PARLA CON LORO
di Giuliano Castigliego, giulianocastigliego.nova100.ilsole24ore.com, 10 gennaio 2016
Quando Freud, più di un secolo fa, svelava la sessualità infantile nella non proprio puritana Vienna era scandalo. Ora i tabù legati al sesso sono per fortuna in gran parte stati infranti – e un po’ del merito va anche alla bistrattata psicoanalisi. È ancora però un tabù ai nostri giorni parlare di disturbi mentali nei bambini e negli adolescenti. Lo testimonia un serio studio inglese recentemente citato in un bell’articolo del Guardian. Nonostante un bambino inglese su 10 sia colpito da un disturbo psichico, il 55% dei genitori non ha mai discusso di salute mentale con i propri figli. Ancora più scioccante che il 45% dei genitori intervistati dica di non averlo fatto perché “is not an issue”. Un’ isolata eccezione dell’isola Inglese? Non proprio, visto che in Italia uno studio epidemiologico PrISMA Study condotto nel 2009 nelle scuole su un campione di 3500 scolari indica un’analoga percentuale del 10% di ragazzi che presentano un disturbo mentale diagnosticabile secondo i criteri del DSM-IV. La stessa ricerca dimostra purtroppo che di questo 10%, l’80% non aveva mai ricevuto una consulenza medica o psicologica. Non basta: Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità “il carico di disabilità legato ai disturbi mentali è destinato ad aumentare e nel 2020 i bambini e adolescenti ad aver bisogno di un supporto psicologico o psichiatrico saranno il 20%.”. Si arriverà dunque presto a un bambino su cinque colpito da un disturbo psichiatrico
Si potrebbe pensare che di fronte a dati così evidenti il tema venga quotidianamente dibattuto in ogni ambito da quello familiare a quello sanitario e politico. Qui basta anche la nostra comune esperienza per dirci che non è così. Con l’eccezione del cyber bulling – che è ormai sulla bocca di tutti, come il burnout per gli adulti – i disturbi psichiatrici dei bambini e degli adolescenti continuano ad essere un tabù. Nella nostra epoca digitale non sono certo le informazioni e l’accessibilità alle stesse a mancare. In pochi click i dati citati sono alla portata di tutti. Sembra piuttosto che “l’innocenza infantile” quella stessa che veniva invocata di fronte alle teorie freudiane si sia trasferita dal sesso alla salute mentale. È cambiato l’ambito ma la rimozione rimane la stessa. Come se i ragazzi, “teneri virgulti” non possano essere nemmeno lontanamente sfiorati dal disagio psichico, che si materializzerebbe per incanto solo a partire dall’età adulta. Le forme in cui si manifesta tale rimozione – che arriva talvolta fino alla negazione della realtà – sono svariate ma il meccanismo rimane identico. Le malattie mentali dei bambini – si dice – sono inventate, esasperate, accentuate, dalle case farmaceutiche interessate solo a vendere i loro prodotti (il che è sicuramente vero e conferma l’egoismo umano, l’insensibilità di regole di mercato da sorvegliare ed eventualmente da correggere ma non dimostra l’assenza di malattie). I disturbi mentali dei bambini – si sostiene – sono il portato della nostra società moderna/post-moderna, della perdita dei Valori, dello stress, della globalizzazione, della società liquida, della liquefazione dei padri… I disturbi mentali dei ragazzi – si prescrive – si risolvono con l’amore. Dietro queste ed analoghe apodittiche affermazioni c’è verosimilmente molta paura, molta impotenza e forse un malinteso senso di colpa. Le malattie dei nostri figli ci atterriscono e ci angosciano come poco altro. Ci sentiamo impotenti e in qualche modo sempre colpevoli, di aver o non aver fatto qualcosa. E allora in preda al panico, all’angoscia, al senso di colpa, preferiamo rimuovere, negare, incolpare altri. (E quando possiamo incolpare qualcuno/qualcosa come nel caso del bullismo e del burnout parliamo volentieri).
