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Pensare l’immagine del pensiero con Deleuze.

14 Set 15

A cura di Fabio Milazzo

Review of: Fabio Treppiedi, Differenti ripetizioni. Pensare con Deleuze, Kaiak edizioni, Tricase (Le) 2015, pagg. 104.
 

«Le valutazioni, restituite al proprio elemento,
non sono valori ma modi di essere, di esistere,
da parte di chi giudica e valuta;
fungono così da principi a quei valori in base a cui si giudica.
Questo spiega perché le convinzioni, i sentimenti,
i pensieri che abbiamo,
siano sempre frutto del nostro modo di essere o del nostro stile di vita».
Gilles Deleuze, Nietzsche e la filosofia, p.4

 

 

François Zourabichvili in «Deleuze. Una filosofia dell’evento» (Ombre Corte) afferma che «in filosofia si dà per scontato che noi pensiamo in modo naturale»[1], che significa essere in grado di cercare spontaneamente il fuori, «sottomettersi alla legge del fuori»[2], sulla base di una credenza irriflessa: «il pensiero possiede formalmente il vero, sebbene gli resti da conquistarlo materialmente»[3].  Ciò è possibile perché è stata interiorizzata un’immagine dogmatica del rapporto filosofia-fuori che si esprime : « 1) nella credenza in un pensiero naturale; 2) nel modello generale della ricognizione; 3) nella pretesa al fondamento»[4]. Criticare questi assunti non può che essere il compito di una filosofia che si declina in clinica del pensiero, vale a dire in critica degli assunti irriflessi che la governano orientandone il movimento, le soluzioni, disponendone le condizioni di possibilità. In altre parole: una filosofia critica, nel suo farsi clinica, deve mettere in discussione l’immagine dogmatica del pensiero che «permea, almeno formalmente, tutte le filosofie fino alla grande crisi nietzschiana»[5], e oltre. Questo progetto ha segnato l’intera filosofia di Deleuze in tutti i suoi movimenti ed è il nucleo intorno al quale si dipanano i saggi di un libro che Fabio Treppiedi, Ph.D. in Filosofia presso l’Università di Palermo, ha dedicato al pensatore francese: «Differenti ripetizioni. Pensare con Deleuze» (Kaiak edizioni, 2015).

Per molti versi è un’altra versione di immagine dogmatica quella che si è andata congelando intorno alla filosofia di Deleuze in questi anni, fatta più di slogan e di gridi di battaglia che di attento corpo a corpo con il testo. Treppiedi prova a metterla criticamente in discussione attraverso la sua serrata analisi che restituisce la fisionomia di «pensatore classico» a Deleuze, cioè di filosofo dei fondamenti e dell’essere, che anche quando ha fatto uso o si è servito di codici diversi lo ha fatto per chiarire e problematizzare le questioni classiche della riflessione filosofica. Mettere in questione l’immagine dogmatica del pensiero, in tale ottica, significa valutare gli elementi che, come afferma P.Vignola nella sua prefazione, «rischiano di impedire letteralmente di pensare» (p. 10) e che congelano in sterili formule l’analisi. Che si tratti di riflettere su Deleuze o che si indaghino i problemi fondamentali della storia del pensiero, si tratta così di avere a che fare con quel fuori troppo ingenuamente ipostatizzato dalla tradizione, e di valutarlo nel suo carattere eccedente, di radicale e perturbante estraneità, a partire però dalla tradizione, cioè dalla storia della filosofia, sapere dal quale anche nei periodi di più coinvolgente contaminazione con la psicoanalisi e con gli altri saperi  Deleuze stesso non si allontanò, tanto da poterlo definire – come detto – a tutti gli effetti un pensatore classico. Quello di filosofo classico è uno degli elementi con cui Treppiedi fa fino in fondo i conti e che, invece, è stato perlopiù messo da parte da quella tradizione con cui si trovano ad aver a che fare quelli che Vignola definisce i «nativi deleuziani», gli studiosi che si muovono in un bagno di interpretazioni diffuse e cristallizzate che hanno fatto di Deleuze più un pensatore alla moda, da sbandierare quando ad esempio si deve ribadire che Edipo è un cimelio del passato o quando si deve urlare la necessaria liberazione deterritorializzante del desiderio, piuttosto che un filosofo classico che si è interrogato sulla natura del proprio mestiere attraverso lo strumento concettuale. E che lo ha fatto attraverso la contaminazione e l’ibridazione di codici diversi – letteratura, psicoanalisi, cinema, arti -, nella profonda convinzione che «l’attitudine alla sperimentazione e alla critica creatrice» (p.12) siano valori aggiunti per ogni filosofare che voglia squarciare la propria immagine del pensiero, quella nella quale è immersa in forme e modi irriflessi. Ripetizione senza differenza, dunque, che è ciò cui allude l’Autore nel titolo dello studio indicando proprio la necessità di superare una visione ormai stereotipata di Deleuze, congelata intorno ad alcune posture di maniera che depotenziano le possibilità e le tensioni inerenti alla scrittura deleuziana, alle sue tensioni e linee di fuga.

