Mafalda al mare, si stende sulla spiaggia tra i castelli di sabbia da lei messi su (e già, i castelli di sabbia che ognuno si costruisce). Queste piccole elementari sculture hanno tutte occhi e bocca a renderle animate e volgono “lo sguardo” verso la bambina.
La madre della piccola, devo dire sempre ignara e limitata dalla visione dell’essere adulto, le chiede cosa stesse succedendo. Con tono ironico, perché sì, è un fumetto, ma io la voce di questa donnina geniale me la sento dentro, un po’ stridula e con toni sfacciati e teatrali, risponde dicendo: “Niente! Sto provando la sensazione di sentirmi una ragazza sexy”.
Un po’ come tutti, desiderando di essere “visti”, di rendersi visibili, di essere accettati. Prendiamo le nostre facce migliori (che anche la scelta non è per niente facile) e la mettiamo in rete con tutti quei falsi sguardi puntati addosso.
Come tutti quei castelli di sabbia, costruzioni mentali e immaginarie, allo stesso modo gli sguardi virtuali ci portano a metterci al centro della scena, a stenderci alla portata di tutti. Con i nostri selfie, ci poniamo al centro degli sguardi altrui.
Ed è nell’esigenza di certificare la propria presenza, che la fotografia pare aiutare velocemente e facilmente nell’intento, adempie questa necessaria e impellente mancanza. Tuttavia la alimenta in un circolo vizioso. Perché noi concediamo la nostra immagine, concediamo la nostra parte ipoteticamente più bella, concediamo il nostro ideale, ma non concediamo realmente noi stessi. È una ri-produzione come le innumerevoli immagini che produciamo se ci guardassimo ad uno specchio, su una superficie riflettente, è altro da noi, come l’immagine di cui narciso s’innamorò e che volle abbracciare, era altro da lui.
Eppure qui non ci abbraccia nessuno, non ci stringe nessuno e nessuno ci guarda dritto negli occhi per mettere a tacere le nostre paure.
Non è uno sguardo presente, vero, uno scambio reale e concreto, una relazione duale, uno scambio di sguardi, un misterioso contraccambio alchemico.
La ricorrente paura di non piacere agli altri, di non trovare riconoscimento. Il desiderio dell’Altro, il desiderio del desiderio altrui, di ritrovare ammissione e di sentirsi apprezzati, diviene il desiderio d’Altro accompagnando la dimensione vacua dell’utopia.
(ilustrazioni di Simona Bonafini)
Forse, ci vuole coraggio, come Mafalda che supera sempre le sue paure per portare avanti il suo pensiero, ci vuole gente che abbia ancora voglia di mettersi in gioco, che si faccia tridimensionale e “carne da crocifissione”, materia.
Io me la immagino Mafalda, la quale a un tratto si alza spavalda, buttando giù tutti i suoi castelli di sabbia e va a farsi un bagno.
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