Segue qui:
http://giulianocastigliego.nova100.ilsole24ore.com/2016/01/10/parla-con-loro/
Si potrebbe pensare che di fronte a dati così evidenti il tema venga quotidianamente dibattuto in ogni ambito da quello familiare a quello sanitario e politico. Qui basta anche la nostra comune esperienza per dirci che non è così. Con l’eccezione del cyber bulling – che è ormai sulla bocca di tutti, come il burnout per gli adulti – i disturbi psichiatrici dei bambini e degli adolescenti continuano ad essere un tabù. Nella nostra epoca digitale non sono certo le informazioni e l’accessibilità alle stesse a mancare. In pochi click i dati citati sono alla portata di tutti. Sembra piuttosto che “l’innocenza infantile” quella stessa che veniva invocata di fronte alle teorie freudiane si sia trasferita dal sesso alla salute mentale. È cambiato l’ambito ma la rimozione rimane la stessa. Come se i ragazzi, “teneri virgulti” non possano essere nemmeno lontanamente sfiorati dal disagio psichico, che si materializzerebbe per incanto solo a partire dall’età adulta. Le forme in cui si manifesta tale rimozione – che arriva talvolta fino alla negazione della realtà – sono svariate ma il meccanismo rimane identico. Le malattie mentali dei bambini – si dice – sono inventate, esasperate, accentuate, dalle case farmaceutiche interessate solo a vendere i loro prodotti (il che è sicuramente vero e conferma l’egoismo umano, l’insensibilità di regole di mercato da sorvegliare ed eventualmente da correggere ma non dimostra l’assenza di malattie). I disturbi mentali dei bambini – si sostiene – sono il portato della nostra società moderna/post-moderna, della perdita dei Valori, dello stress, della globalizzazione, della società liquida, della liquefazione dei padri… I disturbi mentali dei ragazzi – si prescrive – si risolvono con l’amore. Dietro queste ed analoghe apodittiche affermazioni c’è verosimilmente molta paura, molta impotenza e forse un malinteso senso di colpa. Le malattie dei nostri figli ci atterriscono e ci angosciano come poco altro. Ci sentiamo impotenti e in qualche modo sempre colpevoli, di aver o non aver fatto qualcosa. E allora in preda al panico, all’angoscia, al senso di colpa, preferiamo rimuovere, negare, incolpare altri. (E quando possiamo incolpare qualcuno/qualcosa come nel caso del bullismo e del burnout parliamo volentieri).
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ATTACCAMENTO E ACCUDIMENTO NEL BAMBINO E NELL’ADULTO
di Rosalba Miceli, lastampa.it, 12 gennaio 2016
Nella concezione di Bowlby, psicologo e psicoanalista britannico, al quale si deve la formulazione della “teoria dell’attaccamento”, ampiamente confermata da dati di ricerca, il legame di attaccamento bambino-madre rappresenta l’esito di un sistema motivazionale primario, a base biologica e con significato evolutivo di adattamento distinto dalla soddisfazione dei bisogni fisiologici. Il sistema comportamentale di attaccamento è uno dei Sistemi Motivazionali Interpersonali che motivano e regolano il comportamento del bambino che cerca la vicinanza fisica e psicologica della figura di attaccamento (madre o caregiver in senso più ampio), ritenuta in grado di offrire cura, con l’obiettivo interno di ricerca di sicurezza. Bowlby dedicò molte energie alla ricerca di tutti quegli elementi attivatori e disattivatori del sistema d’attaccamento infantile, elementi poi riconosciuti in stimoli interni ed esterni associati a situazioni che suscitano paura o stress nel bambino. Dal versante complementare, il sistema d’accudimento ha come funzione principale la protezione genitoriale dei figli. Cassidy e Shaver hanno individuato i fattori in grado di avviare il sistema d’accudimento in quegli stimoli interni ed esterni riguardanti situazioni di vita che il genitore percepisce, in base alla propria valutazione, come spaventanti o stressanti per il proprio figlio, tenendo conto anche dei segnali verbali e non verbali inviati dal bambino.
