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L’Europa contemporanea è uno spazio post-coloniale

1 Ott 15

A cura di Luigi Benevelli

Il  padiglione Lombroso dell’ospedale psichiatrico di Reggio Emilia, sede del Museo di storia della psichiatria, ha ospitato sabato 26 settembre scorso il convegno di studi  sul tema La psichiatria e le altre culture: una prospettiva storica. L’evento ha aperto la settimana per la salute mentale promossa dal Dipartimento salute mentale  dell’Azienda Unità Sanitaria Locale di Reggio Emilia.
Ai saluti del dr. Gaddomaria Grassi, presidente del Centro di storia della psichiatria, e all’introduzione di Luigi Benevelli sono seguite la relazione Transcultural psychiatry, decolonization and nationalism: comparisons between Nigeria and India di Matthew M. Heaton professore del dipartimento di storia dell’Università Virginia Tech. (USA); la relazione Beyond colonial psychiatry? The indigenization of psychiatry in British India, 1900-1940 di Waltraud Ernst, della School of Arts and Humanities dell’Università di Oxford; quella di Marianna Scarfone, ricercatrice presso il Centro Koyré- CNRS di Parigi su La psichiatria coloniale italiana. Contorni di una disciplina e realizzazioni pratiche nel Corno d’Africa e in Libia. Ha concluso i lavori dell’intensa mattinata l’intervento sul tema Epistemology of cultural psychiatry del prof. German Berrios, Emeritus Professor di epistemologia della psichiatria dell’Università di Cambridge e direttore della autorevolissima rivista «History of psychiatry». L’esposizione del prof. Berrios è stata di profondità e complessità  straordinarie. La «Rivista sperimentale di freniatria» ha in programma di pubblicare gli atti del Convegno.
Propongo di seguito la mia relazione Europa contemporanea spazio post coloniale
Ritengo molto importante, opportuna e puntuale la scelta del Dsm di Reggio Emilia di dedicare un evento della settimana per la salute mentale al tema La psichiatria e le altre culture. Infatti l’arrivo tumultuoso  in Italia ed Europa di centinaia di migliaia di persone  da Africa, Medio Oriente, Asia ci impone rapporti di prossimità con chi non parla la nostra lingua, per lo più pratica religioni e costumi diversi. Tutto questo sta costituendo una novità che turba la serenità della vita quotidiana di molti, in taluni casi addirittura i sentimenti di sicurezza personale. Di qui le reazioni di rigetto, l’allarme, la richiesta che tali presenze siano nascoste alla vista o in qualche modo esorcizzate, possibilmente allontanate, il proliferare in Europa, anche da noi, di movimenti razzisti. L’esistenza di una questione razziale nelle società occidentali pone l’esigenza di azioni contro il pregiudizio, per la salute mentale collettiva. È urgente prenderne atto a fronte del moltiplicarsi dell’orrore delle morti violente per asfissia e dei gesti che assimilano gli umani agli animali, come la marchiatura dei migranti. Come contributo alla discussione sulle iniziative da prendere propongo alcune tesi tarate sul caso italiano, ma credo valide per l’intera Europa di oggi, nata  nel secondo dopoguerra dalla sconfitta del nazifascismo, a proposito del quale Simone Weil, nel saggio La questione coloniale e il destino del popolo francese del 1943 affermava: “La natura dell’hitlerismo consiste proprio nell’applicazione da parte della Germania, dei metodi della conquista e della dominazione coloniali al continente europeo, e più in generale ai paesi di razza bianca. […] Il male che la Germania avrebbe potuto far subire all’Europa, se l’Inghilterra non avesse ostacolato la vittoria tedesca, è lo stesso male compiuto dalla colonizzazione, lo sradicamento. Essa avrebbe privato del loro passato i paesi conquistati. La perdita del passato è proprio la caduta nella servitù coloniale. Questo male che la Germania ha tentato invano di infliggerci, noi l’abbiamo inflitto ad altri.  […] Privando i popoli della loro tradizione e di conseguenza della loro anima, la colonizzazione li riduce allo stato di materia umana. […] La colonizzazione, lungi dall’essere una occasione di contatti con le civiltà orientali, come avvenne con le Crociate, impedisce simili contatti”[1].
Il rimosso colonialista riemerge nel razzismo italiano di oggi
·         Lo sconcerto di parte dell’opinione pubblica italiana costretta all’incontro con chi arriva da paesi lontani e chiede, pretende accoglienza, nasce dal fatto di non ritrovarsi quegli elementi di conoscenza reciproca che aiutano la confidenza.  Tale  mancanza favorisce un’informazione centrata sui racconti di fame, guerre, persecuzioni, orrori, facendo cioè appello ai sentimenti umanitari delle nostre popolazioni. Ma, nel caso italiano, sempre, o quasi sempre, come se, noi non avessimo mai incontrato nella nostra storia gente di quei popoli che si riversano sulle nostre coste. È vero invece noi abitanti di una penisola tuffata nel Mediterraneo, conosciamo,  frequentiamo, scambiamo merci pressoché da sempre con africani, asiatici, abitanti del Medio Oriente (penso alla Roma imperiale, alle Repubbliche marinare), siamo emigrati nelle terre del Sud, del Nord America, dell’Oceania . Ed è accaduto anche che siamo andati a casa di alcuni di loro con violenza nella stagione dell’espansione coloniale, ne abbiamo occupato militarmente  i territori, sfruttato le risorse. Sempre accompagnati dalle Missioni cattoliche che svolsero un ruolo fondamentale nell’educazione, nell’organizzazione del consenso, nell’opera detta di “civilizzazione”.
·         Nel secondo dopoguerra, la politica e la cultura italiane sono state impegnate a occultare quanto, spesso di brutto, abbiamo combinato nelle colonie: come se noi non ci fossimo mai stati in Libia, Eritrea, Somalia, Etiopia. In aggiunta, la storia del colonialismo italiano è stata manipolata dalla propaganda degli “italiani brava gente”di cui Giulio Andreotti fu il principale regista. Si è trattato di un’opera dolosa di falsificazione, negazione delle responsabilità del Regno d’Italia, in età liberale prima e nel ventennio fascista dopo. Come ha documentato Angelo Del Boca, le leggi razziali contro le popolazioni di colore accompagnarono l’aggressione all’Etiopia, furono asse dell’amministrazione “imperiale” nelle colonie africane, precedettero la legislazione antiebraica. Per dire che almeno eritrei, libici, somali, etiopi hanno sperimentato il nostro colonialismo, e dall’altra parte i nostri bisnonni, nonni e padri sono stati con loro per sessant’anni, facendo la loro parte di “civilizzatori”, razzismo di Stato compreso. Per queste ragioni, si può legittimamente dire che ci conosciamo, e da parecchio tempo. Bisogna avere il coraggio di riprendere in mano quelle vicende, assai più di quanto non sia stato fatto sinora. Tale lavoro ci potrebbe aiutare a capire meglio il nostro tempo, le ragioni di chi arriva (da cosa scappa, cosa si aspetta, cosa è disposto a fare con e presso di noi) e quelle di chi accoglie (cosa possiamo offrire, di cosa abbiamo bisogno, cosa ci aspettiamo, entro quali limiti siamo disposti a stare insieme).
