Un sorprendente studio longitudinale sulla correlazione tra reti sociali e obesità è stato pubblicato su una delle riviste più prestigiose di medicina, la New England Journal of Medicine. I ricercatori di Harvard hanno analizzato 12.067 soggetti e le relative reti sociali sia parenti di primo grado (genitori, fratelli, sorelle e figli), sia soggetti designati come ‘’amici intimi’’. Sono stati così ottenuti oltre 38.000 legami familiari e sociali, con una media di 7,5 legami per ciascun soggetto. Inoltre per ciascun soggetto (inclusi familiari e amici) è stata stabilita la sua obesità, definita con un punteggio uguale o superiore a 30 di body mass index (BMI, indice di massa corporea calcolata come peso in chilogrammi diviso il quadrato dell’altezza in metri: Kg/m2). Le variabili di BMI e rete sociale sono state valutate ogni 3 anni dal 1971 al 2003.
I risultati clamorosi indicano che la diffusione dell’obesità avviene secondo pattern e tipologia di relazioni interpersonali:
– Il rischio di obesità di due persone unite nella stessa rete sociale è del 45% superiore rispetto a una rete casuale di rapporti sociali.
– L’effetto dell’associazione diminuisce in funzione della diminuzione della distanza sociale, ma cosa straordinaria, la distanza geografica non ha alcun effetto sull’associazione. Ovvero l’obesità dell’altro che vive geograficamente molto distante è associata all’obesità del soggetto tanto quanto accade con persone della stessa rete sociale e che vivono geograficamente vicine.
– In soggetti che dichiarano di essere ‘’amici intimi’’ il rischio di obesità aumenta del 171%, mentre in modo sorprendente non esiste alcun rischio se a dichiarare l’intimità dell’amicizia è solo uno dei due.
– Nei rapporti di parentela, il rischio di obesità aumenta del 40%, specialmente nei soggetti dello stesso sesso (55%).
– Il rischio è uguale a 0 per i vicini di casa.
– Fumo e distanza geografica non modificano affatto l’effetto e la dimensione delle associazioni fra rete sociale e obesità.
I risultati di questo studio molto robusto sono sorprendenti perché dimostrano che le relazioni interpersonali affettivamente importanti determinano e modulano funzioni comportamentali e specialmente quelle metaboliche. Vi sono ovviamente molteplici spiegazioni psicosociali possibili, come la maggiore accettabilità individuale di essere obeso se anche un amico o un fratello lo è oppure la condivisione degli stessi tipi di cibi nella famiglia. Voglio sottolineare come le interazioni sociali affettivamente significative (fratelli e amici intimi) insieme a fattori psicologici di identificazione (l’associazione aumentata negli individui dello stesso sesso) costituiscano degli organizzatori nascosti del comportamento individuale in grado di alterare il funzionamento biologico del soggetto.
Una regolare attività fisica di moderata intensità comporta notevoli benefici in termini di salute in tutte le fasce di età. D’altro canto la sedentarietà contribuisce, insieme ad altri fattori di rischio, allo sviluppo di numerose malattie cronico-degenerative ed in particolare a quelle dell’apparato cardiovascolare, metaboliche ed osteoarticolari. La mancanza d’attività fisica aumenta la frequenza dei casi di sovrappeso e obesità e di una serie di disturbi cronici come le malattie cardiovascolari e il diabete, che riducono la qualità della vita, mettono a rischio la vita delle persone e rappresentano un onere per i bilanci sanitari e per l’economia. La giusta ‘’dose’’ di sport deve essere vista in un’ottica ‘’farmacologica’’, ovvero, al paziente obeso lo sport deve essere ‘’somministrato’’ da un professionista in modo meticoloso associato alla riabilitazione Metabolica-Nutrizionale-Psicologica che rappresenta un approccio all’obesità, nelle fasi di instabilità e scompenso delle comorbosità somatiche e psichiatriche, laddove il livello di disabilità è elevato e la qualità di vita è penalizzata.
