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Il mito dell’anoressia. Archetipi e luoghi comuni delle patologie del nuovo millennio

11 Set 15

Di FRANCESCO BOLLORINO
Il libro si riferisce alla parola "mito" inteso come luogo comune, stereotipo; ma anche "mito" nel senso di archetipico, che narra cioè delle radici immaginali della psiche, dalle quali nascono rappresentazioni e idee sull'anoressia.
È davvero nella relazione con i genitori la "causa" delle sofferenze per le pazienti anoressiche e bulimiche? Queste patologie colpiscono in maniera così tanto prevalente il sesso femminile? Quanto è importante giungere a una diagnosi puntuale del "tipo" di disturbo alimentare? Dietro i cosiddetti "nuovi sintomi", c'è veramente la spinta di Thanatos, la "pulsione di morte", come afferma parte della clinica psicoanalitica contemporanea? Si sono rivelate realmente efficaci le terapie cognitivo-comportamentali?
Il testo, tra riferimenti artistici e letterari e frammenti di storie di pazienti, conduce il lettore in un itinerario, che a partire dal mito classico, attraversa anche i tanti luoghi comuni – i falsi miti – che oggi caratterizzano la maggior parte delle convinzioni e delle ipotesi su anoressie e bulimie. In quest'ottica non vi è solo il tentativo di ridimensionare molte delle "fantasie" che ruotano attorno al mondo dei cosiddetti disturbi del comportamento alimentare (DCA), ma sul filo della psicologia analitica e archetipica, si tenta di comprendere il senso e la necessità proprio di quelle immaginazioni: di ricondurle cioè nell'ambito della capacità creativa della stessa psiche che le ha generate. Vengono così riletti tutti gli stereotipi più tipici di questi disagi, in cui persino la stessa psicologia incappa frequentemente, con l'intento di svelarne l'esigenza psicologica profonda: una necessità della nostra mente di immaginare per modelli archetipici, cui non sfuggono, per l'appunto psicologi, psicoterapeuti e psichiatri.
Partendo da queste premesse, l'autore propone una radicale revisione di alcune questioni teorico-cliniche riguardanti le anoressie-bulimie e più in generale i sintomi contemporanei, sino a mettere in questione le basi stesse del pensiero su cui si fonda l'esigenza psichica di sviluppare determinate ipotesi teoriche anziché altre.

INTERVISTA ALL'AUTORE * di Paola Mariano (Giornalista free lance, collabora con varie testate tra cui ANSA e La Stampa. Ha prodotto questa intervista a titolo del tutto gratuito)

La premessa del suo lavoro è che si fa un gran parlare di anoressia e bulimia ma spesso a sproposito e banalizzando il problema.
Esattamente, siamo passati da un periodo in cui parlare di anoressia e bulimia era tabù e mi riferisco agli ultimi 20 anni del secolo scorso, come ha insegnato Fabiola De Clercq, fondatrice dell’ABA, che con il suo libro “Tutto il pane del mondo” per prima ha rimosso il velo di omertà che attorniava le famiglie che tenevano segreto il sintomo delle figlie. Quel libro continua a essere un riferimento anche per i professionisti che intendano comprendere i vissuti di chi soffre di anoressia e bulimia. Da allora finalmente se ne parla. Da qualche anno a questa parte, invece, se ne parla anche di più, ma nella maggior parte dei casi ciò avviene in maniera imprecisa e confusiva. I luoghi comuni sembrano in realtà aver preso il sopravvento rispetto alla delicatezza e complessità del problema. Proprio su questi aspetti, sui falsi “miti” che circondano l’anoressia, mi soffermo di più nel testo.
Lei ritiene sbagliato pensare all'anoressia come a una malattia a sé stante, ma piuttosto questa va vista solo come un sintomo di un disagio psichico profondo, è corretto?