Le cittadinanze coloniali e le cittadinanze dei “folli”
·         Negli Stati moderni la cittadinanza attribuisce facoltà e diritti inviolabili, l’acquisizione di doveri e rappresenta la misura della cultura democratica, del grado di rispetto  e di tutela delle libertà e delle identità dei singoli e dei gruppi sociali. Nel Regno d’Italia sia in età liberale che ancora più negli anni del fascismo, la collocazione degli abitanti delle colonie (indigeni) rispetto ai cittadini “metropolitani”, fu questione molto trattata e discussa[2]. Il Dizionario di politica del Partito nazionale fascista (1940) elenca l’esistenza di sette tipi di cittadinanza[3] : la grande cittadinanza o cittadinanza “metropolitana”, acquisita per nascita (ius sanguinis); la piccola cittadinanza che non conferiva i diritti politici (elettorato attivo e passivo) e non imponeva obblighi militari; fu abrogata dal Fascismo;  la cittadinanza egea, analoga alla piccola cittadinanza, riconosciuta nel 1927 agli abitanti delle isole del Dodecanneso sotto amministrazione italiana; la cittadinanza coloniale, o sudditanza, attribuita ai libici e agli altri popoli delle colonie che consentiva il mantenimento degli usi e dei costumi locali, degli ordinamenti religiosi purché non in contraddizione con i Codici del Regno; i “protetti”, ex sudditi stranieri che godevano di una speciale “patente”- questa varietà di cittadinanza fu abrogata nel 1922; i non-regnicoli, ossia gli italiani di Corsica, Nizza e Tunisia che potevano acquistare il pieno godimento dei diritti politici; i non-ariani, ossia gli ebrei italiani e stranieri residenti in Italia dopo le leggi razziali del 1938. Erano esclusi. ovviamente, gli apolidi.
·         Vi è analogia con la questione della cittadinanza delle persone con disturbo mentale, una questione che ha condizionato le pratiche e i rapporti di potere fra medici e pazienti nella storia  dell’assistenza psichiatrica dell’Occidente  in Età  Moderna. Si tratta di un problema ancora aperto in molti paesi e ancora oggi in Italia per quanto riguarda i diritti del paziente psichiatrico autore di reato (v. dibattito in corso sulla chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari e sulla riforma del Codice penale).
Le relazioni fra persona con disturbo mentale e curante
·         Nell’assistenza psichiatrica una persona sospetta folle incontra un operatore (medico, infermiere, psicologo, altro), una persona che si ritiene normale  o comunque di rappresentare la normalità del sentire e del pensare comune. L’incontro è sempre, e da sempre problematico. E le difficoltà  ingigantiscono quando  curante e paziente  non condividono gli stessi codici culturali, di senso, linguistici. Quanto accade nell’incontro e le opportunità offerte in una prospettiva di “salute mentale”, costituiscono uno degli indici più sensibili del grado di rispetto dei diritti sociali e di cittadinanza non solo riconosciuti, ma soprattutto effettivamente praticabili nella situazione storica data. Si può dire che esistono due modi di osservazione da parte di un operatore nel rapporto con l’altro:
–          Osservare per classificare e catalogare: tipico dell’approccio medico-diagnostico, del naturalismo e dell’etnografia coloniale, pensiero rubricato, catalogazione, non implicazione nella relazione, estraneità e lontananza rispetto all’altro; si tratta di un rapporto unilaterale e a senso unico. Vi è chi osserva (il soggetto attivo: lo psichiatra, l’operatore, l’etnologo) e chi è osservato (oggetto passivo, reso oggetto ).
–          Osservare per comprendere: tipico dell’approccio che considera che tutti sono osservatori e osservati; il ricercatore, l’etnologo, lo psicologo e l’operatore sono implicati nella relazione con l’altro, accettano lo scambio e creano le condizioni per l’ascolto comprensivo e l’incontro. È quest’ultimo approccio a consentire che cittadini con disturbo mentale siano protagonisti di percorsi di salute, processi di empowerment e recovery.
Il problema della formazione degli operatori psichiatrici pubblici
L’assistenza psichiatrica italiana vive oggi momenti difficili: le difficoltà e la confusione in cui si trovano gli operatori dei Dipartimenti di salute mentale hanno molte cause “esterne” alla professione (politiche, istituzionali, organizzative), ma ve ne sono anche di “interne” (culture, qualità e contenuti della formazione sia di base che permanente). È doveroso chiedersi se la psichiatria che viene raccontata e insegnata nella formazione degli operatori dell’assistenza psichiatrica in Italia sia aggiornata, tenga conto delle questioni cui ho accennato . Ho scorso gli Ordinamenti didattici in vigore nelle scuole di specializzazione delle facoltà mediche italiane che illustrano quanto è tenuto a sapere e saper fare uno specialista nelle Neuroscienze e nelle Scienze cliniche del comportamento (Neurofisiopatologia ; Neurologia ;  Neuropsichiatria infantile;  Psichiatria ;  Psicologia clinica), e, a cascata, gli infermieri e gli educatori professionali, gli assistenti sociali.
Ebbene, nelle scuole professionali dell’Italia, lo  Stato in cui nel 1978 sono stati chiusi i manicomi pubblici, non si usa quasi mai la locuzione salute mentale, è assai scarsa e lacunosa la trasmissione di informazioni e saperi circa: la de-istituzionalizzazione dei trattamenti nell’assistenza psichiatrica pubblica; la lotta allo stigma; il no-restraint, l’assistenza psichiatrica  nelle carceri e quale chiusura degli opg;  la psichiatria culturale e la salute mentale nelle popolazioni di migranti. 
Grande è quindi il lavoro da fare anche perché l’Europa intanto è diventata un continente colorato, uno spazio post-coloniale