Segue qui:
http://www.lastampa.it/2016/01/12/scienza/galassiamente/attaccamento-e-accudimento-nel-bambino-e-nelladulto-zT2a3bTVJdO90qpE6aNMrI/pagina.html
Segue qui:
http://www.lastampa.it/2016/01/12/scienza/galassiamente/attaccamento-e-accudimento-nel-bambino-e-nelladulto-zT2a3bTVJdO90qpE6aNMrI/pagina.html
UNA PIETRA DI INCIAMPO SULLA STRADA DELL’INCONSCIO. «Psiche» dello psicoanalista Luigi Zoja per Bollati Boringhieri
di Claudio Vercelli, ilmanifesto.info, 12 gennaio 2016
Scriveva Carl Gustav Jung, in termini quasi profetici: «è conforme alla moderna ipertrofia della coscienza essere immemori della pericolosa autonomia dell’inconscio e spiegarla solo negativamente come assenza di coscienza». Colmiamo sempre più spesso l’incapacità di guardare prospetticamente l’abisso pulsionale che dimora in noi stessi con il rimando autoassolutorio ad una presunta indisponibilità all’introspezione, facoltà che nei dispositivi ideologici dominanti dovrebbe invece contribuire a «fare chiarezza», poiché nulla di oscuro ci è permesso abitare. Temiamo l’ombra non perché sia oscura ma in quanto immagine riflessa di noi stessi.
Luigi Zoja, eminente studioso di estrazione junghiana e analista, consegna al pubblico italiano un’opera preziosa, quasi un vademecum dedicato a Psiche (Bollati Boringhieri, pp. 160, euro 11). Opportuno il fatto che compaia nella agile collana intitolata ai «sampietrini» poiché il suo testo è come una pietra d’inciampo, sulla quale bisogna soffermarsi non per virtù bensì per necessità. Camminando a passo spedito, ma anche a tratti vertiginoso, nell’esistenza quotidiana si incontra la realtà immateriale di noi stessi, della nostra complessa e stratificata immagine, dell’immaginazione che di esse si alimenta, dell’immaginario che si rigenera permanentemente. L’autore ci invita a pensare che non ci sia nulla di più consistente e persistente di ciò che, con estrema fallacia, reputiamo invece essere le aleatorie categorie dello spirito. Psiche ne è, per l’appunto, il contenitore, esso stesso mobile, permeabile, poroso e mobile.
Segue qui:
http://ilmanifesto.info/una-pietra-di-inciampo-sulla-strada-dellinconscio/
Luigi Zoja, eminente studioso di estrazione junghiana e analista, consegna al pubblico italiano un’opera preziosa, quasi un vademecum dedicato a Psiche (Bollati Boringhieri, pp. 160, euro 11). Opportuno il fatto che compaia nella agile collana intitolata ai «sampietrini» poiché il suo testo è come una pietra d’inciampo, sulla quale bisogna soffermarsi non per virtù bensì per necessità. Camminando a passo spedito, ma anche a tratti vertiginoso, nell’esistenza quotidiana si incontra la realtà immateriale di noi stessi, della nostra complessa e stratificata immagine, dell’immaginazione che di esse si alimenta, dell’immaginario che si rigenera permanentemente. L’autore ci invita a pensare che non ci sia nulla di più consistente e persistente di ciò che, con estrema fallacia, reputiamo invece essere le aleatorie categorie dello spirito. Psiche ne è, per l’appunto, il contenitore, esso stesso mobile, permeabile, poroso e mobile.