L’anoressia, così come la bulimia e tutti gli altri “disturbi del comportamento alimentare” (i cosiddetti DCA) sono disturbi psicologici e come tali vengono classificati nei manuali diagnostici psichiatrici più diffusi. Il problema è che spesso – in primis noi clinici – dimentichiamo che molte delle sottili distinzioni nosografiche tra le varie forme di DCA hanno un’utilità pressoché nulla nella pratica psicoterapeutica. Una persona può essere soggetta a una qualunque dipendenza – e le anoressie-bulimie sono dipendenze a tutti gli effetti – che dipenda dal gioco e dunque sia definita “ludopatica”, oppure dipenda da internet e per questo venga chiamata “internet dipendente”, o affetta da IAD (internet addiction disorder), ma ciò non modifica se non marginalmente il tipo di intervento terapeutico che si modifica, invece, in relazione a altre variabili dell’individuo e non alla modalità con cui si manifesta il sintomo. Questo discorso ovviamente ha un senso fino a che non si voglia intervenire a livello esclusivamente sintomatico, ovvero alla maniera riduttiva delle terapie cognitivo-comportamentali. In questo caso non si dedica particolare considerazione né alle cause del disagio, né tantomeno per allele variabili di personalità del soggetto. La diagnosi differenziale, e soprattutto la “doppia diagnosi”, al contrario, già da diversi anni si è mostrata molto utile nel trattamento delle tossicodipendenze, ed è fondamentale per un intervento psicologico profondo in queste forme sintomatiche.
Ritiene che i disturbi alimentati siano disagi eccessivamente medicalizzati?
Ahimè purtroppo molte psicopatologie oggi sono eccessivamente medicalizzate, nonostante il paradosso per cui quasi nessuna psicopatologia risponda al trattamento medico se non nelle sue manifestazioni sintomatiche. Va comunque precisato, che nel caso dei DCA l’aspetto medico non può non essere presente, poiché l’impatto sul corpo di queste patologie può essere devastante. Tutti gli interventi medici possibili, devono essere però un supporto al trattamento psicologico e non il trattamento di base. Purtroppo specialmente nelle logiche dell’assistenza pubblica, avviene esattamente il contrario e “i colloqui con lo psicologo” (spesso vengono così definiti), restano marginati a latere degli interventi nutrizionali e dietistici. Questi ultimi, all'opposto, sarebbero da attivare solo se e quando necessario. Ricoveri, alimentazione forzata, misurazioni corporee, sono comunque un’estrema ratio, utile nei casi di inedia molto grave. Immediatamente dopo, però, vanno riprese le cure e la cura è sempre solo psicologica.
 
Qual è dunque il ruolo delle cure nutrizionali nei DCA?
Gli interventi nutrizionali non sono “cure”, ma rimedi, necessari – a volte – a consentire al soggetto di avere un corpo che consenta l’intervento terapeutico psicologico. Va però ben chiarito che il ricorso a diete, istruzioni alimentari, programmi di nutrizione, senza una valutazione individuale specifica del caso e del soggetto può rivelarsi del tutto inutile – quando non addirittura dannoso – per alcune persone. La figura del “nutrizionista” nella terapia di anoressie-bulimie, non deve essere una presenza “obbligatoria”, è il clinico che deve valutare se e quando possa essere opportuno il suo intervento. I protocolli standardizzati che si incentrano sulla nutrizione, hanno probabilmente il solo scopo di essere rassicuranti per i genitori, che sovente sono preoccupati solo del fatto che la propria figlia riprenda a mangiare il più presto possibile. Anche questo è ormai diventato un luogo comune: che l’equipe clinica per il trattamento dei DCA “debba” includere programmi nutrizionali o dietetici. Queste ragazze non hanno il problema di dover ripristinare una corretta condotta alimentare: hanno un disagio psicologico, affettivo, profondo. Questo è ciò che va compreso e in qualche modo ascoltato. Se alcuni genitori non sono stati in grado di ascoltare i bisogni profondi delle proprie figlie, ci si aspetta che lo facciano almeno i clinici e non che, invece, persino questi ultimi colludano con uno stile familiare basato sul non ascolto e sull’unico interesse per il riempimento del tubo digerente della figlia.
Ritiene che la fonte di questi disturbi vada cercata in un rapporto disfunzionale con i genitori?
Noi psicologi siamo bravissimi a trovare le cause sempre alla rovescia. Nessuna teoria psicologica però ha mai funzionato contro ogni prova di dubbio, in maniera predittiva. I genitori e la famiglia hanno un’importanza fondamentale nello sviluppo psicosessuale del bambino, questo è innegabile. Il problema è che però del genitore, della mamma soprattutto, ne abbiamo fatto un’icona. Essa è diventata un vero e proprio “mito” nella nostra cultura, capace di generare tutto il bene e tutto il male nel figlio. Le cose però non stanno affatto in questi termini e tutte le evidenze empiriche avvalorano questa semplice osservazione. Gli scienziati però, non sono esenti dall’influenza archetipica degli stereotipi culturali, per questo tendono a sopravvalutare i risultati di studi che confermano le teorie mammo-centriche, come quelle di Bowlby ad esempio, e a sottovalutare le altrettanto numerose ricerche e evidenze empiriche che fanno rilevare esattamente il contrario.
