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I rapporti simbiotici tra Gestalt e Analisi Transazionale

26 Giu 15

Di Omar-Montecchiani
ABSTRACT
L’articolo intende sottolineare, a partire da due differenti impianti teorici – Gestalt e Analisi Transazionale –,  gli aspetti di dipendenza e di simbiosi riguardanti le cosiddette “relazioni fusionali”: mettendo in evidenza sia le derive negative del fenomeno, sia le sue forme “non patologiche”.
 
Secondo la prospettiva gestaltica esiste un blocco, all’interno del ciclo di contatto, chiamato "confluenza". L’assenza di una differenziazione tra le parti, nella struttura psicofisica della persona, nell’alternanza chiara e ben definita di figura e sfondo all’interno dell’esperienza, è ciò che costituisce la “confluenza”.
In ogni contatto, sostiene la Gestalt, vi è un processo di consapevolezza nel quale una figura, staccatasi dallo sfondo, fa si che venga mobilitata l’energia necessaria capace di soddisfare il bisogno che quella figura venuta in primo piano rappresenta. Può trattarsi di un bisogno fisico come di un bisogno psicologico; oppure ancora relazionale, e dunque affettivo. Nel caso della confluenza, il soggetto interviene inconsapevolmente e in modo manipolatorio rispetto a questo bisogno, di modo che le sue funzioni recettive vengano distorte al punto tale, che la figura in primo piano rimanga impigliata con lo sfondo (che rappresenta la dimensione di riposo dell’organismo), dal quale comunque tenterà di riemergere, seppure in un secondo momento e in modo anacronistico rispetto alla situazione attuale. Se vengono inibite alcune parti di sé, ad esempio, è possibile che due figure negate rimangano “schiacciate” nello sfondo entrando in conflitto tra loro, rimanendo in questo senso confuse senza possibilità di soddisfazione né da parte dell’una, né da parte dell’altra.
Questo succede ad esempio quando da bambini il bisogno di piangere viene frustrato in modo intollerabile. In questo caso il bambino metterà in moto dei meccanismi psicologici attraverso i quali negherà quel bisogno, e quindi quella parte di sé cui il bisogno rimanda. Nel momento in cui una determinata espressività viene frustrata, negata, o addirittura ignorata, il bambino preferisce negare egli stesso il bisogno, il comportamento, in cui si radica quella espressività, piuttosto che esperire nuovamente il dolore del rifiuto da parte dell’altro importante. L’esempio classico è quello del bambino che si protende verso la madre cercando di abbracciarla: la madre, che rifiuta questo comportamento perché magari non tollera il contatto fisico troppo stretto, si ritira anche solo vagamente. Il bambino contrae i muscoli delle spalle e delle braccia, sviluppando nel tempo delle tensioni muscolo-scheletriche così profonde, di cui a volte potrà rendersi conto, in futuro, soltanto con un massaggio. A questo punto, il momento del ciclo del contatto in cui il bisogno si è presentato e si ripresenterà, potrà essere – per il bambino che diventerà adulto e che avrà innescato inconsciamente dentro di sé questo meccanismo di difesa – un disturbo dell’esperienza di contatto, che verrà riproposto all’interno delle relazioni attuali. Così, quando il bisogno del pianto emergerà in figura alla percezione cosciente, verrà represso attraverso un moto di rabbia, ad esempio, che si tradurrà somaticamente in un trattenimento muscolare del diaframma. In questo senso, esso rimarrà sempre sullo sfondo, entrando in conflitto con altre figure: le quali tenteranno invano di staccarsi dallo sfondo stesso, in quanto legate tra loro mediante spinte energetiche contrapposte ed equivalenti. L’incapacità di respirare, che verrà a svilupparsi in questo movimento conflittuale di inibizione, produrrà angoscia.
A partire da questa dinamica dunque, possiamo dire che sarà molto difficile uno fluido sviluppo del ciclo: una normale crescita, a partire dalla piena espressione delle potenzialità della persona, nonché la soddisfazione dei naturali bisogni e desideri – perché vi sarà un tentativo sempre frustrato di riemersione e di completamento delle figure. È la famosa “coazione a ripetere” freudiana, tradotta secondo altre categorie.
La confluenza, in questo caso, da meccanismo di sopravvivenza necessario al rapporto tra madre e bambino (all’interno del campo empatico e nutritivo tra i due, ad esempio), potrà diventare con il tempo un sistema di difesa nevrotico per non esperire un contatto consapevole con il proprio ambiente; e viceversa, con quelle parti interne di sé che sono necessariamente interconnesse all’ambiente stesso.
Per ambiente qui possiamo intendere sia gli elementi biologici necessari al nutrimento; sia le persone con le quali interloquiamo e incontriamo ogni giorno. Soprattutto, in questo contesto, le persone con le quali siamo maggiormente legati.
Nel senso che abbiamo brevemente delineato finora, l’individuo confluente cercherà, all’interno dei suoi rapporti con gli altri, e soprattutto con rispetto ai propri partner, quelle persone capaci di permettergli di evitare la consapevolezza di quelle parti di sé inibite, rispetto alle quali tuttavia proverà inconsciamente di ritornare, tentando di soddisfarle indirettamente: desidererà cioè dei rapporti fusionali.
Qual è l’elemento “relazionale” dunque, capace quantomeno di predisporre a questa inibizione sin da piccoli, e quindi a incanalare il bambino che diventerà adulto verso la scelta di possibili rapporti fusionali?
Gli atteggiamenti morali, comportamentali, ed emozionali di tipo “normativo” espressi dai propri genitori – sia volontari che involontari –; tutte le regole, le idee, che assumiamo dalle persone per noi importanti, nel momento in cui non vengono assimilati dal bambino, non vengono cioè “masticati” – e quindi differenziati in elementi a lui potenzialmente utili e necessari rispetto alle proprie effettive esigenze, da una parte; e in elementi disfunzionali ai propri bisogni dall’altra –, diventano, nel linguaggio gestaltico, degli introietti. Il bambino cioè “inghiotte” i diktat genitoriali “per intero”, condizionando in questo modo i suoi comportamenti con gli altri, e al tempo stesso il fluido articolarsi delle proprie spinte interne rispetto all’ambiente. Non riesce in questo senso a differenziarsi. La sua vita – relazionale, emotiva, comportamentale, cognitiva –, viene allora a essere governata dagli slogan genitoriali: “Devi sempre mettere al primo posto i bisogni degli altri”; “Devi lavorare duro”; “Non esprimere mai quello che provi”; “Chi piange è un debole”, ecc.
È a partire da questo momento che essi diventeranno degli “assoluti” inconsapevoli, i quali verranno a tradursi, sia fisicamente che psicologicamente, in modo inibitorio[1].