Segue qui:
http://ilmanifesto.info/una-pietra-di-inciampo-sulla-strada-dellinconscio/
OPPOSTI INTEGRALISIMI DI PERIFERIA. Cosa è realmente successo a Vignola? Terrorismo, goliardata o l’uso dell’odio come collante sociale?
di Maurizio Montanari, lettera43.it, 13 gennaio 2016
Il mio studio si trova a Vignola (Modena), a due chilometri dal luogo nel quale è avvenuto un evento piuttosto odioso, le conseguenze del quale saranno visibili per molto tempo nelle vie della città, e che ha scaraventato il mio paese sulle cronache nazionali per un giorno. Alcuni ragazzi di origine non italiana hanno intimidito un gruppo di adolescenti locali, arma finta alla mano, chiedendo loro se fossero di religione musulmana oppure no. L’eco mediatica del fatto ha portato il mio paese agli ‘onori ‘delle cronache nazionali, descritto su quotidiani e telegiornali che vanno in onda a mezzogiorno come una sorta di ‘culla’ dell’isis nel cuore dell’Emilia gonfia di nebbia. Nei titoli delle testate nazionali siamo passati dal ‘bullimso islamico’ sino alla ‘finta esecuzione ’, per giungere poi alla confessione dei balordi i quali, forse accortisi del clamore sollevato, si sono presentati in caserma ammettendo una ‘goliardata’, e consegnando l’arma finta.
Calma.
Questo episodio, grave senza se e senza ma, non può essere ascritto ad alcun‘estremismo religioso’, mancando le caratteristiche semi deliranti dell’immedesimazione totale e alienante del terrorista alla sua ‘missione’ violenta. Tuttavia alcune riflessioni a ruota libera sul legame sociale, sulle reazioni scomposte, sull’agire di alcuni individui violenti, è d’uopo.
Perché uomini desiderosi di dare sfogo alle loro tendenze perverse, o, in subordine, alle loro fregole da spacconi di infimo ordine, utilizzano l’abito del fondamentalista? Perché prendere a prestito la minaccia religiosa, ben certi di incutere un maggior timore rispetto a qualsiasi altra arma simbolica potevano imbracciare?
E perché parte della popolazione locale, al di là della più che legittima reazione di rabbia e richiesta di giustizia, sembra anch’essa avere necessità di aggrapparsi al significante religioso per potersi raggruppare, rinsaldando le fila logore della comunità, compattandosi verso un pericolo che ritiene imminente? Una minaccia confessionale che, in questo caso, sembra non esserci?
Azioni violente, il mio paese ne ha conosciute.
E Dio non c’entrava.
Segue qui:
http://www.lettera43.it/blog/la-stanza-101-lo-sguardo-di-uno-psicoanalista-sul-contemporaneo/legame-sociale/opposti-integralisimi-di-periferia_43675229815.htm
Calma.
Questo episodio, grave senza se e senza ma, non può essere ascritto ad alcun‘estremismo religioso’, mancando le caratteristiche semi deliranti dell’immedesimazione totale e alienante del terrorista alla sua ‘missione’ violenta. Tuttavia alcune riflessioni a ruota libera sul legame sociale, sulle reazioni scomposte, sull’agire di alcuni individui violenti, è d’uopo.
Perché uomini desiderosi di dare sfogo alle loro tendenze perverse, o, in subordine, alle loro fregole da spacconi di infimo ordine, utilizzano l’abito del fondamentalista? Perché prendere a prestito la minaccia religiosa, ben certi di incutere un maggior timore rispetto a qualsiasi altra arma simbolica potevano imbracciare?
E perché parte della popolazione locale, al di là della più che legittima reazione di rabbia e richiesta di giustizia, sembra anch’essa avere necessità di aggrapparsi al significante religioso per potersi raggruppare, rinsaldando le fila logore della comunità, compattandosi verso un pericolo che ritiene imminente? Una minaccia confessionale che, in questo caso, sembra non esserci?
Azioni violente, il mio paese ne ha conosciute.
E Dio non c’entrava.
