La strage a Parigi conferma la mutazione del terrorismo jihadista in movimento di rigetto radicale dell’altro, musulmano, cristiano o ateo che egli sia.
Il terrorismo è figlio di un narcisismo negativo che non è amore per la morte in sé, ma l’identificazione della vita con la rigida definizione di un giusto modo di vivere, privo di contraddizioni. Contro la vita realmente vissuta, le sue turbolenze e le frustrazioni, delusioni di cui è foriera, si erige il monumento ideale di una vita futura impeccabilmente felice. Il male di oggi è nettamente diviso dal bene di domani e ogni azione malvagia compiuta in un presente meschino è giustificata dal fine di un futuro in cui la pace e l’armonia trionferanno. L’ideale ha il sopravvento netto sull’essere umano reale, anche nella scelta del simbolo da colpire, e la prima vittima è il terrorista stesso che si spersonalizza e si disumanizza, riflettendosi nello specchio di un’immagine esemplare di sé. Non esiste salvacondotto per gli “innocenti” e più l’ideale prevale, più le azioni omicide diventano stragi indiscriminate.
Nonostante la ferocia inaudita di cui è capace, nel terrorista sopravvive, in forma negativa, un residuo di passione. L’odio dissociato dall’amore (che è proiettato nel futuro) agisce in lui per contro proprio, rivolto ugualmente contro di sé e contro l’altro, contro la comune “corrotta” materia umana. Proprio a questo odio – investito narcisisticamente, come inconscio fondamento concreto, immediato, della stima di sé – resta attaccato l’ultimo riconoscimento indiretto dell’umanità di sé e dell’altro.
I criminali di guerra, che hanno agito a Parigi (e i loro mandanti) non sono terroristi, propriamente parlando, e, al di là delle apparenze, non odiano le loro vittime: sono affettivamente indifferenti. Ammazzano in modo neutrale, professionale, come se svolgessero un servizio di disinfestazione. Come gli assassini nazisti (il loro modello inconsapevole) non trattano l’altro come oggetto di desiderio di cui diffidano, allorché le relazioni di scambio sono danneggiate (come accade nella xenofobia), né proiettano su di lui la propria vulnerabilità di soggetti desideranti, trasformandola in sua inferiorità congenita (come accade nel razzismo). Attaccano l’altro nel punto della reciproca co-costituzione, quando la vulnerabilità della vita che scorre nelle loro vene non è più possibile negarla attraverso la proiezione, ma occorre estirparla dalle sue radici. Non odiano la vita, amano il suo silenzio: si riflettono nella morte. Sono necrofili.
L’eccitazione che cercano non deve ingannare: è una difesa contro la loro confusione con i cadaveri che producono. Distruggono gli spazi interculturali: i luoghi più propriamente umani. La loro necrofilia è l’estrinsecazione della cultura della morte degli scambi, nell’area del pianeta in cui questa cultura (promossa da un sistema finanziario centrato sull’azzardo e sull’arbitrio) ha prodotto la massima desertificazione. Nel mondo degli affari globalizzati, in cui gli arabi oligarchi primeggiano, lo spettro della guerra tra l’occidente e l’islam nasconde il riflettersi reciproco nel loro vuoto di due culture in nulla dissimili.
Grandi masse di esiliati dal deserto dell’anima che abbiamo follemente creato, premono alle nostre porte, alla ricerca di un incontro difficile ma vitale. Sono la più indomita espressione della voglia di vivere. Coloro che prosperano sulla diffusione della paura, strumentalizzano il dolore di tutti, per innalzare i muri di una chiusura suicida.
Sono fatti gli uni per gli altri i necrofili dell’Isis e gli sciacalli di casa nostra
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