 
Reggio Emilia 26 settembre 2015

 

[1] S. Weil, Sul colonialismo- verso un incontro tra Occidente e Oriente,  (a cura e con un saggio di Domenico Canciani), Edizioni Medusa, Milano, 2003, pp. 34-47 passim.
 
[2] Della cittadinanza libica si occupò Evans Pritchard in Arab status in Cyrenaica under the italians, «Sociological Review», 1944, 1-4, 1-17.
[3] “” Marco Piraino e Stefano Fiorito ( a cura di), Antologia del Dizionario di politica , Biblioteca del covo, Roma, 2012, p. 78, 79.

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2 Commenti

  1. giuseppe.altieri

    I temi trattati possono
    I temi trattati possono essere oggetti di due articoli differenti a mio parere. Mi permetto di osservare che per gestire al meglio sia il fenomeno immigratorio sia quello dei malati psichiatrici serve un contesto in cui siano chiari i ruoli e le funzioni di ogni operatore e utente coinvolto. Spesso la gente ha paura perché in un contesto dove le regole non vengono rispettate o addirittura non esistono, non ci si sente tutelati dalle istituzioni. Quindi, in queste condizioni, è difficile approcciare all’altro in modo “comprensivo”. La dialettica tra approccio “oggettivo” e “soggettivo” non si esaurirà mai, se si privilegia l’uno piuttosto che l’altro si rischia di sfociare o in un sistema catalogante ed alienante (cosa che è successa in passato, a mio avviso) o nel relativismo più becero (fenomeno più attuale) che bene non fa.

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    • drmassimolanzaro

      Nota a margine: Il
      Nota a margine: Il padiglione Lombroso dell’ospedale psichiatrico di Reggio Emilia, sede del Museo (multimediale) di storia della psichiatria è una perla rara di architettura, cultura e tecnologia. Tutti gli addetti ai lavori e non forse dovrebbero vederlo almeno una volta.

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