Segue qui:
http://www.lettera43.it/blog/la-stanza-101-lo-sguardo-di-uno-psicoanalista-sul-contemporaneo/legame-sociale/opposti-integralisimi-di-periferia_43675229815.htm
IO PARLO AI MURI
di Andrea Ferronato, doppiozero.com, 13 gennaio 2016
«Un mio allievo, un giorno in cui era sbronzo, mi ha detto che ero un tipo simile a Gesù Cristo. Si burlava di me, ovviamente. Non ho il minimo rapporto con quell’incarnazione. Semmai sono simile a Ponzio Pilato». Cosa accomuna Jacques Lacan al celebre prefetto romano? Entrambi hanno posto la stessa domanda: “Quid est veritas?” Che cos’è la verità? Il secondo, però, ebbe l’opportunità di porre tale domanda alla Verità stessa. Racconta Giovanni nel suo vangelo (18,38): «Gli dice Pilato: “Che cos’è la verità?”. E detto questo uscì di nuovo verso i Giudei e disse loro: “Io non trovo in lui nessuna colpa”». Perché Pilato fugge via? Perché non ascolta la risposta di Gesù Cristo, la risposta della Verità? Come Lacan, Pilato aveva forse capito qualcosa, qualcosa che va oltre a ciò che si può dire. Agostino d’Ippona ci mostra come, anagrammando la domanda posta dal prefetto romano, un risultato può essere: “est vir qui adest” (è l’uomo qui davanti a te). Ciò che forse, allora, accomuna veramente i due, è che entrambi avevano capito che la verità non può essere veicolata interamente da un dire, ma si deve incarnare, è un pezzo di carne, è concreta, e in quel momento era lì davanti. Tanto concreta che anche la risposta che Gesù Cristo avrebbe potuto dare: “est vir qui adest”, in quanto parola, non sarebbe stata verità. C’è dunque un buco insito nel linguaggio, per cui in tutto ciò che si dice qualcosa mente sempre.
In Il mio insegnamento e Io parlo ai muri (Astrolabio 2014, a cura di Antonio Di Ciaccia) vengono raccolti due cicli di conferenze, il primo tenuto tra Lione, Bordeaux e Strasburgo (1967-1968), il secondo, successivo, presso l’ospedale di Sainte-Anne (1971-1972). Dalla lettura dei sei interventi qui riuniti si evince come l’intento lacaniano sia quello di mostrare l’impossibilità costitutiva di dire tutta la verità, verità a cui, secondo lo psicoanalista francese, sembrerebbe invece mirare il discorso logico filosofico: questo, infatti, ancora profondamente vincolato al dogma cartesiano del “chiaro e distinto”, affidandosi cioè solo a ciò che è presente e manifesto, non riuscirebbe a tenere conto di quell’eccedenza che la vita di qualsiasi soggetto porta in sé. Il sapere logico, infatti, aveva fatto credere che attraverso un metodo rigoroso, ponendo come fondamento alcuni principi detti universali, si sarebbe potuto dedurre una architettura salda e assoluta della verità. Ora però ci si accorge che quelli che erano posti come principi primi non riescono veramente a comprendere l’universalità, ma c’è un residuo che persiste al di fuori di quest’ordine.
La grande sorpresa che qui ci viene svelata è che questo non è l’unico sapere vigente, accanto ad esso Lacan ve ne introduce un altro: il sapere dell’inconscio, che mira a mostrarci un’altra verità. Al pari dellogos anche l’inconscio però ha una sua “logica”, esso «è strutturato come un linguaggio»: ma ciò su cui si sofferma Lacan in questa frase, è l’articolo indeterminativo “un”, che mostra come tale strutturazione parta dall’impossibilità di ridurre tutto a una determinazione. Non esiste dunque “La verità” ma “le verità” fatte di un vero sempre nuovo in continuo divenire che bisogna sempre creare in ogni istante per cui non c’è altra verità che quella di oggi, quella che io posso pensare e vivere.
