Lacanien di cui sono Analyste Membre. Ero stato invitato, credo, per via della mia esperienza analitica, clinica e di riflessione teorica: e comunque io ho cercato di dire qualcosa a partire da questa, tenendomi ad alcune affermazioni fondamentali e profetiche del mio maestro Jacques Lacan.
Senza farla lunga, il nocciolo del mio discorso consisteva in una messa in guardia, che andava ben al di là del testo di quella legge, sul quale intervenivano altri: in sostanza, dicevo, l’esperienza della psicoanalisi testimonia dell’esistenza di un livello della realtà umana e sociale che è costitutivo della vita del soggetto e dei suoi legami, livello inconscio, nel quale si elabora il rapporto e la dipendenza del soggetto dal reale, anche quello sessuale, (“castrazione”), attraverso la funzione della madre e la funzione del padre (Lacan).
Per questo segnalavo come un problema il fatto che la nostra civiltà capitalistica cerchi sempre più di disconoscere l’esistenza e la rilevanza di questo livello, realizzando l’illusione di poter ignorare il reale come limite. Ricordavo il fatto che per certo femminismo americano nascere con un corpo di donna è in se stesso un’ingiustizia (così come è un’ingiustizia il fatto che due corpi dello stesso sesso non possano procreare), dunque che il reale da cui dipendiamo è ingiusto: e che i nuovi “diritti” sono proposti precisamente come riparazione a questa sostanziale ingiustizia del nostro esistere reale. Mi dicevo perciò preoccupato da un modo di legiferare che continuerebbe a sviluppare questo tipo di “diritti” fondati sulla previa negazione del livello di competenza originaria del soggetto: il guaio di questi diritti è che il loro unico arbitro è lo stato, e che più lo stato prescinde dal livello originario delle competenze e relazioni della persona, più lo stato conforma la società al modello del campo di concentramento. Freud aveva individuato proprio nella struttura intrinseca della sessualità umana e della pulsione di morte l’origine del disagio della civiltà, di cui l’analista si occupa.
E a proposito dei campi di concentramento Lacan sosteneva che sarebbero stati il problema del futuro, che i nazisti erano stati dei precursori, perché “il nostro avvenire di mercati comuni avrà come contrappeso un’estensione sempre più dura dei processi di segregazione” come conseguenza della “universalizzazione che la scienza introduce nei gruppi sociali”: disagio della civiltà e campi, questo il gaio orizzonte del nostro presente e avvenire, conseguenza dell’uso della scienza per negare e sopprimere la singolarità delle persone. Non stupisce che, come esiste un negazionismo dei campi e delle camere a gas, possa esistere un negazionismo psicologico e antropologico: e dovremmo verificare questo atteggiamento, prima di metterci a discutere di ricerche scientifiche sulla felicità dei bambini. Che si tratti, per ora, di un “campo” consumistico a tre o quattro stelle, non ne cambia la natura mortifera.
Dicevo dunque che ero là a parlare per lealtà con l’esperienza mia, di Freud e di Lacan. Invitavo a considerare l’importanza crescente nella nostra società della domanda di morte come rovescio del rapporto maniacale con l’oggetto di godimento (sempre Lacan) che oggi domina: l’offerta di morte che ora appare in forma inedita nella pubblicità che ne fa l’Isis e la conseguente domanda di morte manifesta nelle adesioni che essa suscita. Segnalavo che il reale, si può anche ignorarlo, ma non lo si elimina. Tutti temi che si trovano anche in libri di analisti lacaniani vicini politicamente alla sinistra.
Bene: il giorno dopo il sito dell’Espresso titolava: “Matrimoni gay? Come l’Isis”. La dichiarazione choc in Aula, facendo il mio nome e mettendo a sostegno un lungo virgolettato a mo’ di sintesi del mio intervento: inutile dire che la sintesi non era mia, alla faccia delle virgolette. Mi telefonava una giornalista del Fatto quotidiano per farmi dire insistentemente se io “avevo paragonato il decreto Cirinnà all’Isis”: frase evidentemente cretina, che mi sono rifiutato di commentare. La giornalista però mi aveva interpellato come “Mario Binasco, della Ecole européénne de psychanalyse”: e non capivo perché mi chiamasse così, visto che sia io che altri colleghi ci eravamo staccati da quell’associazione psicoanalitica quindici anni fa e piuttosto polemicamente.