Dove cercare la fonte di questi disturbi allora?
Sicuramente anche nel contesto familiare, purché si sappia che questo è sempre e comunque una concausa e mai “la causa”. Un’altra fonte di disagio, molto potente, è nel sociale, nella nostra specifica cultura in particolare: dove si è sostituita l’etica con l’estetica. Nella nostra società l’immagine, l’apparire, conta molto più del contenuto. Ecco come i comportamentismi e le terapie basate sulle logiche comportamentiste, colludono con questa stereotipia di fondo del contesto collettivo: il comportamento manifesto, il sintomo, è più importante dei sentimenti, della psiche profonda. Anche per questi motivi, patologie come i DCA devono essere affrontate non solo a livello psicologico individuale, ma anche collettivo, persino politico.
Adesso ci sono anche studi che tendono a cercare nel cervello di pazienti anoressici disfunzioni strutturali o funzionali, cosa ne pensa?
Ben vengano questi studi e tutte le ricerche possibili in materia. L’importante è non assumere però la convinzione che i risultati di queste ricerche, qualsivoglia essi siano, possano cambiare qualcosa nel nostro approccio clinico a queste problematiche.  Sarebbe altrimenti come pensare che l’aver scoperto che la luce è formata da tutti i colori dello spettro, ci possa far pensare che essa non risplenda più del suo bianco chiarore. Qualunque scoperta neurologica è fondamentale per la comprensione del funzionamento del nostro corpo, ma la psiche non è il “prodotto” del cervello come fosse una sua secrezione e la nostra irriducibile soggettività resta il punto di partenza e di arrivo per qualsivoglia psicoterapia.
Se l'approccio della terapia cognitivo-comportamentale è troppo riduttivo e sbrigativo, cosa fare allora? L'alternativa è la psicoanalisi?
Nelle terapie sintomatiche, come quelle cognitivo-comportamentali, ma anche negli approcci cosiddetti brevi-strategici, ci si focalizza sul ripristinare la condotta alimentare “normale” delle pazienti. Questo è anche l’interesse immediato di molti genitori, per certi versi comprensibile. Tuttavia le cose non sono così semplici e a pagare successivamente il prezzo di interventi illusoriamente drastici, spesso irrimediabilmente alto, possono essere solo le pazienti. Anche la psicoanalisi, specialmente nella sua applicazione tecnica, però ha mostrato molti limiti con le anoressie-bulimie e più in generale con tutte le dipendenze patologiche. Ciò che in ogni caso resta valido degli approcci psicoanalitici e più in generale psicodinamici, è il presupposto etico su cui essi si fondano: la psicoanalisi insegna che il sintomo è l’unico modo possibile per il soggetto di esprimere il proprio disagio, spesso l’ultimo. Dunque, se la psicoanalisi in senso classico non è a mio avviso praticabile con questi soggetti, resta intatto il valore dell’approccio psicodinamico, incentrato sul soggetto e non sul sintomo. La psicoterapia deve per queste ragioni fondarsi sull’etica psicodinamica, ma lasciando la tecnica psicoanalitica del tutto fuori la porta. Non si può utilizzare il lettino con pazienti che sono spesso state vittima di abusi e sopraffazioni, così come d’altro canto si è chiamati a essere presenti con tutta la propria umanità e capacità di amare in quanto persone e non solo quali terapeuti.
 
Nel suo libro lei è critico sul fatto che l'anoressia sia un problema principalmente femminile. Le evidenze statistiche però mostrano esattamente ciò. Come motiva dunque questo suo pensiero?