Gli introietti genitoriali investono necessariamente la libera espressione da parte del bambino dei propri bisogni ed emozioni. L’individuo che in qualche modo non riesce a disgregare positivamente questi assunti, si trova a cedere, come effetto di ciò, a un conflitto interno a partire da uno stato di “eccitazione irrisolto”. Se l’autorità coercitiva dei genitori, o comunque dell’altro importante, blocca in qualche modo l’energia emozionale o il bisogno alla radice, il movimento spontaneo del bambino verso l’esterno (o il bambino la percepisce come bloccante), il soggetto che vive il conflitto tra la necessità di esprimere ciò che prova, e il desiderio di non contrariare l’autorità genitoriale di cui anela il riconoscimento, si trova a identificarsi, pur di sopravvivere, con l’introietto stesso, che di solito rappresenta la parte del conflitto vincitrice[2].
Da questo momento in poi, come dice Perls, il Sé sarà espugnato.
Vi saranno tutta una serie di fissazioni – relazionali, comportamentali, psicologiche (la Gestalt fonde insieme tutti questi aspetti considerando l’organismo in modo olistico) –, capaci di tenere legata la persona a una determinata situazione, o a una determinata persona, senza tuttavia poter trarre da essa alcun giovamento, né, dall’altra parte, potersi staccare da essa. In questo stato, da adulti, le persone hanno paura di ferire qualcuno a partire dalla loro aggressività inibita e al tempo stesso temono di venir feriti a loro volta, nella proiezione del proprio desiderio inconscio di ferire, derivato da quella aggressività precedentemente inibita e bloccata sul nascere. Vivono cioè una situazione di stallo, in cui rimangono incollate a qualcuno senza tuttavia potersene sganciare, né, di converso, potersi sentire a proprio agio e aderenti a ciò che provano veramente. Non riescono a tollerare le differenze nell’altro, da una parte, e dell’altra hanno paura di scoprire le proprie risorse interne. Hanno bisogno dell’altro accettante, nutriente, il quale possa amarli in modo incondizionato, ma al tempo stesso temono di esserne soffocati; desiderano esprimere ciò che provano intimamente, ma hanno il terrore di essere rifiutati per questo.
In questa continua oscillazione tragica, a partire dal bisogno incondizionato dell’altro mai soddisfatto, spesso si aggiunge quella fenomenologia cognitiva ed emozionale così drammatica ben rappresentata nella sua forma estrema dal disturbo bordeline di personalità. L’altro di cui ho estremamente bisogno, il quale potrebbe colmare illusoriamente quel vuoto d’amore passato, o viene idealizzato al massimo grado nel momento in cui quel vuoto diventa angosciante, ed egli è effettivamente presente nella nostra vita per come noi lo desideriamo in modo proiettivo; oppure, di converso, viene messa in atto una svalutazione distruttiva verso di lui, quando si presenta ai nostri occhi a partire dai propri confini autentici (quindi con i suoi desideri, bisogni, emozioni), rispetto al nostro desiderio di incondizionatezza e di fusione – e quindi nella sua temibile, sartriana libertà. Nel momento della svalutazione egli appare soffocante, invadente, oppure ancora fastidioso, in quanto viene a incarnare, per il soggetto che desidera fondersi con esso, lo spettro angosciante della consapevolezza della propria libertà, della propria solitudine e gettatezza.
Riassumendo, alla base della confluenza patologica, secondo la Gestalt, vi è sostanzialmente l’assimilazione inconsapevole di introietti genitoriali[3]. Introietti rispetto ai quali la persona mette in atto dei meccanismi – essi stessi inconsapevoli, automatici, e autoperpetuantesi – capaci di inibire le parti interne precedentemente scisse; legandole insieme a partire da quella stessa energia che avrebbe potuto mobilitare e differenziare quelle parti, e permettere così l’evolversi e l’ampliarsi dell’esperienza personale a partire da un allargamento del proprio campo cognitivo. Infatti, è solo nel caso in cui il nuovo divenga un “dovere”, o sia impastato con esso, che io non sono disposto a metterlo in discussione – e quindi a differenziarmi da esso –, se non al prezzo di forti sensi di colpa. Sensi di colpa che sono connessi, nel caso di una inaccettazione, alla ribellione nei confronti di una qualche autorità riconosciuta, con la quale appunto si è stabilita una confluenza passata importante.
Nello stato di confluenza tra individui, i soggetti che si rapportano tra loro hanno dunque smarrito i confini del proprio “Sé”.
A questo punto occorre effettuare una precisazione.
Nella teoria gestaltica non esiste effettivamente il cosiddetto “Io” inteso come struttura psichica interna stabile, sostanzialmente separata dall’ambiente, così come la concepisce la psicoanalisi classica freudiana. La Gestalt intende il Sé, invece, come l’insieme delle funzioni Io, Es e Personalità, le quali costituiscono il cosiddetto “confine di contatto” tra organismo e ambiente. È un sistema dell’organismo e al tempo stesso la struttura identitaria della persona, fondamentalmente, sia percettivo che propriocettivo, capace di integrare, assimilare e adattarsi creativamente, sia rispetto agli stimoli ambientali esterni, che ai bisogni personali emergenti dall’interno.
La funzione Es rappresenta l’insieme dei bisogni, delle pulsioni, degli eccitamenti corporei dell’organismo, e quindi quella dimensione inconscia, la quale si attiva soprattutto nella fase di pre-contatto. Dall’altra parte possiamo rappresentare la funzione Personalità, come quella struttura mobile, cosciente e responsabile, capace di integrare costruttivamente le esperienze (soprattutto relazionali), a posteriori (nel post contatto), all’interno di una immagine di sé in grado di sostenere, attraverso una continuità narrativa, l’identità storica e biografica della persona. La funzione Io è, sintetizzando al massimo, quella funzione “di mezzo”, la quale è in grado di collegarsi alla funzione Es e alla funzione Personalità, e quindi di collegarle tra loro, nel qui-ed-ora, decidendo attivamente quali sono i bisogni da soddisfare e quali no, da una parte; e dall’altra stabilendo quali sono le esperienze e le informazioni vitali rilevanti, che possono rientrare all’interno della immagine di sé desiderata. In questo senso, se avviene una perturbazione della funzione Io, la persona non sarà più in grado di discernere e contenere i bisogni e le emozioni, che potrebbe valutare come suscettibili di soddisfazione e di espressione; dall’altra parte ci sarà una mancata integrazione delle esperienze, rispetto al senso della propria identità personale.
Se ci sono degli introietti capaci di produrre delle resistenze, abitudini fissate, comportamenti ripetitivi, il soggetto porterà avanti una perdita di confini inintenzionale, durante le esperienze di contatto, le quali prevedono invece quasi sempre una attivazione intenzionale consapevole.
Nel caso della confluenza all’interno di un rapporto tra persone, allora, possiamo riassumere quanto segue: i soggetti sono in relazione con l'uno con l'altro a partire da una modalità di esperienza in cui le differenze reciproche tra sé e l’altro sono abolite, e si mantengono in tale stato fino a che non intervengano nuovi stati di consapevolezza – percettivi, cognitivi, comportamentali, emozionali – capaci di modificare queste modalità divenute oramai abituali. La persona, in questo caso, cerca solitamente di gestire la mancanza di senso di responsabilità e quindi il dolore della individuazione, legato a sua volta al senso di perdita, di abbandono, alla morte simbolica; ma anche soprattutto di riuscire a tollerare il timore di sensazioni ed emozioni nuove – cioè antiche ma mai negate precedentemente –, e che possono mettere a rischio il proprio sistema psichico, e il rapporto con l’altro dal quale dipende, provocando dolorosi sentimenti di angoscia.