Comorbosità somatica e psicopatologica, disabilità, ridotta qualità complessiva di vita nelle varie fasi del ciclo esistenziale sono le componenti principali dell’evoluzione clinica dell’obesità. Seguendo il modello biopsicosociale dell’International Classification of Functioning, Disability and Health (ICF) ed utilizzando il core set per pazienti obesi, un gruppo di studio ha evidenziato la presenza di alterazioni in diverse aree funzionali specifiche su cui intervenire con programmi terapeutico riabilitativi. I questionari sulla qualità della vita (es: SF36) evidenziano un importante effetto negativo dell’obesità non solo nell’area delle limitazioni fisiche, ma anche in quella più generale del malessere psicologico e del funzionamento sociale. È utile a tale riguardo, ricordare, oltre alle note complicanze mediche dell’obesità, il fatto che tale condizione risulta molto spesso associata a un ridotto benessere psico-fisico, a disturbi delle condotte alimentari (in particolare Binge Eating Disorder, BED e Night Eating Syndrome, NES), a bassa stima di sé e a depressione, conseguenze anche del grave e insidioso stigma sociale che colpisce chi è affetto da questa patologia.
I dati della letteratura dimostrano anche che i migliori risultati si ottengono nei soggetti informati sulla patologia, in grado di gestire meglio le oscillazioni del tono dell’umore, le fluttuazioni dei livelli di ansia o di stress, che sono passati attraverso un percorso caratterizzato dalla declinazione, nell’ambito di un Progetto Riabilitativo Individuale integrato. Come per esempio l’educazione terapeutica e interventi psicoterapeutici brevi focalizzati, interventi psico-pedagogici e psicoterapeutici diretti a:
– riconoscere i reali fabbisogni dei pazienti (Metaplan);
– correggere le convinzioni errate dei pazienti sull’alimentazione e l’attività fisica che talvolta rappresentano il primo vero ostacolo alla cura;
– migliorare non solo le conoscenze , ma anche le competenze dei pazienti attraverso il passaggio dal “sapere”, al “saper fare” ed al “sapere essere”;
– allenare alla gestione e all’autocontrollo dell’alimentazione, dell’attività fisica, dei momenti di stress ed ansia (diario alimentare, automonitoraggio, controllo degli stimoli, problem solving);
– migliorare il rapporto con il corpo e la sua immagine (danza-movimento-terapia, training autogeno e altre tecniche corporee di rilassamento);
– affrontare le difficoltà psicologiche legate all’accettazione e/o al mantenimento del problema; – aumentare il senso di responsabilità nella malattia e nella cura (illness behaviour);
– favorire la compliance terapeutica (intervista motivazionale, strategie di counseling motivazionale breve, etc);
– facilitare non solo l’apprendimento cognitivo (attraverso la condivisione di argomenti specifici), ma anche l’apprendimento esperienziale (grazie all’uso di role playing e simulate) e quello intuitivo (attraverso l’uso di aforismi, metafore, storie); – insegnare il controllo di semplici parametri clinici (glicemia, pressione arteriosa).
L’esposizione dei bambini al rischio dell’obesità viene incoraggiata dal discorso sociale nella misura in cui questi alimenta una domanda convulsiva di oggetti come effetto di una decadenza dell’Ideale rispetto alla promozione dell’oggetto del godimento. Il discorso sociale attuale sostiene la necessità di una saturazione del vuoto, o, più precisamente, la saturazione del vuoto come modalità di soppressione della mancanza e del desiderio. L’obesità è il fenomeno psicopatologico che forse più di tutti illustra gli effetti devastanti di questa saturazione: il corpo è ridotto ad un mero contenitore di oggetti; contenitore le cui capacità di raccolta appaiono come illusoriamente infinite. L’obeso identificando letteralmente il vuoto col vuoto dello stomaco compie effettivamente un errore topologico che rivela però una verità di struttura: il soggetto contemporaneo è ridotto ad una macchina di godimento.
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