A mio avviso l’anoressia non è mai stato un problema principalmente femminile, se per femminile intendiamo “specifico delle donne”. È invece un problema che riguarda “il femminile”, interpretando con Jung il maschile e il femminile come caratteristiche psicologiche dalla polarità opposta e non solo come generi sessuali biologici. Mi ha sempre molto sorpreso che valenti psicoanalisti, dei quali condivido molte riflessioni, non abbiano mai considerato l’aspetto psicologico della falsa evidenza del dato statistico. I dati epidemiologici, infatti, che non mi sogno di confutare nella loro espressione oggettiva, registrano tutt’oggi una netta prevalenza di donne (oltre il 90%) per i DCA. Io contesto però il presupposto di partenza con cui si creano questi dati, il criterio con cui vengono ricavati. Essi originano, infatti, dalle persone che in qualche modo si sono trovate ad accedere alle cure e che per questo, sono state considerate ufficialmente “malate”. Argomentare adeguatamente queste mie affermazioni ora sarebbe complesso, nel libro certamente mi sono soffermato a lungo su questo, come sul fatto che la nostra società, ancora oggi, è fondata su una cultura profondamente misogina. Ciò che è una malattia per una donna, per un maschio è spesso niente altro che un merito. Ecco perché in edicola possiamo trovare immagini di uomini ridotti all’apparenza del solo maschile testosteronico – un maschile solo apparente, perché anabolizzanti nella sua sostanzialità – maschi ridotti a manichini anatomici che riproducono il loro stesso sistema muscolare. Devastati dai farmaci, orrendi nella loro sgraziata e grottesca immagine, eppure in prima pagina come esempi da imitare. Le donne, invece, sono considerate malate. Poco importa se esistano anche le “culturiste” poiché nell’immaginario collettivo, archetipico, il culturismo è e resta un’attività prettamente maschile.
Lei pensa che proprio perché questi disturbi oggi sono curati male e in modo superficiale, essi stiano divenendo più diffusi e più gravi? che vi sia una recrudescenza rispetto ai decenni passati?
La questione è molto complessa, il fatto che vi sia una recrudescenza di questi sintomi è semmai la prova empirica del fallimento della “moda” cognitivo-comportamentale, che a dispetto di tutto il risalto mediatico, si è rivelata inconcludente. Sembra paradossale che proprio questi trattamenti, i quali secondo un luogo comune ahimè diffuso anche in certi ambienti scientifici dovrebbero basarsi proprio “sulle evidenze”, evidence based, non riescano invece a rendersi conto delle loro difficoltà di fronte al dilagare delle compulsioni, delle dipendenze e dei sintomi anoressico-bulimici. Le cause della diffusione di queste sintomatologie sono da ricercarsi non solo nella famiglia ma anche nella nostra società e nella sua spinta consumistica. Le terapie comportamentiste basate sulla logica del ripristino della “macchina rotta", trattano l’individuo allo scopo di riportarlo alle condizioni ottimali perché questo possa tornare efficiente e produttivo, nuovamente adeguato e pronto al consumo. Con ciò non voglio certo affermare che questi trattamenti siano causa delle nuove patologie, bensì essi si mostrano come un semplice sottoprodotto della logica iper-normalizzante e positivistica della cultura contemporanea, ove il mercato vale sempre più del soggetto. Quello comportamentista è piuttosto un tentativo di trattamento speculare rispetto alle logiche patogenetiche che si celano dietro i cosiddetti sintomi contemporanei. Anoressie e bulimie sono in quest’ottica sintomi tipici e specifici della cultura post-industriale occidentale. L’unico paese non occidentale dove troviamo anoressie e bulimie ampiamente diffuse è il Giappone, mentre in alcune zone della Cina a causa della progressiva industrializzazione, inizia a esservi un progressivo aumento dei casi.  I tratti psicologici delle pazienti anoressiche dei secoli scorsi, riscontrabili nelle loro storie cliniche, sono radicalmente differenti da quelli delle pazienti attuali, nonostante la manifestazione fisica sia molto simile. Questi disagi sono espressione soggettiva di un malessere che si inscrive a livello collettivo nel discorso sociale. Ecco perché non si può prescindere dall’orizzonte sociale e culturale in cui si colloca l’individuo con la sua storia: in che maniera si può sperare di curare un sintomo così complesso con interventi basati sulla riabilitazione nutrizionale?
Mediamente una persona che sviluppa sintomi di anoressia o bulimia – diciamo in adolescenza – quanti anni poi convive con la malattia e quante di queste persone in percentuale guariscono?