La dipendenza dall'altro a partire dalla confluenza, fa si che ogni individuo intrappolato in questo tipo di rapporti viva forti sensi di colpa, oppure rabbia impotente, cioè risentimento. Se infatti viene interrotto questo stato di simbiosi, all’interno di un legame di coppia, ad esempio – per un motivo sia interno che esterno –, abbiamo questa duplice dinamica dicotomica escludente: o io addosso la colpa della separazione a me stesso, e in questo caso provo forti sensi di colpa; oppure addosso la colpa all’altro, e quindi provo risentimento. In entrambi i casi, abbiamo delle emozioni che non risolvono la situazione in positivo. Non portano cioè ad un effettivo cambio di marcia nel rapporto, a partire dal quale io vengo a differenziarmi dall’altro in un contatto autentico in cui mi permetto di comprendere le sue ragioni effettive; oppure ancora di provare piacere nei suoi confronti per la sua stessa persona – o di essere onesto nei confronti di me stesso.
Questo perché nella confluenza “originata” dalla introiezione, credo mio ciò che è tuo. L’organismo cioè, nel linguaggio gestaltico, scambia le pressioni ambientali esterne con i propri bisogni e desideri interni, lasciandosi guidare da condizionamenti che non hanno niente a che vedere con ciò che effettivamente egli prova, e con ciò di cui necessita.
Dall’altra parte, alla introiezione fa da contraltare la proiezione. Nella proiezione credo tuo ciò che è mio.
In questo meccanismo di difesa, vi è il tentativo di evitare di entrare in contatto con una parte di sé spiacevole e angosciante – o vissuta come tale a partire dalla inibizione che segue l’introiezione, come abbiamo visto –, individuando quella stessa parte nell’altro da sé. Se infatti una qualche emozione viene a essere inibita perché temuta, non perde per questo la sua carica energetica, che viene trasferita su un oggetto esterno. Tuttavia, se la proiezione in questo senso rappresenta un tentativo di autodifesa, in un secondo momento essa si ritorce drammaticamente sullo stesso soggetto che l’ha messa in atto. Se sono arrabbiato, infatti, ma non riconosco la mia rabbia perché temo di esserne travolto, penserò che gli altri ce l’abbiano con me, che siano arrabbiati con la mia persona. Al peso del conflitto interno viene a sostituirsi, a questo punto, un pensiero paranoico.
Ciò che si ha di mira quando si hanno questi atteggiamenti inconcludenti è ristabilire, attraverso una sorta di pensiero magico, infantile, quello stato di confluenza interrotta. Ma quel paradiso abitudinario, all’interno del quale la routine e l’irresponsabilità giocano una parte fondamentale nel creare degli schemi illusori e ripetitivi, capaci proteggere dalla messa in discussione dei nostri sistemi di riferimento, rischia sempre di crollare, di infrangersi. Basta un nonnulla per far si che le carte sul tavolo vengano sparigliate.
 
Nell'Analisi Transazionale, tale stato di simbiosi patologica è chiamato "fusione".
L’Analisi Transazionale, secondo il classico modello degli stati dell’Io elaborato da Berne, sostiene l’idea che all’interno della persona ci siano tre differenti stati fenomenologici psichici: Genitore, Adulto, Bambino. Ognuno di questi stati rappresenta un insieme di emozioni, comportamenti, convinzioni, i quali tuttavia si riferiscono a tempi e modalità fenomenologicamente differenti. Lo stato dell’Io Genitore[4], semplificando al massimo, rappresenta quell’insieme di regole genitoriali apprese nell’infanzia (Genitore normativo), ma anche quelle modalità comportamentali protettive (Genitore affettivo), capaci di permetterci una vita relazionale sostenibile da un punto di vista soprattutto sociale; lo stato dell’Io Bambino riassume tutti quegli elementi reattivi, creativi o adattivi, che abbiamo assunto come risposte all’ambiente durante l’infanzia (il modello qui distingue in Bambino Adattivo e Bambino Libero, considerando il primo come quello stato in cui io mi adatto alle regole genitoriali, sia positive che negative, e il secondo come quello stato a partire dal quale io non presto attenzione ad esse, ma anche quello in cui io mi sento privo di inibizioni e censure, creativo e spontaneo). L’Io Adulto, invece concretizza tutte le risposte consapevoli e responsabili, sia emotive che cognitive, che comportamentali, rispetto al qui-ed-ora dell’azione che si sta svolgendo, e utilizza tutte le risorse di adulto disponibili dalla persona. Questo modello, non rappresenta un insieme di stati psicologici determinati una volta per tutte e standardizzati, cioè identici in ogni individuo: è semplicemente un complesso di “nomi”, capace di definire e articolare tra loro un insieme di fenomeni molto diversi – come emozioni, comportamenti, pensieri – eppure collegati all’interno della persona e dei suoi rapporti.
Ogni persona avrà il proprio specifico contenuto, rispetto allo stato dell’Io Genitore che starà vivendo, ad esempio, a seconda di come avrà vissuto e risposto alle esperienze avute con i propri genitori.
Rispetto alla fusione, tornando ai diversi stati dell’Io utilizzabili dall’individuo, potrà verificarsi quella che l’Analisi Transazionale chiama “contaminazione”: e cioè uno scambio inconsapevole delle risposte e delle convinzioni dell’Io Genitore e dell’Io Bambino, con quelle che io credo essere le risposte e le convinzioni del mio Io Adulto. Ma anche una effettiva “esclusione” di uno o due stati dell’Io. Anche se l’esclusione di solito è sempre parziale e momentanea, nelle forme gravi di contaminazione è possibile giungere effettivamente a quello che definiamo uno stato psicotico estremo.
Nella fusione, per tornare al nostro argomento, entrambi i soggetti del rapporto escludono dai propri stati dell'Io uno o addirittura due stati su tre. Solitamente, in una qualsiasi "transazione", cioè in uno scambio verbale tra due persone all'interno di una comunicazione, l'uno si rapporta all'altro attraverso il proprio Io Genitore o il proprio Io Adulto; l'altro risponde attraverso il proprio Io Bambino. In questo senso, vengono utilizzati soltanto tre stati dell'Io, e non sei.
Così come nella confluenza, anche qui, nella fusione, la persona non riesce a sostenere il rischio della propria autonomia, la vertigine del senso di responsabilità, l'incertezza di una prospettiva indipendente e autentica.
