La storia delle foto è quantomeno bizzarra. Sono diventate famose durante la presentazione di un romanzo, «Il nido della follia» (Anfiteatro editore) di Francesco Proia, ambientato proprio nell’ex ospedale neuropsichiatrico di Collemaggio. Un ristoratore, Stefano Mazzetta, sostiene di averle trovate «una quindicina di anni fa, durante la ristrutturazione del canile interno del manicomio». Mazzetta «le ripose in un cartone in attesa di esaminarle meglio» e da allora sono rimaste nel dimenticatoio fino a oggi, quando il ristoratore, cogliendo evidenti analogie tra il romanzo e le lastre fotografiche in suo possesso, ha deciso di renderne pubbliche alcune proprio durante la presentazione del thriller. Le foto sono state immortalate su rarissime lastre Ferrania all’albumina e al bromuro d’argento e ciò ha consentito di datarle all’inizio del secolo scorso. Come detto sono immagini forti, che molto ricordano quelle dei sopravvissuti ai lager. Gli internati, infatti, sono terrorizzati e mostrano «indicibili smorfie di dolore dipinte sui volti»[3].
Personalmente, durante le ricerche che ho svolto negli archivi degli ex ospedali neuropsichiatrici, ho visto centinaia di foto di internati messi a bella posta in posa; alcune – come le foto tessera che da un certo punto in poi venivano allegate alle cartelle cliniche – avevano il volto della tristezza ordinaria e di solito immortalavano il paziente a letto; altre – come quelle che non di rado tra la fine dell’Ottocento e l'inizio del secolo scorso venivano inviate da qualche direttore di manicomio a Lombroso per le sue ricerche – erano artefatte, quasi caricaturali e rappresentavano l’internato in pose rituali, spesso con il vestito della festa, all’interno di quello che può sembrare un tipico ambiente borghese domestico di fine XIX secolo. Fino ad ora, però, non mi era capitato di vedere la sofferenza manicomiale esposta con tanta violenza nella sua cruda nudità, messa così sprezzantemente in posa per lo sguardo stupratore del "soggetto supposto sapere". Attraverso le foto sembra che l’occhio indagatore dello scienziato neo-positivista voglia fissare la follia nei suoi spasmi e congelarla, quasi rendendola un oggetto pienamente disponibile e indagabile fin nei recessi più remoti delle fibre molli del cervello. Indubbiamente sulla prassi di fare foto agli internati molto pesa l’antropologia del tempo, convinta che la follia sia evidenziabile attraverso le malformazioni e i tratti deviati del corpo; così «lo schizofrenico è lungo e assottigliato, il maniaco tende al grasso e piccolo…»[4]. Questo desiderio di costruire la realtà della follia per poterla indagare scientificamente, come un qualunque altro oggetto di studio, ci consente di condividere le parole di Slavoj Žižek secondo cui «la realtà è una costruzione di fantasia che ci permette di mascherare il nostro desiderio»[5]. In questo caso il desiderio è quello di poter padroneggiare la follia, di poterla spogliare di ogni zona d’ombra – i malati delle foto sono tutti nudi – e di poterla quindi addomesticare. Per questo la si rinchiude all’interno di perimetri d’esclusione – i manicomi – e per questo la si rappresenta nuda, priva di qualunque carattere che possa evocare la normalità del mondo esterno – le pose di molti internati sono quasi innaturali tanto sono piagati dalla disperazione. Le immagini vogliono insomma rappresentare un oggetto addomesticato e annientato che nulla più ha di umano.