Questa operazione però non mira ad una decostruzione dissacrante di tutto il senso, ma mette in luce che tale senso non può mai essere portato a senso comune. È impossibile intendere qualsiasi atto enunciativo allo stesso modo. Il Simbolico, infatti, conserva sempre qualcosa del buco, e se il sapere analitico punta a ricoprire questo buco per formare dei saggi detentori di un sapere universale, esso viene ridotto a sintomo (Sinthomodaquino): diviene cioè un sapere alienato agli altri saperi, soggetto allo stesso destino di insoddisfazione che vi è nel cercare di dire tutto.
Il movimento che in questi sei interventi ci viene proposto è invece quello di porre l’impossibilità del dire tutto (nominata anche come castrazione o impossibilità del rapporto sessuale) in posizione dominante, il che significa porre a fondamento quella specie di perdita che si produce necessariamente nella significanza, quel resto di Reale che la vita contiene in sé. Enunciare, dunque, comporta un consegnarsi all’interminabile, implica cioè la rinuncia di una verità come idolo, ossia statica, a fronte di una possibilità di una verità creativa.
Ecco perché la parola di Lacan non è diretta in prima persona ai suoi uditori ma esso parla ai muri della cappella di Sainte-Anne. Vederlo parlare ai muri attua una nuova esperienza di parola che non può lasciarci indifferenti, ciò che si indirizza ad essi infatti ha la proprietà di ripercuotersi per echeggiare. La parola che esce dalla bocca del maestro non è più parola diretta, univoca, plagiabile, ma arriva in modo distorto, con un effetto di risonanza, un’eco, un rimbalzo che genera un’inflessione in essa. Tale distorsione, tale eco, cambia la parola provocando afasie, incomprensioni che coincidono (cadono assieme) con il detto allargandolo, arricchendolo dell’ascolto.
Segue qui:
http://www.doppiozero.com/materiali/contemporanea/quid-est-veritas
In Il mio insegnamento e Io parlo ai muri (Astrolabio 2014, a cura di Antonio Di Ciaccia) vengono raccolti due cicli di conferenze, il primo tenuto tra Lione, Bordeaux e Strasburgo (1967-1968), il secondo, successivo, presso l’ospedale di Sainte-Anne (1971-1972). Dalla lettura dei sei interventi qui riuniti si evince come l’intento lacaniano sia quello di mostrare l’impossibilità costitutiva di dire tutta la verità, verità a cui, secondo lo psicoanalista francese, sembrerebbe invece mirare il discorso logico filosofico: questo, infatti, ancora profondamente vincolato al dogma cartesiano del “chiaro e distinto”, affidandosi cioè solo a ciò che è presente e manifesto, non riuscirebbe a tenere conto di quell’eccedenza che la vita di qualsiasi soggetto porta in sé. Il sapere logico, infatti, aveva fatto credere che attraverso un metodo rigoroso, ponendo come fondamento alcuni principi detti universali, si sarebbe potuto dedurre una architettura salda e assoluta della verità. Ora però ci si accorge che quelli che erano posti come principi primi non riescono veramente a comprendere l’universalità, ma c’è un residuo che persiste al di fuori di quest’ordine.
La grande sorpresa che qui ci viene svelata è che questo non è l’unico sapere vigente, accanto ad esso Lacan ve ne introduce un altro: il sapere dell’inconscio, che mira a mostrarci un’altra verità. Al pari dellogos anche l’inconscio però ha una sua “logica”, esso «è strutturato come un linguaggio»: ma ciò su cui si sofferma Lacan in questa frase, è l’articolo indeterminativo “un”, che mostra come tale strutturazione parta dall’impossibilità di ridurre tutto a una determinazione. Non esiste dunque “La verità” ma “le verità” fatte di un vero sempre nuovo in continuo divenire che bisogna sempre creare in ogni istante per cui non c’è altra verità che quella di oggi, quella che io posso pensare e vivere.