Il prezzo di questa inaccettazione viene pagato secondo un doppio registro, sia esistenziale che psicologico. Da una parte, infatti, nella fusione patologica secondo l’Analisi Transazionale, io regredisco, nel tentativo di soddisfare dei bisogni mai soddisfatti (o non del tutto soddisfatti) nella prima infanzia, a un periodo inattuale rispetto al presente, mettendo in campo risorse e schemi di comportamento inadeguati alla situazione che sto vivendo ora. Dall'altra, proprio in virtù di questa regressione, le mie potenzialità di risoluzione di problemi, o molto più semplicemente i miei desideri di "adulto", i miei bisogni, emozioni ecc., saranno limitati al periodo infantile cui io cerco di ritornare, attraverso questo stesso tentativo di fusione.
Un bambino non ha le stesse risorse che può avere un adulto, e i suoi desideri e bisogni sono molto più difficili da gestire e da tollerare rispetto a un adulto: ecco perché, ulteriormente, il ritorno a uno stato fusionale a partire dall’ingresso nel proprio copione, rappresenta un impulso così irresistibile, e al tempo stesso così ripetitivo. Anche chi assume il ruolo dell'Io Genitore all'interno di un rapporto fusionale, occupa una posizione esistenziale "passata" rispetto al qui ed ora: infatti, anche in questo caso egli assume su di sé, nel momento presente, quelle ingiunzioni che da piccolo ha appreso dai propri genitori.
Questi comportamenti, hanno come spinta fondamentale la ricerca di sicurezza, la quale viene a essere rinforzata a partire dalla ripetizione del proprio copione.
La sicurezza in questo caso, secondo l'Analisi Transazionale, è data dal fatto che, nel rapporto fusionale, nonostante ci sia un tornaconto negativo in termini di emozioni parassite – cioè quelle emozioni “schermo” inautentiche, ma “accettate” dal proprio contesto familiare, e quindi capaci di farci ricevere in qualche modo attenzione dall’altro importante, e quindi carezze – la persona conferma dentro di sé, nella riproposizione di rapporti infantili inattuali, il proprio copione di vita.
Il copione, secondo la definizione di Berne, è “Un piano di vita che si basa su di una decisione presa durante l’infanzia, rinforzata dai genitori, giustificata dagli avvenimenti successivi, e che culmina in una scelta decisiva.”[5] In questo senso, anche l’Analisi Transazionale (come la Gestalt) sottolinea come i cosiddetti “messaggi di copione” genitoriali non rappresentano una determinante assoluta rispetto alle decisioni di copione del bambino, e cioè rispetto alle scelte secondo le quali strutturerà il corso della sua esistenza. Tuttavia, questi messaggi possono esercitare una notevole influenza su queste stesse decisioni. Infatti, è a partire dalle cosiddette contro ingiunzioni (messaggi verbali) e dalle ingiunzioni (messaggi non verbali) genitoriali, che il bambino formerà delle conclusioni su se stesso, sugli altri e sul mondo: sia positive, che negative. Le contro ingiunzioni e le ingiunzioni, che possono concretizzarsi in particolari tipi di comportamenti “spinta” (comportamenti che innescano lo schema di copione sul breve termine, minicopione), sono quindi a loro volta una delle matrici essenziali del piano di vita del bambino, e ogni contro ingiunzione potrà corrispondere a un particolare tipo di copione[6].
A livello degli stati dell’Io, possiamo schematizzare, secondo il modello di Steiner, quanto segue: i messaggi che originano dagli stati dell’Io Genitore della madre o del padre, vengono incamerati nell’Io Genitore del bambino; i messaggi “programma”, cioè che indicano come il bambino può fare le cose, ad esempio, provengono dall’Adulto del genitore, diventando il contenuto dell’Adulto del bambino; i messaggi inviati dal Bambino del genitore, ingiunzioni e permessi, verranno assimilati come un contenuto dell’Io bambino del bambino.
Al di là dei messaggi che verranno appresi e rimodellati, la domanda essenziale che resta al fondo di tutto, è questa: perché il copione è così importante nella vita del bambino? E perché viene riproposto addirittura in età adulta, in situazioni che hanno solo una vaga somiglianza formale rispetto alle decisioni e alle vicende infantili? La risposta è molto semplice: il copione ha garantito la sopravvivenza psicologica del bambino, e proprio per questo rappresenterà in seguito un sistema di riferimento così forte, irrinunciabile quasi, capace di sostenere ancora la persona. Se l’individuo ha un copione “perdente” di tipo “Mai”, secondo la definizione di “processo” di copione, ad esempio, avrà come tema fondamentale di copione “Io non posso mai avere quello che più desidero”. Vorrebbe avere un rapporto che abbia una certa costanza con una donna, ma in realtà non va “mai” in quei posti che potrebbero permettergli di incontrarne una; oppure ancora vorrebbe laurearsi, ma non è ancora “mai” andato a presentare i documenti all’università. Racconta i suoi guai ogni giorno, ai suoi amici, come se fosse la prima volta. C’è, in questo senso, un fortissimo elemento di autosabotaggio nei copioni, che devono riconfermare la persona necessariamente nella loro posizione esistenziale (Io sono Ok; Tu non sei Ok, ecc.) e nelle proprie decisioni infantili.
Quella stessa persona, di fronte a una realtà che tende a disconfermare lo schema di copione, si troverà sospesa sopra al baratro del vuoto rispetto alle nuove esperienze, e quindi di fronte a nuovi, vecchi aspetti di sé, che in passato ha appunto controllato magicamente autodeterminando il proprio psicodramma. In questo caso avviene ciò che in Analisi Transazionale viene chiamata “svalutazione”.
La svalutazione non è, come si potrebbe pensare, una valutazione critica negativa di ciò che la persona percepisce della realtà o delle parole dell’altro, della esperienza altrui ecc.: ma è una negazione degli elementi ambientali e di contesto, che possano lasciar emergere delle possibilità “altre”, rispetto al consueto modo di rappresentarsi la realtà a partire dal proprio copione.
Una volta entrata nel copione cioè, la persona cancella quelle informazioni capaci di creare soluzioni funzionali ai propri problemi, di modo che il mondo che percepisce collimi con le decisioni e con le convinzioni di copione che ha sviluppato da piccolo.
Sono in un ristorante e attendo da mezzora che il cameriere mi serva la mia portata: faccio dei gesti, ma lui non sembra notare i miei sforzi. Questa situazione di stress, anche minimo, mi proietta all’interno del mio copione infantile passato. In modo del tutto inconsapevole, torno a quel tempo in cui cercavo di chiamare mia madre e lei non è venuta da me. Provo emozioni di impotenza, sconfitta, avvilimento. La situazione presente cioè, sia per la pressione che esercita su di me, che per la somiglianza con una situazione particolarmente dolorosa passata, funge da “elastico”. Mi riproietta cioè emotivamente, cognitivamente e a livello comportamentale, in quella stessa situazione passata, e quindi alla scelta che in quel momento il mio Io Bambino ha operato. Dico a me stesso “Per quanto possa provare a chiamarlo, lui non verrà mai”. In questo momento ho svalutato tutte le opzioni che, da persona adulta, ho a mia disposizione. Avrei potuto alzarmi e andare a parlare con il cameriere di persona, oppure andare a lamentarmi del servizio con il direttore – ma non l’ho fatto. Ora sto svalutando gli altri stati dell’Io, nella riproposizione di un sistema di riferimento legato a quelle decisioni di copione che hanno rappresentato per me delle modalità di sopravvivenza così importanti in passato.