L’ho scoperto giorni dopo, quando sempre il sito dell’Espresso titolava “Il prof ha mentito sulla carica accademica”, e poi nel testo ripetute affermazioni del fatto che avrei mentito ad una commissione parlamentare, che avrei millantato titoli accademici, che partecipo a “battaglie omofobiche orientate a distruggere la vita di milioni di italiani e italiane” (dice Grillini, al limite del delirio di persecuzione), come se il disagio nella civiltà io l’avessi creato, invece di dargli il nome che merita. Mi sembra di aver capito che qualche segretaria parlamentare, pasticciando, deve aver messo vicino al mio nome quella membership scaduta da un bel po’ invece che i titoli attuali.
Tanto per chiarire: l’Ecole européénne de psychanalyse non era un istituto accademico, ma una associazione di psicoanalisti, perciò dire di esserne docente equivarrebbe a dire di essere docenti del circolo del bridge, non essendoci niente da millantare; in secondo luogo, essendone venuto via criticamente, dovrei essere impazzito per dire di esserne membro: sai che fierezza di appartenere a un gruppo che sono felice di aver lasciato! Questo assurdo però non può essere sfuggito al dott. Domenico Cosenza, che sembra sia oggi un responsabile di quella sigla, e di cui l’Espresso cita lunghe dichiarazioni: la prima è che “Binasco si presenta ecc.”: a parte il fatto che Binasco, come tutti al Senato, non “si presenta” ma “è presentato”, mi sto ancora chiedendo perché Cosenza ha sentito il bisogno di distruggere l’immagine stimabile che ancora conservavo di lui, reggendo il gioco a questa gentaglia.
La seconda dichiarazione che sente il bisogno di fare è che “le idee espresse da Binasco riguardo alla questione delle unioni omosessuali distano anni luce” dalle loro ecc.: non so di quanti anni luce Cosenza si sia allontanato da Freud e Lacan, e se per caso abbia scoperto che il disagio della civiltà (e della sessualità) non esiste e che i soggetti bambini vengono su tranquilli come i funghi, senza bisogno di crisi edipiche e di castrazione. Sarei comunque curioso di sapere a quali mie idee Cosenza si riferisce, dato che non ho mai espresso idee sulle unioni omosessuali: infatti, per essere proprio sincero, devo dire che come analista non mi importa nulla di come la gente usa il proprio corpo sessuato (finché non viene a parlarmi di quello che non va e che il sesso non rimedia). Ciò di cui mi importa veramente è la logica e il metodo assassini e totalitari con cui un potere anonimo cerca di ridurre la società ad un grande campo di concentramento biopolitico di tipo orwelliano (M.Foucault), sfruttando le rivendicazioni dei movimenti lgbt, oggi, e domani sarà quel che vorrà il despota di turno: sai che valorizzazione della sessualità umana!
La facilità con cui questi diffamano e trattano da cretino chiunque cerchi di pensare, comunque, dà un’idea precisa di quanto tengono in conto la realtà delle persone. Anche Cosenza conosce bene quell’aforisma di Lacan: “ciò che è rigettato dal simbolico, riappare nel reale”: non viene a nessuno il dubbio che l’Isis sia il ritorno nel reale di qualcosa di fondamentale ostinatamente rigettato dal simbolico dell’occidente?
Grazie per l’attenzione.
Mario Binasco
http://www.tempi.it/contrattacco-del-professore-accusato-paragonare-matrimoni-gay-isis#.VPDC0PmG-YI
Giovedì 19 febbraio la Commissione Giustizia del Senato ha invitato anche me, oltre a vari membri di associazioni famigliari, a fare osservazioni e commenti al disegno di legge Cirinnà sulle unioni civili in quella che si chiama un’audizione. Ingenuamente ritenevo che “audizione” significasse che la Commissione era interessata a sentire le ragioni degli invitati, e quindi sono rimasto basito quando durante il discorso di un’invitata due senatori sono usciti dall’aula atteggiandosi ad offesi da quella che era una normalissima argomentazione. Basito perché, mi sono detto, se il semplice argomentare è offensivo allora siamo messi male: soprattutto perché a fare gli offesi erano due padroni di casa, a dirsi aggrediti erano due potenti: ma d’altronde questa è una parte che solo i (pre)potenti possono giocare: è Caifa a stracciarsi le vesti, non Gesù, ed è sempre il lupo a fare l’offeso, mai l’agnello.