Le medie statistiche purtroppo non sono mai simili a nessun caso clinico reale, per questo sono “medie”, frutto cioè di un elaborazione aggregata di storie specifiche gestite come semplici “dati”. La sofferenza individuale può manifestarsi in modalità e durate del tutto soggettive e lo stesso discorso si può fare per i tempi di guarigione. Confrontarsi con le statistiche per il soggetto è insignificante, anzi, queste possono persino rivelarsi una fonte insopportabile angoscia, di confronto nocivo con la propria singolare condizione e con il vissuto personale. Queste motivazioni mi inducono sempre a un’estrema prudenza nel citare dati e cifre che sono inevitabilmente il risultato di un artificio, un’estrazione. Che senso ha citare i dati ufficiali secondo cui l’anoressia dura mediamente 10 anni? Ciò può significare che in qualcuno può durare un anno o due e in altre persone per alcune decine di anni o addirittura tutta la vita. Ma a cosa serve al soggetto avere questi dati riferiti alla popolazione generale se poi non dispone di sufficienti conoscenze per poterli analizzare e valutare in un contesto molto più ristretto? In generale ciò che mi sento di affermare è che i fattori di guarigione sono molteplici e quando questi coesistono assieme, allora è più facile pensare a una guarigione. Iniziare una terapia tempestivamente e precocemente, il supporto della famiglia coinvolgendola nel percorso di cura, l’incontro con un terapeuta empatico e capace di una relazione autentica, sono tutte variabili che incidono in maniera determinante sull’esito di qualunque azione terapeutica. In questi casi le possibilità di guarigione sono estremamente elevate.
Lei scrive che la cura sintomatica è superficiale e porta magari a normalizzare la condotta alimentare, ma a sfociare il disagio su altri fronti? per esempio quali? le droghe? gli attacchi di rabbia?
Una delle principali cause di morte nell’anoressia nervosa è il suicidio. Spesso tentativi di suicidio vengono effettuati da questi pazienti proprio in concomitanza con il ricovero in strutture. Sono dati tristemente noti, diffusi anche dall’Istituto Superiore di Sanità. I trattamenti sintomatici non li definirei nemmeno “cure”, almeno non in senso psicologico. Si tratta di manovre focalizzate al ripristino del peso corporeo, indifferenti al malessere profondo del soggetto. Ovvio che in quest’ottica il disagio individuale assuma necessariamente altre forme poiché non viene di fatto “curato”. È ciò che Freud più di 100 anni fa chiamava “ludens” del sintomo, il gioco a trasformarsi in qualcosa d’altro, lo spostamento che continuerà a ripetersi finché i conflitti sottostanti non saranno in qualche modo sanati e il soggetto sarà costretto a mettersi in discussione, a cambiare.
Quali sono le conclusioni e i consigli da dare per rimettere un po' di ordine nell'universo di questi disturbi?
Uno psicoterapeuta dovrebbe sempre astenersi dal dare consigli. I consigli li possono dare gli amici o i conoscenti, non gli psicologi e gli psicoanalisti. Nonostante ciò, i “consigli” e i “suggerimenti pratici”, sono molte volte proprio la prima cosa che chiedono i genitori di queste pazienti. Le logiche comportamentiste si basano proprio sulle prescrizioni e come detto colludono perfettamente con questa aspettativa genitoriale, palesandosi come surrogati “pratici” dei consigli. Purtroppo però nessun consiglio o suggerimento – a meno che non sia una prescrizione seriale e stereotipata e dunque del tutto inutile a “quel” soggetto – può prescindere da un’approfondita conoscenza del caso e dell’individuo. Non esistono “pappe pronte” quando si parla di anoressie-bulimie, rimedi preconfezionati, o surgelati, pronti all’uso. Più che un consiglio allora, mi limiterei a una considerazione di fondo: abbiamo a che fare con disagi molto seri, che richiedono una presa in carico totale del malessere soggettivo. C’è bisogno di ascolto, pazienza, tempo. Soprattutto c’è un enorme disperato bisogno di amore autentico, di relazione, di recupero della propria capacità desiderante.

* Alessandro Raggi, psicoterapeuta psicoanalista, docente MURST di psicologia analitica a Bologna e coordinatore nazionale centri ABA (Associazione per lo studio e la ricerca sull'anoressia, la bulimia, l'obesità e i disordini alimentari) www.psicheanima.it

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