Nei rapporti di dipendenza patologica anche non grave, incontriamo le stesse dinamiche di svalutazione della realtà, e quindi dell’altro, e della situazione che si sta vivendo, le quali si inseriscono in rapporti fusionali a due, i quali, come abbiamo accennato, concretizzano un aspetto importante della funzione di copione della simbiosi. La quale si rivela, nei rapporti di questo genere, secondo dinamiche psicologiche specifiche.
Ad esempio, non è infrequente che ci siano tra i partner delle forti dinamiche di collusione, e cioè il tentativo di risolvere i propri conflitti interni delegando all’altro, il quale vive il problema complementare in un ruolo rovesciato, la soluzione di questo conflitto. Prendiamo il caso del marito che, in casa, assume il ruolo di “genitore” protettivo, controllante, ed emotivamente congelato, che prende tutte le decisioni; e della moglie "bambina"[7] che si adegua passivamente, e al tempo stesso felicemente, a questo ruolo, soddisfatta solo di piacere al marito. Entrambi continuano a farsi del male escludendo nuove possibilità di realizzazioni esistenziali e relazionali; e al tempo stesso dipendono da questo rapporto fusionale, nel tentativo di esaudire dei bisogni insoddisfatti, negati, legati all’infanzia della propria persona. Il marito nega a se stesso la possibilità di esprimere liberamente la propria creatività e immaginazione, le proprie emozioni positive, a partire dal Bambino Libero, in cambio dell’attenzione incondizionata della moglie; la moglie irresponsabile cerca di sedurre costantemente il marito, in cambio della sicurezza offertagli dal Genitore dell’altro, ma a discapito della possibilità di realizzare un progetto di vita capace di riflettere autenticamente le proprie passioni e desideri, di realizzare quella autonomia effettiva datagli, eventualmente, dall’esercizio del proprio io Adulto. Entrambi, tuttavia, soddisfano in questo modo quel bisogno di sicurezza minimo, il quale è rappresentato dalla riproposizione di antichi schemi relazionali, che hanno costituito un fondamentale pilastro nella sopravvivenza psicologica del bambino di fronte a un ambiente percepito come ostile. L’uno accudisce l’altra perché non riesce ad accudire se stesso; l’altra vuole essere accudita perché non riesce ad accudire. Entrambi svalutano parti essenziali di sé.
Ma la stessa autosvalutazione, con il tempo, paradossalmente, farà si che i partner accumulino un risentimento tale, capace prima o poi di mettere in crisi il rapporto, e quindi di portare a una separazione. Vi è una ambivalenza conflittuale in tutto questo, un'altalena esistenziale che fa si che le stesse dinamiche relazionali vengano a riproporsi ciclicamente all'interno di diversi rapporti costituiti dalle stesse caratteristiche individuali. Prima o poi, il timore che l’altro si ritiri, da una parte confermerà la convinzione secondo la quale io “non riesco a stare in piedi da solo” – ed è proprio questa convinzione paradossalmente che riesce a mantenere l’apparente caratteristica di stabilità della simbiosi; ma dall’altra, un evento qualsiasi, farà si che uno dei due soggetti si difenda e addirittura cerchi di ritirarsi da questa fusione, oramai divenuta scomoda, in un tentativo di autonomia che potrà mettere in crisi questa modalità di rapportarsi all’altro, rovesciando i ruoli finora stabilitisi.
I soggetti del rapporto fusionale si appoggiano l'uno all'altro negando se stessi per non affrontare aspetti di sé scomodi, che nascondono una insicurezza di fondo. Tuttavia, questa stessa negazione fa si che il rapporto di dipendenza, rispetto al quale traggono una certa sicurezza e stabilità, vada a sfaldarsi nel tempo, riproponendo una nuova, vecchia insicurezza, che cercherà di essere ricolmata da un nuovo identico rapporto. Infatti, come avviene effettivamente nei cosiddetti giochi[8], che altro non sono se non dei tentativi cognitivi, comportamentali ma soprattutto dialettici per portare avanti il proprio copione di vita, vi è un momento del gioco in cui le posizioni tra vittima e persecutore vengono scambiate, ed entrambi i partner si trovano a vivere un ruolo rovesciato rispetto all’inizio del gioco. È qui che il cosiddetto “tornaconto” di copione, cioè il rinforzo in termini di emozioni negative, delle proprie decisioni copioniche infantili e della propria posizione esistenziale (il famoso “Io non sono Ok”, “Tu sei Ok, insieme a tutte le altre varianti), vengono rinsaldate. Se da bambino, nel rapporto fusionale con mia madre, mi sono sentito in qualche modo privato di attenzioni quando ne avevo necessità – di solito, sostiene l’Analisi Transazionale, il distacco relazionale viene avvertito intuitivamente dal bambino a partire dalla osservazione dei segnali non verbali inconsapevoli della madre –, posso decidere che, paradossalmente, l’unico modo per ottenere attenzioni sarà quello di sentirmi rifiutato, mettendo in atto dei comportamenti capaci di catalizzare l’attenzione della mamma, seppure al costo, appunto, di un suo ulteriore rifiuto. “Qualsiasi carezza è meglio di nessuna carezza”, dice Berne. In questo caso, da adulto, il bambino rifiutato giocherà al famoso gioco “Dammi un calcio”: cercherà cioè delle donne che prima o poi gli opporranno un rifiuto; oppure le perseguiterà attraverso un atteggiamento di gelosia insistente, o in altro modo, fino a che queste non se ne andranno.
Il circolo vizioso si ripete all'interno di una autoperpetuazione inconsapevole e drammatica.
 
Esistono tuttavia delle forme di confluenza sana, che non solo è possibile sostenere, ma è necessario vivere, per poter far si che, anche nel presente, possiamo avere accesso a risorse, emozioni e piaceri, utili ad un sano vivere. In Gestalt viene riferito l’esempio del cibo.