«Differenti ripetizioni», già dal suo titolo, si configura come un’operazione sintomatica che fa dell’ibridazione e dell’ermeneutica creativa, anche – come afferma Vignola nella prefazione – inedita o difficoltosa (p.13), la cifra attraverso la quale affondare la vanga sotto cumuli di  interpretazioni che via via hanno assunto la fisionomia compatta del territorio che ci si limita ad attraversare come un dato acquisito, seguendo strade e sentieri prestabiliti. Prende così corpo un Deleuze sovversivo che affianca il pensatore classico determinando una figura complessa, al di fuori delle consuete traiettorie, molti di più di quella monocroma immagine di tante descrizioni reificate intorno alla ripetizione dell’identico. Treppiedi è invece convinto – e ciò emerge chiaramente nei saggi – che critica e creazione non si escludano e concorrano alla presa di distanza da quell’immagine dogmatica del pensiero in cui le filosofie non smettono di dibattersi inconsapevolmente (L'immagine del pensiero, pp. 35-46). Questo perché accanto alla ripetizione che mima l’identico, c’è una ripetizione che «contiene in sé il germe della differenza (lo choc)» (p. 15), ed è proprio quest’ultima ad interessare Treppiedi nel suo percorso di oltrepassamento trascendentale che vuole sconfessare le cristallizzazioni del pensiero, determinate da quell’immagine che deve essere smascherata per mostrare lacanianamente il nucleo osceno che la abita.

