Riflessioni (in)attuali
Uno sguardo psicoanalitico sulla vita comune
di Sarantis Thanopulos

Il diavolo veste ISIS

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22 marzo, 2015 - 10:45
di Sarantis Thanopulos

Sui media si susseguono le denunce sul mostro del momento: l’Isis.
Sono accorate ma inefficaci: le uccisioni barbariche e l’oscurantismo alienante creano smarrimento e indignazione, ma, nella sostanza, lasciano il tempo che trovano. Le immagini raccapriccianti bruciano nel tempo breve della loro messa in onda.
Isis è una prova attendibile dell’inganno che sorregge la difesa, stanca e ripetitiva, del “diritto all’informazione”.
Il novanta per cento del materiale (immagini, cronache, analisi) proposto dai media sull’ennesima messa in scena della ferocia umana, non informa perché non chiarisce nulla e non dà strumenti di riflessione reali.
Garantisce, piuttosto, il piacere, che fa mercato, di assistere in diretta allo spettacolo del carnefice e della vittima, da sempre fonte d’attrazione per folle di spettatori. Il meccanismo del piacere ha radici inconsce nel masochismo dell’identificazione con l’aggredito e nel sadismo dell’identificazione con l’aggressore. In fondo, il meccanismo che rende attraenti i film dell’orrore. Un matrimonio tra il sollievo di assistere a un annientamento che sembra venirci addosso, sapendo che non ci colpirà, e l’eccitazione di partecipare alla forza annientante esenti di colpe. Ci si immedesima inconsciamente con il potere di vita e di morte sull’altro, la più importante delle tentazioni del diavolo, e lo si esorcizza consciamente.
In “Dopo la Tragedia”, un breve ma intenso saggio, Jean-Luc Nancy dice che le catastrofi della nostra epoca hanno prodotto devastazioni prive “di senso, di provenienza, di verità”.
Con la fine della Tragedia, abbiamo perso la capacità di coniugare pathos e ethos, di interrogare i disastri umani alla ricerca di un senso. Le catastrofi si ripetono uguali, trascinando nell’abisso anche la loro verità, la possibilità del lutto.
La presentazione della ferocia distruttiva attraverso il circuito mediatico soggiace a un’importante limitazione. Il fatto offerto crudo e nudo colma il vuoto di rappresentazione che l’azione distruttiva determina, agisce come allucinazione che maschera l’assenza di significato.
Poiché il fatto è costruito appositamente per la platea mediatica (e con la sua complicità di fondo) l’effetto allucinatorio è più grave. Si assiste alla tragedia senza dispositivo catartico: l’orrore prende il posto del terrore e la compassione gira a vuoto.
Ogni catastrofe rimanda a un nostro fallimento di fronte al dilemma che domina lo spazio tragico della nostra esistenza: il punto in cui sentiamo costretti a scegliere tra noi e l’altro, sapendo, tuttavia, che la sua perdita ucciderebbe la nostra capacità di desiderare, mentre la sua permanenza metterebbe a rischio la nostra sopravvivenza. In questo dilemma, in cui sono impigliati quelli dell’Isis, ci stiamo incastrando, a nostra volta, con loro.
Il dilemma è irrisolvibile e, restandoci dentro, si impazzisce. Si uccide nell’altro la parte desiderante di sé: “Non ti desidero, posso vivere senza di te, senza desiderare”. Dal dilemma si esce solo se si ripercorre a ritroso la strada che ha portato nel suo vicolo cieco.
Non comprendiamo Isis guardando la sua mostruosità.
Dobbiamo andare indietro nel tempo, per restituire ai carnefici il loro destino di esseri umani: il loro (nostro) procedere verso la cattiva sorte, attraverso la concatenazione di gravi errori preterintenzionali, compiuti senza la consapevolezza delle loro implicazioni nefaste. Per valutare questi errori col senno di poi e correre ai ripari.
Presi dal nostro voyeurismo, viviamo, invece, come ciechi nell’errore di prima, che sfocerà, dandogli tempo, nel disastro definitivo di dopo.

 
 
 
 
 
 
 
 

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