Dopo che siamo diventati consapevoli, infatti, della masticazione del cibo, del suo sapore, e averlo inghiottito, lasciamo che esso si trasformi in energia e venga assimilato dal nostro organismo, divenendo così parte di quelle risorse che l’organismo in precedenza già possedeva. In questo senso, l’energia interna alla persona e l’energia del cibo sono confluenti. Un altro esempio è costituito dalla acquisizione delle nuove consapevolezze. Di fronte a quanto già si conosce, una nuova informazione fa si che io mi mobiliti per accettare, respingere – oppure accettare o respingere parzialmente –, questa nuova informazione. Posso assimilarla o rifiutarla consapevolmente solo dopo che, rispetto alle mie precedenti conoscenze, metto in atto tutta una serie di valutazioni cognitive ed emozionali, capaci di controllare, elaborare, criticare e infine assimilare il nuovo, attraverso un processo interno che prevede in una certa misura persino un adeguamento di se stessi a questi nuovi elementi. In questo secondo senso, la persona e la nuova conoscenza assimilata, sono in una confluenza sana. Oppure anche nella fruizione dell’opera d’arte: un’esperienza che porta necessariamente a una identificazione estetica con i personaggi di un dipinto, ad esempio, con la sua storia, con lo stile peculiare dell’artista che ha modellato l’opera, e ne ha fatto una sua visione del mondo personale specifica. Anche il caso del sentirsi “parte della propria comunità di appartenenza”, prevede una certa identificazione “funzionale”. Oppure ancora il sentimento spirituale di unione con l’universo, nel quale l’Io individuale si fonde con una coscienza cosmica superiore. La stessa empatia, ulteriormente, prevede uno stato iniziale di identificazione, e solo successivamente di disidentificazione e comparazione.
Il rapporto tra madre e bambino rappresenta una di queste forme di dipendenza e di fusione "sana".
Prima dello svezzamento, secondo l’Analisi Transazionale, il bambino ha solo il proprio Bambino interiore a disposizione, ed è in un rapporto sano di dipendenza e di fusione con la madre, a partire dal sostegno che essa gli offre attraverso il suo Io Genitore e il suo Io Adulto. Senza questo sostegno, il bambino non riuscirebbe a sopravvivere. Tuttavia, in un periodo successivo, sono gli stessi genitori che, man mano che il bambino acquisisce nuove risorse, lo incoraggiano a separarsi da loro e a fare nuove esperienze: sostenendolo al tempo stesso in quelle dimensioni di vita in cui egli ha ancora bisogno di essere accompagnato.
Anche nel rapporto d'amore ci sono effettivamente momenti in cui la simbiosi raggiunge l'apice, esprimendosi sotto differenti forme. Nell'orgasmo infatti, entrambi i partner perdono i propri confini, sia interni che esterni, per sperimentare il piacere totale di uno stato erotico, dal quale, riemergendo, portano con sé i doni di Eros. I doni della follia d'amore, come dice Platone.
Ma questo avviene anche all'interno del rapporto d'amore stesso, al di là dell'atto sessuale. Nel spossessamento del proprio Io "a due", infatti, durante la fase euforica dell’innamoramento, ma anche successivamente, entrambi i partner sperimentano addirittura possibili stati di telepatia (o di sincronicità, direbbe Jung); oppure vivono quelle dimensioni sovratemporali e sovra spaziali, descritte da Maslow come peak experience. In queste esperienze fondamentali rispetto all’apprendimento di sé, entrambe le interiorità attingono alla dimensione simbolica inconscia, e quindi alla propria capacità di desiderio, ai propri bisogni più intimi, ai talenti profondi e alla libera immaginazione – lasciando emergere risorse inaspettate (e a volte radicali), relativamente al proprio consueto modo di porsi e di vedere il mondo.
Un altro esempio relativamente alle forme di dipendenza e di fusione, in cui io faccio si che il mio Io Bambino si appoggi volontariamente, consapevolmente, all’Io Genitore o Adulto dell’altro, può essere rappresentato da una condizione di malessere o di disagio, di impossibilità, in cui l’individuo si affida totalmente ad un altra persona. Se incorro in un incidente a partire dal quale sono consapevole di non potercela fare da solo, ho bisogno di appoggiarmi a qualcuno che sia in grado di prendersi cura di me, e dal quale – in questo caso – può dipendere la mia stessa vita.
In queste forme di dipendenza e con-fusione "sana", al di là dell'esempio del bambino che viene a dipendere dalla madre in modo pressoché inconsapevole, e in cui è evidente una impossibilità sia biologica che psichica di attingere a risorse alternative, vi è sostanzialmente il verificarsi di un "abbandono consapevole" all'altro, a partire quindi da un atto di fiducia che rappresenta in se stesso un movimento di responsabilità sia rispetto agli altri, sia soprattutto rispetto a se stessi. Io decido cioè di dipendere e di perdermi nell'altro, secondo una scelta che mi individua nel qui-ed-ora: e non rispetto a una dimensione infantile passata, alla quale mi aggrappo tentando di ritornare, nel tentativo di colmare un vuoto mai consaputo e accettato.
Ciò che differenzia le forme di dipendenza patologica dalle forme di dipendenza sane, come abbiamo visto, è la negazione inconsapevole di sé, o almeno di una parte di sé importante, come nel caso dell'Io Bambino nell'Analisi Transazionale: il quale si trova a svalutare gli altri stati dell'Io, Adulto e Genitore, a discapito di un rapporto autentico e profondo con l'altro. Oppure, nel caso della Gestalt, la persona si trova deprivata della capacità della propria funzione Io, la quale non riesce più a controllare e a discernere sia i bisogni che prova, né a coordinare le informazioni e le esperienze che possano sostanziare la propria identità.
La caratteristica fondamentale della dipendenza "sana", ma anche della fusione “sana”, come nei fenomeni “d’amore” descritti precedentemente, è data dal fatto che io sono in grado di entrare ed uscire dalla fusione a piacimento. Sono capace cioè di tollerare quella ambivalenza psichica positiva, secondo la quale mi permetto di contattare l'altro, di fondermi con esso – provando piacere nello scambio intimo e profondo con l’altro –, ma al tempo stesso non mi perdo in modo definitivo, o comunque circolare, nelle emozioni e nel rapporto che ci lega. Perché ho acquisito quella autonomia minima di base – quella sicurezza ontologica sostanziale –, che mi permette di essere indipendente e integro "all'interno" delle mie esperienze con l'altro da me, senza per questo provare sentimenti di solitudine intollerabile, incomprensione, o anche frustrazione.
Oppure, dall'altra parte, si è in grado di fare esperienza del reciproco ritornare a se stessi da parte di entrambi, dopo una piacevole (o spiacevole) esperienza di contatto, evitando di provare un'angoscia abbandonica profonda, spaesamento, rabbia impotente, o odio verso l'altro.
Tuttavia, come abbiamo visto, è proprio all'interno di quella negazione nella dipendenza e nella con-fusione con l’altro che viene a realizzarsi, nei diversi sensi che abbiamo indicato, la famosa affermazione di Freud, secondo la quale “L'umanità ha sempre barattato un po' di felicità per un po' di sicurezza”. Ed è questo aspetto che, all’interno di una dimensione interiore alienata e incrinata, fragile, gioca una carta fondamentale nella perpetuazione di questi rapporti. Se si ha, da bambini, una difficoltà a vivere e a manifestare i propri sentimenti autentici con i propri genitori o con l’altro importante, come abbiamo visto, si avrà in futuro un ripetersi di legami fusionali che impediscono una effettiva delimitazione. Il bambino che non è riuscito a costruirsi una propria sicurezza, uno spazio di protezione interna, infatti, dipenderà dapprima dai propri genitori consegnando ad essi delle apparenze “accettabili” a partire dal suo “falso Sé”; e in seguito, da adulto, dipenderà dalle conferme che le persone rappresentanti i suoi genitori, o le situazioni che ha vissuto con essi, gli ricorderanno. La ricerca della soddisfazione della propria carenza affettiva passata all’interno del presente, riguarda una situazione oramai definitivamente tramontata; ma dall’altra parte, i sistemi di difesa che hanno inibito i bisogni mai soddisfatti, e da cui ci si continua a difendere, fanno si che ci sia sempre una coazione a tornare, per vie sostitutive, a quel bisogno.
