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Si selfie chi può

14 Lug 15

A cura di Eleonora de Gaetani

Lo ammetto, mi piace Mafalda, sarà che un po’ mi ci vedo in quella bimba tutta pancia e capelli, sempre spettinata, un po’ cinica e con un’idea ben chiara in testa riguardo a ogni cosa. Così, nel divagare tra le vignette di Quino me ne viene in mente una eccezionale, tra le migliori a parer mio.
 
Mafalda al mare, si stende sulla spiaggia tra i castelli di sabbia da lei messi su (e già, i castelli di sabbia che ognuno si costruisce). Queste piccole elementari sculture hanno tutte occhi e bocca a renderle animate e volgono “lo sguardo” verso la bambina.
La madre della piccola, devo dire sempre ignara e limitata dalla visione dell’essere adulto, le chiede cosa stesse succedendo. Con tono ironico, perché sì, è un fumetto, ma io la voce di questa donnina geniale me la sento dentro, un po’ stridula e con toni sfacciati e teatrali, risponde dicendo: “Niente! Sto provando la sensazione di sentirmi una ragazza sexy”.

Mafalda non ha sguardi che la fanno sentire sexy, è una tipa indipendente e allora se li costruisce da sé. E qui penso a come ognuno di noi oggi, si costruisca quegli sguardi, quando ne senta la necessità. Per sentirsi sexy, seducente, bello, forte, virile; per sentirsi.
Un po’ come tutti, desiderando di essere “visti”, di rendersi visibili, di essere accettati.  Prendiamo le nostre facce migliori (che anche la scelta non è per niente facile) e la mettiamo in rete con tutti quei falsi sguardi puntati addosso.
Come tutti quei castelli di sabbia, costruzioni mentali e immaginarie, allo stesso modo gli sguardi virtuali ci portano a metterci al centro della scena, a stenderci alla portata di tutti. Con i nostri selfie, ci poniamo al centro degli sguardi altrui.


 
Ed è nell’esigenza di certificare la propria presenza, che la fotografia pare aiutare velocemente e facilmente nell’intento, adempie questa necessaria e impellente mancanza. Tuttavia la alimenta in un circolo vizioso. Perché noi concediamo la nostra immagine, concediamo la nostra parte ipoteticamente più bella, concediamo il nostro ideale, ma non concediamo realmente noi stessi. È una ri-produzione come le innumerevoli immagini che produciamo se ci guardassimo ad uno specchio, su una superficie riflettente, è altro da noi, come l’immagine di cui narciso s’innamorò e che volle abbracciare, era altro da lui.
Eppure qui non ci abbraccia nessuno, non ci stringe nessuno e nessuno ci guarda dritto negli occhi per mettere a tacere le nostre paure.

Qua lo sguardo resta implacabile e vuoto contro il mirino di un cellulare, pieno solo di false aspettative. La soddisfazione non è mai abbastanza e non è mai ora.
Non è uno sguardo presente, vero, uno scambio reale e concreto, una relazione duale, uno scambio di sguardi, un misterioso contraccambio alchemico.
No, è un mettersi a disposizione degli occhi altrui per il tempo dello scorrere della bacheca feisbucchiana: breve, inefficace, inappagante, frustrante, reiterante. Questa mercificazione dell’essere, questa strabordante disponibilità per l’altro non raccoglie mai i frutti, non torna mai indietro, e soprattutto finisce con l’essere deleteria per l’umana curiosità che muove l’individuo a interessarsi di qualcosa o qualcuno.
La ricorrente paura di non piacere agli altri, di non trovare riconoscimento. Il desiderio dell’Altro, il desiderio del desiderio altrui, di ritrovare ammissione e di sentirsi apprezzati, diviene il desiderio d’Altro accompagnando la dimensione vacua dell’utopia.


 (ilustrazioni di  Simona Bonafini)
 
Forse, ci vuole coraggio, come Mafalda che supera sempre le sue paure per portare avanti il suo pensiero, ci vuole gente che abbia ancora voglia di mettersi in gioco, che si faccia tridimensionale e “carne da crocifissione”, materia.

Ci vuole sacrificio e passione per la vita, che il solo guardarla e guardarsi cristallizza i nostri pensieri, e forse non ci permette di viverli pienamente. Bisogna non temere la solitudine e ci vuole maturità psicologica ed emotiva, affettiva.
Io me la immagino Mafalda, la quale a un tratto si alza spavalda, buttando giù tutti i suoi castelli di sabbia e va a farsi un bagno.
Lei lo sa che non ha bisogno di quei falsi sguardi, che il suo valore personale, le sue idee valgono oltre ogni sguardo vero o presunto che sia. Oltre i suoi genitori, il suo disegnatore, i suoi lettori…

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