Comunque veniamo a quanto mi riguarda direttamente. Come penso lei sappia – o come può venire a sapere facilmente – io sono professore stabile straordinario di Psicologia e psicopatologia delle relazioni famigliari al Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per studi sul matrimonio e la famiglia presso l’Università Lateranense, e professionalmente faccio l’analista da quaranta anni, attualmente faccio parte de l’Ecole de Psychanalyse des Forums du Champ Lacanien di cui sono Analyste Membre. Ero stato invitato, credo, per via della mia esperienza analitica, clinica e di riflessione teorica: e comunque io ho cercato di dire qualcosa a partire da questa, tenendomi ad alcune affermazioni fondamentali e profetiche del mio maestro Jacques Lacan.
Senza farla lunga, il nocciolo del mio discorso consisteva in una messa in guardia, che andava ben al di là del testo di quella legge, sul quale intervenivano altri: in sostanza, dicevo, l’esperienza della psicoanalisi testimonia dell’esistenza di un livello della realtà umana e sociale che è costitutivo della vita del soggetto e dei suoi legami, livello inconscio, nel quale si elabora il rapporto e la dipendenza del soggetto dal reale, anche quello sessuale, (“castrazione”), attraverso la funzione della madre e la funzione del padre (Lacan).
Per questo segnalavo come un problema il fatto che la nostra civiltà capitalistica cerchi sempre più di disconoscere l’esistenza e la rilevanza di questo livello, realizzando l’illusione di poter ignorare il reale come limite. Ricordavo il fatto che per certo femminismo americano nascere con un corpo di donna è in se stesso un’ingiustizia (così come è un’ingiustizia il fatto che due corpi dello stesso sesso non possano procreare), dunque che il reale da cui dipendiamo è ingiusto: e che i nuovi “diritti” sono proposti precisamente come riparazione a questa sostanziale ingiustizia del nostro esistere reale. Mi dicevo perciò preoccupato da un modo di legiferare che continuerebbe a sviluppare questo tipo di “diritti” fondati sulla previa negazione del livello di competenza originaria del soggetto: il guaio di questi diritti è che il loro unico arbitro è lo stato, e che più lo stato prescinde dal livello originario delle competenze e relazioni della persona, più lo stato conforma la società al modello del campo di concentramento. Freud aveva individuato proprio nella struttura intrinseca della sessualità umana e della pulsione di morte l’origine del disagio della civiltà, di cui l’analista si occupa.
E a proposito dei campi di concentramento Lacan sosteneva che sarebbero stati il problema del futuro, che i nazisti erano stati dei precursori, perché “il nostro avvenire di mercati comuni avrà come contrappeso un’estensione sempre più dura dei processi di segregazione” come conseguenza della “universalizzazione che la scienza introduce nei gruppi sociali”: disagio della civiltà e campi, questo il gaio orizzonte del nostro presente e avvenire, conseguenza dell’uso della scienza per negare e sopprimere la singolarità delle persone. Non stupisce che, come esiste un negazionismo dei campi e delle camere a gas, possa esistere un negazionismo psicologico e antropologico: e dovremmo verificare questo atteggiamento, prima di metterci a discutere di ricerche scientifiche sulla felicità dei bambini. Che si tratti, per ora, di un “campo” consumistico a tre o quattro stelle, non ne cambia la natura mortifera.
Dicevo dunque che ero là a parlare per lealtà con l’esperienza mia, di Freud e di Lacan. Invitavo a considerare l’importanza crescente nella nostra società della domanda di morte come rovescio del rapporto maniacale con l’oggetto di godimento (sempre Lacan) che oggi domina: l’offerta di morte che ora appare in forma inedita nella pubblicità che ne fa l’Isis e la conseguente domanda di morte manifesta nelle adesioni che essa suscita. Segnalavo che il reale, si può anche ignorarlo, ma non lo si elimina. Tutti temi che si trovano anche in libri di analisti lacaniani vicini politicamente alla sinistra.