Ulteriormente, in questa parte finale, desidero sottolineare come in questi processi sia implicito un elemento di identificazione molto forte, rispetto a ciò che sperimento nella relazione a partire dall’altro e insieme ad esso. Quando io mi identifico totalmente con l'oggetto d'amore, da una parte sono costretto a negare me stesso in questa identificazione adesiva; dall'altra, nel momento in cui avviene – o avverto il presentimento che avvenga una possibile separazione da esso – ciò che emerge è il vuoto che segue allo svuotamento della mia capacità di amare, convogliata esclusivamente nell'altro e sull'altro.
Senza l'altro, io sono un nulla.
Nell'abbandono dell'altro rispetto al quale identifico la mia intera persona e la mia stessa capacità di amare, io abbandono me stesso, e quindi la possibilità di amarmi. L’identificazione, fa si che io non possa effettivamente crescere, sia a livello psicologico, che emozionale, che esistenziale. Se infatti sono immerso in una confusione indifferenziata con l’altro, non avrò mai la possibilità di scoprire e riconoscere quali sono le caratteristiche essenziali della mia persona, le quali a loro volta non verranno mai elaborate, e quindi non porteranno a uno sviluppo accrescitivo della mia individualità.
È dunque la capacità di entrare e uscire da uno stato di fusione e di dipendenza dall'altro, senza sentirsi invasi, abbandonati e svuotati, che rappresenta il segnale più lampante della avvenuta individuazione di sé.
In conclusione ci chiediamo: è possibile uscire dallo stato di confluenza, dalla fusione, e dai diversi stati di dipendenza con l’altro e dall’altro? Si.
Per ricostituire i propri confini interni, a mio avviso, a un certo livello è possibile indubbiamente rendersi conto del proprio invischiamento all’interno di relazioni fusionali, e quindi di qualche aspetto della propria vita che collude con l’altro perché rimosso, o comunque negato. Dall’altra parte, molto più verosimilmente, è necessario intraprendere un percorso di sviluppo personale – sia individuale che di coppia, ma anche gruppale –, capace di accompagnare l’individuo all’interno di un sentiero di dolorosa consapevolezza interiore. Un sentiero il quale rappresenta probabilmente l’unica via percorribile, in grado di riannodare l’esperienza tragica delle proprie ferite d’amore attraverso un ritrovato amore di sé. È possibile conoscere il proprio copione di vita, i propri interessi e tendenze realizzative personali, i propri bisogni e desideri – e dunque le diverse risorse ancora possibili –, accedendo a un livello di assertività che possa metterci in grado di sentirci in un contatto autentico con gli altri. Provare cioè dei sentimenti e delle emozioni nei loro confronti, dire di “No”, senza per questo annientare i nostri bisogni essenziali, i nostri desideri più intimi, la nostra libertà. Oppure, di converso, senza sentire di stare negando la libertà altrui e l’individualità dell’altro. Senza dunque manipolarlo a nostro piacimento, a partire da un rapporto inautentico, conflittuale, il quale rappresenta l’espressione prima di dinamiche interne che tendono, riversandosi all’esterno, a ripetersi nelle differenti relazioni, anche quindi al di fuori del legame con una singola specifica persona.
Come abbiamo visto, se da una parte la Gestalt sottolinea gli aspetti “conflittuali irrisolti”, che sono alla base dei rapporti simbiotici, o che comunque creano delle forti spinte al loro alimentarsi; dall’altra, l’Analisi Transazionale mette in evidenza la dimensione della “mancanza” passata rispetto al proprio bisogno di carezze, sia come spinta motivazionale per la scelta delle decisioni del proprio copione di vita, sia come “calamita” rispetto al presente.
Entrambi gli approcci, lasciano emergere comunque gli elementi fondamentali della paura del nuovo, dell’abbandono, della separazione: in sostanza, tutti aspetti radicati all’interno del divenire inteso in senso esistenziale.
A questo proposito, vorrei sottolineare un aspetto secondo me importante che riguarda il desiderio di rapporti di questo genere, ma anche l’impossibilità apparente di un’uscita da essi: e che nasce appunto dal fondo stesso dell’esistenza, dalla quale ognuno di noi trae gli elementi fondamentali capaci di strutturare
una propria visione del mondo, e il proprio stesso modo di essere.
Qualsiasi esperienza facciamo, è sempre un'esperienza che impatta con una certa criticità potenziale nella nostra interiorità. In ogni nuovo contatto infatti, come abbiamo visto, emerge una figura dallo sfondo – una nuova consapevolezza – potenzialmente destabilizzante rispetto alle proprie convinzioni pregresse, alle proprie abitudini, ai propri meccanismi interni. Questo significa che le nostre convinzioni, irrazionali o meno che siano, potranno essere distrutte – e noi con loro se ci siamo identificati con esse. 
È all’interno della nostro esperienza dunque (la quale rappresenta a sua volta la radice fondamentale dell’esistenza stessa), che si inserisce la domanda fondamentale che, probabilmente, sintetizza il maggiore ostacolo rispetto alla risoluzione dei propri problemi e angosce, e che costituisce il tema centrale di ogni possibile sviluppo all’interno del setting: “perché abbiamo paura del cambiamento?”.
La paura del cambiamento nasconde la paura della solitudine e del proprio vuoto esistenziale, come abbiamo visto. Ma soprattutto, a mio avviso, la paura della morte, il confronto con il negativo. Riguarda non solo dunque il distruggere ciò che si pensava fosse indistruttibile e saldo dentro di noi, ma anche l'abbandonare qualcosa, il lasciar andare al passato. Al dolore che consegue alla scoperta del cambiamento possibile di fronte a una nuova verità inaggirabile, e quindi la trasformazione spesso drammatica della propria vita rispetto all’ignoto che ci attende, si aggiunge il dolore del “dover” abbandonare qualcosa che ha fatto parte di noi, per così tanto, lungo tempo. Un tempo in cui pensavamo di riconoscerci in convinzioni abitudinarie oramai divenute prive di fondamento, assurde, inautentiche, alienate e alienanti. Un tempo che oramai “non è più”. All’angoscia dell’ignoto per ciò che verrà, o potrà venire, si addiziona il dolore malinconico della perdita, della morte simbolica, di ciò che è stato e mai più sarà come prima.
Ma il cambiamento non è solo sinonimo di annientamento, bensì anche di rinascita: una evoluzione possibile cioè, e un più alto grado di sviluppo.
