Riflessioni (in)attuali
Uno sguardo psicoanalitico sulla vita comune
di Sarantis Thanopulos

UCCIDERE I GENITORI

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16 novembre, 2015 - 10:40
di Sarantis Thanopulos

Un ragazzo ha ucciso la madre e ferito gravemente il padre della sua fidanzatina, con la complicità di lei. Le vittime si opponevano al loro legame. Una ragazza ha ucciso la madre che le aveva proibito l’uso di internet, a causa del suo cattivo rendimento a scuola. In occasione di queste catastrofi affettive ci si interroga sempre sui motivi. Regolarmente le cause scatenanti appaiono del tutto sproporzionate all’enormità dell’azione in cui trovano sbocco.
Nel primo interrogarsi sull’uccisione dei genitori, nell’ambito della tragedia greca, lo sguardo si muove tra l’omicidio preterintenzionale del padre (Laio) da parte di Edipo e l’omicidio intenzionale della madre (Clitemnestra) da parte di Oreste -istigato dalla sorella Elettra. Edipo cancella dalla sua strada un padre di cui ignora l’identità, un estraneo che non l’ha riconosciuto come figlio. La responsabilità è di Giocasta: estorcendo un figlio da Laio, che ne era contrario, l’ha espulso dalla sua vita di donna/madre. Oreste elimina intenzionalmente Clitemnestra, perché lei, uccidendo Agamennone, l’ha privato del padre, delegittimandolo come uomo. Il parricidio di Edipo certifica la non esistenza del padre, il matricidio di Oreste afferma la necessità della sua permanenza.
In entrambi i casi, l’eliminazione del padre da parte della madre è un atto intenzionale che rescinde il legame di lui con il figlio. Mentre Edipo fa propria l’intenzione materna, inconsapevole del suo significato e delle sue implicazioni, Oreste afferma la propria opposta intenzionalità e elimina la madre uxoricida. Il primo precipita nel baratro della cecità, il secondo si avvia a un doloroso riscatto.
La  prospettiva tragica lega l’uccisione dei genitori alla dissoluzione del legame coniugale. La dissoluzione fa diventare la madre una figura autocentrata che, ignorando la figlia, usa il figlio per annientare il padre. Per i figli -fratello e sorella- l’unica salvezza possibile è di sconfiggere la volontà  autocratica che la madre/Sfinge incarna. Senza cadere nella tentazione di risposare la sua causa, restaurandola nella sua potenza (la contraddizione in cui si è perso Edipo).
La tragedia colloca il parricidio e il matricidio al centro del conflitto psichico dell’essere umano: la sua oscillazione tra l’uccisione interiore preterintenzionale del padre, che lo lascia indefinito nella sua identità, e l’uccisione intenzionale della madre autocratica, che gli consente di definirsi. L’uccisione concreta della madre e/o del padre, denuncia l’impossibilità del conflitto (il cui esito decide il grado di sanità psichica del soggetto). La sostituzione della sponda genitoriale allo sviluppo di una vera conflittualità con regole astratte, al tempo stesso restrittive e indefinite, preclude ai figli lo sviluppo di una vera intenzionalità e responsabilità. L’eliminazione fisica del genitore rende manifesto il vuoto nel luogo psichico che dovrebbe ospitarlo come autorità interna. L’esplicitazione del vuoto interno invoca l’intervento di un’autorità normativa esterna, cerca nella punizione l’argine all’indeterminatezza della propria  vita.
La lezione da trarre dal matricidio e dal parricidio, è che la relazione tra  genitori e figli non è naturale, né sacra, ma un riconoscimento reciproco tra soggetti desideranti. La genitorialità non è una funzione che si eredita: i genitori se la devono conquistare. Quando i genitori non riescono a impegnarsi in modo personale e si affidano a un’anonima interpretazione normativa della loro funzione, i figli possono cercare nella norma il genitore “vero” e materializzarlo nell’intervento repressivo della legge.

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