Reificare la follia, illuminarla e renderla pienamente disponibile allo sguardo dell’osservatore è però una palese illusione che non riesce a nascondere fino in fondo le zone d’ombra che le stesse immagini proiettano su chi le osserva e che tanto hanno provocato gli spettatori alla presentazione del romanzo. Come affermato dalla teoria dello sguardo di Lacan, il sapersi osservato, la consapevolezza angosciosa di essere oggetto dello sguardo dell’Altro e delle ombre che in esso si celano evidenzia che ogni immagine «comporta essa stessa uno sguardo»[6]. Ma cosa significa ciò? Che ogni vedere è sollecitato da un fuori-campo che fonda la rappresentazione rendendola possibile. Il soggetto ancor prima di vedere viene visto e ciò lo costituisce nella forma di l’Io («moi»), cioè di immagine unitaria effetto di un riflesso fuori-campo. In tale ottica la teoria dello sguardo da nessun luogo afferma che la soggettività è «una struttura ontologica […] paranoica»[7] e che lo sguardo insiste sul soggetto determinandolo e attraendo il suo desiderio ma anche risvegliando in lui le angosce primordiali, quelle che più sono prossime alla follia. La presenza oscena di quest’ultima dietro le quinte dell’esistenza ordinaria è testimoniata da un affetto minaccioso che al pari di uno sfondo senza-fondo avvolge il soggetto. Come afferma Paolo Gambazzi: «L’orribile, il losco, il perturbante, tutto quello con cui traduciamo […] il magistrale unheimlich del tedesco, si presenta attraverso dei lucernari. E’ in quanto incorniciato che si colloca il campo dell’angoscia»[8]. E’ la ragione per cui lo scorrere quotidiano delle immagini, l’esperienza del guardare, del circoscrivere orizzonti e margini, spesso «si lacera e siamo noi ad avere la sensazione di essere guardati, magari senza sapere da chi o da cosa»[9] «improvvisamente, tutt’a un tratto… […] interviene il fenomeno dell’unheimlich»[10], testimone silenzioso della memoria perduta di un evento corporeo, delle sue sensazioni e affetti Reali. Ma di quale evento stiamo discutendo? Della memoria del corpo-in-frammenti, cioè della sensazione di disarmonia rispetto al mondo legata ai primi istanti di vita. Per questo essere visti dall’Altro è innanzitutto un evento corporeo che provoca angoscia, poiché rimanda a quel sentirsi fuori posto rispetto al mondo che è un altro dei nomi della freudiana «pulsione di morte».
Ma chi osserva chi? E chi sente fuori posto e perché? Lacan ci dice che è lo sguardo ad osservare il soggetto attraverso ciò che viene visto. Così sono gli internati di Collemaggio a guardare gli spettatori e provocare in loro quel disagio e quell’angoscia tipica di chi si sente osservato. Ma questo sguardo non viene dal di dentro dello schermo ma da fuori, è infatti lo spazio entro cui il soggetto si trova immerso a rappresentare lo sfondo che prende forma intorno ad un punto-cieco irrappresentabile che Lacan definisce Das Ding. E’ questo il tema della «schisi» tra occhio e sguardo che impegnò Lacan per un mese, nel 1964, durante il suo undicesimo Seminario, dedicato ai «quattro concetti fondamentali della psicoanalisi». Ma cosa vuol indicare con questa teoria Lacan? Il fatto che il vedere è fondato da un punctum caecum, un luogo irrappresentabile che fonda la rappresentazione («Vorstellung») rendendo illusoria la credenza irriflessa della coscienza di padroneggiare il visto: lo sguardo sul mondo del soggetto si apre da un punto di vista che resta fuori dalla rappresentazione. Il paradosso è che il soggetto osserva il mondo ma non vede il proprio punto d’osservazione, il luogo da cui apre gli occhi, quello abitato dalle angosce primordiali che lo penetrano fin dentro le viscere. Per questo è come se le immagini dei «fantasmi di Collemaggio» osservassero a loro volta il soggetto rendendolo Altro – nel senso di estraneo («Fremde») – nei confronti di se stesso e risvegliando quelle sensazioni latenti che Lacan sostiene appartengano al corpo-che-gode: «io non vedo da un punto ma, nella mia esistenza, io sono guardato da ogni parte»[11].
In conclusione cosa ci dice questo paradosso dello sguardo? Che, neanche troppo celata, in ognuno c’è la memoria dell’assenza di senso della realtà, quella che secondo Lacan origina e tiene in piedi il rinvio metonimico del significante e che l’iscrizione simbolica nel dominio del linguaggio ha fatto dimenticare. Ecco, le immagini degli internati di Collemaggio hanno la forza di risvegliare in chi le osserva proprio questa angoscia per il senso che non c’è che Lacan chiama Reale. In altre parole, il farsi presente del baratro del non-senso fa riemergere in ognuno degli osservatori quei sentimenti di terrore, sgomento e orrore latenti, che così chiaramente sono impressi sui volti degli internati di Collemaggio e che tanto si cerca di tenere lontani dall’esistenza ordinaria.
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