Bene: il giorno dopo il sito dell’Espresso titolava: “Matrimoni gay? Come l’Isis”. La dichiarazione choc in Aula, facendo il mio nome e mettendo a sostegno un lungo virgolettato a mo’ di sintesi del mio intervento: inutile dire che la sintesi non era mia, alla faccia delle virgolette. Mi telefonava una giornalista del Fatto quotidiano per farmi dire insistentemente se io “avevo paragonato il decreto Cirinnà all’Isis”: frase evidentemente cretina, che mi sono rifiutato di commentare. La giornalista però mi aveva interpellato come “Mario Binasco, della Ecole européénne de psychanalyse”: e non capivo perché mi chiamasse così, visto che sia io che altri colleghi ci eravamo staccati da quell’associazione psicoanalitica quindici anni fa e piuttosto polemicamente.
L’ho scoperto giorni dopo, quando sempre il sito dell’Espresso titolava “Il prof ha mentito sulla carica accademica”, e poi nel testo ripetute affermazioni del fatto che avrei mentito ad una commissione parlamentare, che avrei millantato titoli accademici, che partecipo a “battaglie omofobiche orientate a distruggere la vita di milioni di italiani e italiane” (dice Grillini, al limite del delirio di persecuzione), come se il disagio nella civiltà io l’avessi creato, invece di dargli il nome che merita. Mi sembra di aver capito che qualche segretaria parlamentare, pasticciando, deve aver messo vicino al mio nome quella membership scaduta da un bel po’ invece che i titoli attuali.
Tanto per chiarire: l’Ecole européénne de psychanalyse non era un istituto accademico, ma una associazione di psicoanalisti, perciò dire di esserne docente equivarrebbe a dire di essere docenti del circolo del bridge, non essendoci niente da millantare; in secondo luogo, essendone venuto via criticamente, dovrei essere impazzito per dire di esserne membro: sai che fierezza di appartenere a un gruppo che sono felice di aver lasciato! Questo assurdo però non può essere sfuggito al dott. Domenico Cosenza, che sembra sia oggi un responsabile di quella sigla, e di cui l’Espresso cita lunghe dichiarazioni: la prima è che “Binasco si presenta ecc.”: a parte il fatto che Binasco, come tutti al Senato, non “si presenta” ma “è presentato”, mi sto ancora chiedendo perché Cosenza ha sentito il bisogno di distruggere l’immagine stimabile che ancora conservavo di lui, reggendo il gioco a questa gentaglia.
La seconda dichiarazione che sente il bisogno di fare è che “le idee espresse da Binasco riguardo alla questione delle unioni omosessuali distano anni luce” dalle loro ecc.: non so di quanti anni luce Cosenza si sia allontanato da Freud e Lacan, e se per caso abbia scoperto che il disagio della civiltà (e della sessualità) non esiste e che i soggetti bambini vengono su tranquilli come i funghi, senza bisogno di crisi edipiche e di castrazione. Sarei comunque curioso di sapere a quali mie idee Cosenza si riferisce, dato che non ho mai espresso idee sulle unioni omosessuali: infatti, per essere proprio sincero, devo dire che come analista non mi importa nulla di come la gente usa il proprio corpo sessuato (finché non viene a parlarmi di quello che non va e che il sesso non rimedia). Ciò di cui mi importa veramente è la logica e il metodo assassini e totalitari con cui un potere anonimo cerca di ridurre la società ad un grande campo di concentramento biopolitico di tipo orwelliano (M.Foucault), sfruttando le rivendicazioni dei movimenti lgbt, oggi, e domani sarà quel che vorrà il despota di turno: sai che valorizzazione della sessualità umana!
La facilità con cui questi diffamano e trattano da cretino chiunque cerchi di pensare, comunque, dà un’idea precisa di quanto tengono in conto la realtà delle persone. Anche Cosenza conosce bene quell’aforisma di Lacan: “ciò che è rigettato dal simbolico, riappare nel reale”: non viene a nessuno il dubbio che l’Isis sia il ritorno nel reale di qualcosa di fondamentale ostinatamente rigettato dal simbolico dell’occidente?
Grazie per l’attenzione.