Ogni cosa distrutta, infatti, se sappiamo capire ed elaborare emotivamente le radici profonde della nostra storia passata, accogliere e gestire questa distruzione, piangere per essa, empatizzare con il nostro destino, e accompagnarci verso una terra sconosciuta con amore e fede, apre uno spazio vuoto capace di comprendere e contenere il nuovo, di accogliere il non ancora dato – e quindi di fertilizzare il futuro. Se per sopravvivere abbiamo bisogno di perpetuare schemi di comportamento e idee antiche che conosciamo, ma che non ci permettono di crescere e di evolvere, per vivere – per esistere –, è necessario abbracciare con dolcezza, compassione, e anche con una certa di tristezza, l'incertezza che accompagna ogni perdita, ogni saluto, ogni addio. Dobbiamo avere fiducia cioè, nel fatto che tutto ciò che conosciamo rappresenta solo un piccolissimo frammento e una piccolissima occasione, tra le tante possibili, che ci sono date di vivere e di fare esperienza – di esserci.
Ci sono infinite modalità di esistenza che ancora ci aspettano. 



 
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[1] Come giustamente sottolineano alcuni autori, senza uno stato di confluenza iniziale, in cui il bambino è fortemente recettivo in virtù dello stato simbiotico che vive, appunto, con la madre, non potrebbe esserci quella permeabilità necessaria affinché gli introietti vengano assunti come tali, cioè non vengano assimilati. Dall’altra parte, sono gli introietti stessi che, in una fase successiva, alimentano lo stato di confluenza nei rapporti interpersonali importanti, o comunque affettivamente carichi, attraverso una alienazione di sé che non permette il differenziarsi dall’altro.
[2] A questo proposito vorrei sottolineare che nella inibizione di alcune parti di sé da parte del bambino – bisogni, emozioni, desideri, comportamenti, pensieri, ecc. –, interviene necessariamente l’ambiente esterno, da una parte; dall’altra parte tuttavia è impossibile affermare che in questo processo non sia il soggetto stesso (che prova questa negazione), a partire da una sua percezione specifica della esperienza ambientale, a contribuire a questa inibizione. Ogni esperienza, significato, percezione, è il risultato di una co-costruzione intersoggettiva ambientale.
[3] Come dice la Clarkson, sia l’introiezione che la confluenza sono entrambi dei meccanismi di difesa dell’organismo all’interno del proprio ambiente: i quali tuttavia possono trasformarsi, nel caso di una interruzione del naturale flusso organismico all’interno del ciclo del contatto, in meccanismi nevrotici. Entrambi, possono presentarsi in una qualsiasi punto del ciclo. Tuttavia, come evidenzia l’autrice, gli introietti riguardano più specificamente l’interruzione della mobilizzazione delle risorse, le quali solamente possono far compiere una azione adeguata alla persona, per il soddisfacimento dei propri bisogni. Dall’altra parte, la confluenza rappresenta principalmente un disturbo specifico della fase del ritiro: ritiro che, a sua volta, può essere percepito sia nel momento effettivo della chiusura di una relazione; sia nel momento in cui, all’interno della stessa, vengono a frapporsi i confini di uno o addirittura di entrambe le persone coinvolte. Essendo i confini tra i soggetti determinati anche e soprattutto a livello dei loro specifici bisogni fondamentali, risulta inaggirabile, a mio parere, il collegamento tra la negazione dell’istanza di soddisfacimento dei propri bisogni a partire dagli assunti genitoriali introiettati, e l’assenza di confini – cui segue il rischio intrinseco nella fase ritiro – all’interno dello stato di confluenza.
[4] Da adesso in poi, come solitamente accade nei testi di Analisi Transazionale, proporrò le parole Genitore, Adulto e Bambino, con iniziale maiuscola per indicare i diversi stati dell’Io; farò invece riferimento alla persona concreta “bambino” e “adulto” scrivendo in minuscolo l’iniziale, per indicare l’età biologica effettiva della persona.
[5] E. Berne, “Ciao!”… E poi?, tr. it. di R. Spinola, Ed. Tascabili Bompiani, Milano, 2003
[6] A questo proposito, senza addentrarci all’interno di una vera e propria disamina degli elementi strutturali e processuali dell’Analisi Transazionale, che esulerebbe dal tema proposto, propongo di seguito, per chi volesse approfondire i concetti e i collegamenti, un breve schema esemplificativo riguardante i cosiddetti “comportamenti spinta”, collegabili ai 6-7 processi di copione definiti da diversi autori.
 
Comportamenti spinta                          Processo di copione
 
Sii perfetto                                                 Finché
Cerca di piacere                                       Dopo
Sii forte                                                       Mai
Sforzati                                                       Sempre
Cerca di piacere+Sforzati                      Quasi tipo 1
Cerca di piacere+Sii perfetto               Quasi tipo 2
Cerca di piacere+Sii perfetto               A finale aperto
[7] In questo caso mi riferisco indirettamente, anche se non ho espressamente indicato in maiuscolo la parola “genitore” e “bambina”, agli stati dell’Io Genitore e dell’Io Bambino.
[8] Berne individua un preciso schema suddiviso in 6 fasi, secondo il quale si svolgono solitamente i giochi: G+A=R-S–I–T. Gancio più anello uguale risposta, scambio, incrocio, tornaconto. Il gancio, che è ciò che qui ci interessa, a titolo esemplificativo, rappresenta “l’invito” offerto da un giocatore ad un altro per cominciare il gioco; l’anello è la disponibilità dell’altro a giocare. Ma più nello specifico rispetto al nostro discorso sulla fusione, direi che è il “punto debole” del proprio copione, il quale porta la persona a incastrarsi con il copione dell’altra che ha gettato il gancio. Alcuni esempi “verbali” di ganci fusionali: “Se non ci fossi tu …”; “ Se non ci fossi io …”; “Meno male che ci sei tu … “; “Meno male che ci sono io …”; “E’ inutile che ne parliamo, tanto non puoi capirmi”; “Sono fatto così, è questione di carattere …”; “Hai ragione, ma …”; “Dimmi dove ho sbagliato”; “ Che devo fare, secondo te?”.
 
 
Indicazioni bio-bibliografiche dell’Autore
 
Omar Montecchiani è nato a Orvieto (TR) il 02/08/78 e abita a Todi (PG). Si è laureato in filosofia con una tesi dal titolo “La nascita della tragedia nel confronto tra Nietzsche e Schopenhauer”. Ha conseguito un Master in disturbi del comportamento alimentare con una tesi dal titolo “L’anoressia mentale e la pulsione di morte”. Si è occupato a lungo dei disturbi alimentari negli ultimi anni, attraverso diverse pratiche di volontariato e tirocini. Scrive su riviste di filosofia e cultura generale. Al momento sta svolgendo l’ultimo anno di un Master formativo triennale in Gestalt Counseling ad orientamento pluralistico integrato.
Mail: omar0078@libero.it

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