Il secondo capitolo il del libro, «Il gesto del filosofo» (pp. 45-54), percorre questa strada attraverso la contaminazione tra filosofia e teatro facendo interagire il duo  Deleuze-Bene in nome di un divenire tanto folle quanto creativo. Un divenire delle contaminazioni, del doppio-senso che, come afferma Deleuze in «Logica del senso», in nome del paradosso «distrugge il buonsenso come senso unico, ma, anche, […] come assegnazione di identità fisse»[6]. Il divenire del «gesto Lorenzaccio» che è sempre un tradimento nei confronti dell’istanza riconosciuta, reificata e affermata come buonsenso che, nel caso della filosofia, significa tradizione consolidata, vulgata. Si tratta così non soltanto di criticare l’autorità (filosofica) di turno ma, più in profondità, di mirare a quei dogmi, già segnalati sopra, che abitano l’idea del pensare come naturale corrispondenza tra il soggetto e un fuori da riconoscere naturalmente attraverso un’adeguata rappresentazione. Un’idea che tiene conto non soltanto dei condizionamenti cui è soggetto il pensiero ma, più in profondità, del metodo che lo rende possibile escludendo tanto i legacci affettivi che mettono in discussione la presunta “naturalezza” del pensiero quanto la concezione realista che seppur in forma oscena la abita. Al centro si staglia sempre il problema, ma anche il concetto, dell’immagine («G.Deleuze, Differenza e ripetizione», cap. III) secondo cui non si pensa mai al di fuori di certe coordinate che rendono la sempre presupposta buona volontà del pensatore nulla di più che un mito da forzare, da scardinare, per dare il via a quell’avventura singolare, evenemenziale, che è il pensiero nel suo darsi al di là del «modello generale della ricognizione»[7]. Soltanto un pensiero violentato, costretto all’incontro con la contingenza più radicale, può ambire a mettere in discussione se stesso e rompere così quella morale della buona volontà per cui sarebbe orientato verso il vero. Un pensiero iper-razionale «radicato – come ci dice Treppiedi nel terzo capitolo (Empirismo trascendentale, pp. 55-62) – nei problemi dell'esperienza, della materia e dell'immanenza» (p. 55). Un pensiero che si muove tra ambiti e dimensioni diverse, senza esclusioni, in nome della sintesi disgiuntiva e del corpo a corpo con un fuori ineludibile e imprevedibile.
Il tema dell’immagine del pensiero attraversa in controluce tutto il libro di Treppiedi che gli riconosce un valore centrale visto che riguarda quella camicia di forza che impedisce di pensare la differenza in quanto tale, al di fuori cioè di una rappresentazione ricalcata su quei presupposti che si vuol indagare e mettere in discussione. Presupposti che sono allo stesso tempo condizione ed effetto (p.42) del movimento di critica di «uno schema logico attributivo che privilegia le questioni d’essenza, giudicando a priori l’identità dell’oggetto interrogato, domandando sempre […]: che cos’è?»[8]. La frontiera di questo pensiero – ci dice Treppiedi – è kantianamente «Grenze» e «Schranke», limite e confine, ed entrambi devono essere tenuti in considerazione per denotare l’immagine in quanto problema e in quanto concetto (p.44). Da qui ne consegue che per oltrepassare il limite tra il pensiero e il fuori bisogna articolare un empirismo metafisico radicale, in grado di intuire l’esperienza reale (p.80) che si situa al di là del possibile immaginato sulla base di un trascendentale costruito a partire dalla coscienza psicologica. Potremmo dire: un pensiero che si fa nell’incontro-scontro con ciò che Lacan definisce il Reale in-simbolizzabile e, proprio per questo, non riducibile alle coordinate empiriche ordinarie, quelle mediate dalla rappresentazione consapevole. Il terzo saggio gioca proprio su questo che è il carattere fondamentale di un empirismo davvero trascendentale, cioè in grado di fare fino in fondo i conti con le condizioni dell’esperienza senza partire da quest’ultima e confondendo, così, condizione e condizionato (p.58). Questo empirismo radicale non si limita a prendere atto del fatto ma lo pensa sulla base di una violenza che spossessa il pensiero stesso allontanandolo dalle proprie coordinate – l’immagine – per condurlo sul crinale dell’evento, imprevedibile e, quindi, Reale. Crinali come quelli – ci dice Treppiedi – degli accadimenti sociali (p. 74) che nel loro essere assolutamente unici aprono le porte della temporalità ordinaria fratturando il corso della storia. Zone di criticità e soglie di indeterminazione «in cui proprio da ciò che si dice socialmente impossibile prende vita un agire capace di trasformare la realtà» (p.74). E’ la pars construens di un discorso che  diversamente si limiterebbe a ripetere, una volta ancora, un moto decostruttivo tanto sterile quanto ormai logoro e che invece ambisce a ripetere differentemente accadimenti pensati ordinariamente secondo la griglia del medesimo che depotenzia le imprevedibili potenzialità del virtuale. Treppiedi ne discute in particolare nel quarto capitolo, «Desiderio e potere» (pp. 63-74), dove affina la sua biopolitica dell'inconscio, una critica sperimentale che punta ad andare al di là delle coordinate freudiane, ancora troppo debitrici dell’universo rappresentativo, per aprire i varchi di un inconscio Reale in grado di sfuggire tanto alle strategie di controllo della società biopolitica, quanto alle congelate relazioni di potere della società iper-capitalista. Ci sembra un programma interessante, segno di una lettura partecipata dell’evento-Deleuze che Treppiedi conduce con competenza e acume, riuscendo così abilmente a tirarsi fuori da quel bagno di stereotipie in cui si dibatte molta parte dell’ermeneutica deleuziana. E’ un pregio non da poco.
 

 

[1] Cfr. F. Zourabichvili, Deleuze.Una filosofia dell’evento, trad.it. di F.Agostini, Ombre Corte, Milano 1998, p.13
[2] Ivi, p.12
[3] Ibidem.
[4] Ivi, p.13.
[5] Ivi, p.12.
[6] Cfr. G.Deleuze, Logica del senso, trad.it. di M.De Stefanis, Feltrinelli, Milano 2005, p.11.
[7] Cfr. F. Zourabichvili, Deleuze.Una filosofia dell’evento…cit., p.13.
[8] Ivi, p.16.
 

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