Mario Binasco
http://www.tempi.it/contrattacco-del-professore-accusato-paragonare-matrimoni-gay-isis#.VPDC0PmG-YI
COURBET E “L’ORIGINE DEL MONDO”, STORIA DI UNO SVELAMENTO
di Virginia Zullo, daringtodo.com, 28 febbraio 2015
Il libro di Thierry Savantier, nel ricostruire la storia dei passaggi di mano della celebre tela di Courbet mostra anche la sua storia di clandestinità e mistero. Un quadro custodito sempre velato, svelandosi spezza l’incantesimo che l’avvolgeva
Thierry Savantier, nel libro “Courbet, L’origine del mondo – Storia di un quadro scandaloso” (Medusa edizioni) ripercorre le vicissitudini della famosa tela dipinta da Gustave Courbet nel 1866.Gustave Courbet, nato a Ornans nel 1819 fu un pittore profondamente comunista, amava la società reale che spesso ha dipinto nelle sue meravigliose tele, basti pensare a Le vagliatrici di grano del 1853. Innamorato della libertà di se stesso dichiarò: “Ho cinquant’anni ed ho sempre vissuto libero; lasciatemi finire libero la mia vita; quando sarò morto voglio che questo si dica di me: Non ha fatto parte di alcuna scuola, di alcuna chiesa, di alcuna istituzione, di alcuna accademia e meno che meno di alcun sistema: l’unica cosa a cui è appartenuto è stata la libertà”. Solo nell’ultimo periodo della sua vita si dedicherà a quelli che vengono definiti soggetti erotici, bellissimi nudi femminili tra i quali spiccano per sensualità e bellezza L’origine del mondo e Il sonno. La sua parabola umana ed artistica ne fa un gigante della storia dell’arte, un gigante però troppo dedito all’alcol, muore infatti in Svizzera nel 1877 in seguito alle complicazioni dovute ad una cirrosi epatica. Il libro “Courbet, L’origine del mondo, storia di un quadro scandaloso”, densissimo (più di trecento pagine), racconta la storia del quadro da quando Courbet lo dipinse per un ricco collezionista d’arte turco, Khalil-Bey, bon vivant, dandy e, ovviamente, molto amante dal gentil sesso. L’evocazione erotica, il gusto del mistero, l’essenza carnale e sensuale di questa vagina potrebbe risultare démodé oggi dopo l’avvento dell’industria pornografica. A giudicare dal vero e proprio affanno che caratterizza la ricostruzione tanto puntuale ed attenta dei vari passaggi di mano del quadro, sembrerebbe che da parte di Thierry Savantier l’oggetto quadro venga in qualche modo investito di un grande valore forse, mi permetto l’ironia, confondendo il quadro con l’oggetto rappresentato. Il libro, minuzioso e a tratti maniacale, ha il grande pregio di ricostruire anche il modo in cui per anni L’origine del mondo è stato guardato. Questa modalità di approccio alla tela è ciò che più di ogni altra cosa ci svela la verità di un quadro che più che scandalizzare evocava un qualche mistero.
Per continuare:
http://www.daringtodo.com/lang/it/2015/02/28/courbet-e-l-origine-del-mondo-storia-di-uno-svelamento/
Thierry Savantier, nel libro “Courbet, L’origine del mondo – Storia di un quadro scandaloso” (Medusa edizioni) ripercorre le vicissitudini della famosa tela dipinta da Gustave Courbet nel 1866.Gustave Courbet, nato a Ornans nel 1819 fu un pittore profondamente comunista, amava la società reale che spesso ha dipinto nelle sue meravigliose tele, basti pensare a Le vagliatrici di grano del 1853. Innamorato della libertà di se stesso dichiarò: “Ho cinquant’anni ed ho sempre vissuto libero; lasciatemi finire libero la mia vita; quando sarò morto voglio che questo si dica di me: Non ha fatto parte di alcuna scuola, di alcuna chiesa, di alcuna istituzione, di alcuna accademia e meno che meno di alcun sistema: l’unica cosa a cui è appartenuto è stata la libertà”. Solo nell’ultimo periodo della sua vita si dedicherà a quelli che vengono definiti soggetti erotici, bellissimi nudi femminili tra i quali spiccano per sensualità e bellezza L’origine del mondo e Il sonno. La sua parabola umana ed artistica ne fa un gigante della storia dell’arte, un gigante però troppo dedito all’alcol, muore infatti in Svizzera nel 1877 in seguito alle complicazioni dovute ad una cirrosi epatica. Il libro “Courbet, L’origine del mondo, storia di un quadro scandaloso”, densissimo (più di trecento pagine), racconta la storia del quadro da quando Courbet lo dipinse per un ricco collezionista d’arte turco, Khalil-Bey, bon vivant, dandy e, ovviamente, molto amante dal gentil sesso. L’evocazione erotica, il gusto del mistero, l’essenza carnale e sensuale di questa vagina potrebbe risultare démodé oggi dopo l’avvento dell’industria pornografica. A giudicare dal vero e proprio affanno che caratterizza la ricostruzione tanto puntuale ed attenta dei vari passaggi di mano del quadro, sembrerebbe che da parte di Thierry Savantier l’oggetto quadro venga in qualche modo investito di un grande valore forse, mi permetto l’ironia, confondendo il quadro con l’oggetto rappresentato. Il libro, minuzioso e a tratti maniacale, ha il grande pregio di ricostruire anche il modo in cui per anni L’origine del mondo è stato guardato. Questa modalità di approccio alla tela è ciò che più di ogni altra cosa ci svela la verità di un quadro che più che scandalizzare evocava un qualche mistero.
Per continuare:
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ANATRELLA: «SCONVOLGERE L’IDENTITÀ SESSUALE È PREMESSA PER IDEOLOGIE TOTALITARIE»
di Luciano Mola, avvenire.it, 28 febbraio 2015
«Una deriva culturale, sostenuta da una lobby intellettuale e politica potentissima, che rischia di minare alle radici le basi stesse della civiltà occidentale. Opporsi e reagire dovrebbe essere compito di tutte le persone di buona volontà». Lo sostiene monsignor Tony Anatrella, sacerdote e psicanalista francese, tra i massimi studiosi mondiali del ‘rischio gender’, autore di numerosi saggi sul tema. Ieri sera, al Centro culturale di Milano, ne ha presentati due, gli ultimi tradotti in italiano, La teoria del gender e l’origine dell’omosessualità e Il regno di Narciso, entrambi pubblicati dalla San Paolo.
Più volte lei ha sostenuto che all’origine del ‘gender’ c’è una grande bugia: pretendere cioè che l’identità sessuale si possa cambiare a piacimento, secondo una prospettiva immaginaria che non tiene conto del dato biologico. Perché è pericoloso incoraggiare questa convinzione?
Perché si rischia di creare le condizioni per un’immaturità diffusa della società. E se la società si ‘infantilizza’, va incontro ad un inevitabile arretramento e si disgrega. Quindi la convivenza sociale diventerebbe più difficile per tutti. Ci si illude di costruire libertà e invece si apre la strada al totalitarismo.
Per continuare:
http://www.avvenire.it/Cronaca/Pagine/Sconvolgere-lidentit-sessuale-premessa-per-ideologie-totalitarie-.aspx
«Una deriva culturale, sostenuta da una lobby intellettuale e politica potentissima, che rischia di minare alle radici le basi stesse della civiltà occidentale. Opporsi e reagire dovrebbe essere compito di tutte le persone di buona volontà». Lo sostiene monsignor Tony Anatrella, sacerdote e psicanalista francese, tra i massimi studiosi mondiali del ‘rischio gender’, autore di numerosi saggi sul tema. Ieri sera, al Centro culturale di Milano, ne ha presentati due, gli ultimi tradotti in italiano, La teoria del gender e l’origine dell’omosessualità e Il regno di Narciso, entrambi pubblicati dalla San Paolo.
Più volte lei ha sostenuto che all’origine del ‘gender’ c’è una grande bugia: pretendere cioè che l’identità sessuale si possa cambiare a piacimento, secondo una prospettiva immaginaria che non tiene conto del dato biologico. Perché è pericoloso incoraggiare questa convinzione?
Perché si rischia di creare le condizioni per un’immaturità diffusa della società. E se la società si ‘infantilizza’, va incontro ad un inevitabile arretramento e si disgrega. Quindi la convivenza sociale diventerebbe più difficile per tutti. Ci si illude di costruire libertà e invece si apre la strada al totalitarismo.
Per continuare:
http://www.avvenire.it/Cronaca/Pagine/Sconvolgere-lidentit-sessuale-premessa-per-ideologie-totalitarie-.aspx
I più recenti pezzi apparsi sui quotidiani di Massimo Recalcati e Sarantis Thanopulos sono disponibili su questo sito rispettivamente ai link:
http://www.psychiatryonline.it/rubrica/4545
http://www.psychiatryonline.it/rubrica/4788
(Fonte: http://rassegnaflp.wordpress.com)
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