Questa operazione però non mira ad una decostruzione dissacrante di tutto il senso, ma mette in luce che tale senso non può mai essere portato a senso comune. È impossibile intendere qualsiasi atto enunciativo allo stesso modo. Il Simbolico, infatti, conserva sempre qualcosa del buco, e se il sapere analitico punta a ricoprire questo buco per formare dei saggi detentori di un sapere universale, esso viene ridotto a sintomo (Sinthomodaquino): diviene cioè un sapere alienato agli altri saperi, soggetto allo stesso destino di insoddisfazione che vi è nel cercare di dire tutto.
Il movimento che in questi sei interventi ci viene proposto è invece quello di porre l’impossibilità del dire tutto (nominata anche come castrazione o impossibilità del rapporto sessuale) in posizione dominante, il che significa porre a fondamento quella specie di perdita che si produce necessariamente nella significanza, quel resto di Reale che la vita contiene in sé. Enunciare, dunque, comporta un consegnarsi all’interminabile, implica cioè la rinuncia di una verità come idolo, ossia statica, a fronte di una possibilità di una verità creativa.
Ecco perché la parola di Lacan non è diretta in prima persona ai suoi uditori ma esso parla ai muri della cappella di Sainte-Anne. Vederlo parlare ai muri attua una nuova esperienza di parola che non può lasciarci indifferenti, ciò che si indirizza ad essi infatti ha la proprietà di ripercuotersi per echeggiare. La parola che esce dalla bocca del maestro non è più parola diretta, univoca, plagiabile, ma arriva in modo distorto, con un effetto di risonanza, un’eco, un rimbalzo che genera un’inflessione in essa. Tale distorsione, tale eco, cambia la parola provocando afasie, incomprensioni che coincidono (cadono assieme) con il detto allargandolo, arricchendolo dell’ascolto.
Segue qui:
http://www.doppiozero.com/materiali/contemporanea/quid-est-veritas
IL ZALONE IN ME. Ho visto negli occhi la drammatica verità del film Quo Vado?, e non sono mai riuscito a ridere
di Umberto Silva, ilfoglio.it, 13 gennaio 2016
Migranti sì migranti no. Zalone sì Zalone no. Boh. Innanzitutto complimenti alla produzione e alla distribuzione per l’abile lancio, adoro i colpi di mano, i colpi grossi, di stato, di testa, di sole, di luna, di genio, i colpi proibiti, i colpi gobbi… il mio mito è quel François l’Olonnais che con un colpaccio saccheggiò Maracaibo. Si risolleverà il cinema italiano? Figurarsi, e chissenefrega. E ora Quo Vado? Diritto da Checco Zalone, alla sua faccia destinata a reggere un film dichiaratamente, volutamente, voluttuosamente, sotterraneamente piratesco, uno sgangherato vascello ove sventola Jolly Roger con il suo ghigno. Lo sguardo beffardo e implacabile di Zalone mi ricorda certi pirati della Tortuga dal riso dentato e dalle labbra senza misericordia. Esagero, esagero, ma chissà, forse un giorno quel che ora dipingo sarà a tutti visibile. E Zalone come naviga in questo bailamme? Benissimo, all’apparenza, ride e scherza; eppure, per quanto si dia da fare, mi sembra un po’ annoiato, butta lì perfidie senza gioia, sfottò a questo o a quello ma così, senza crederci, tanto per arrivare alla fine. La sua lama si è arrugginita? Tutt’altro, Zalone punta più in alto, il bottino che brama è ben più consistente.
Quo vadis? Guardatelo bene Zalone; il supremo Fantozzi è umano pur essendo feroce come ogni servo, colmo di pulsioni omicide, a caccia di frustrazioni che ne gonfiano l’odio; ma mentre Fantozzi paga duramente la propria cattiveria sul proprio corpo già in partenza disastrato, Zalone passa impassibile sopra ogni cosa, pronto a rettificare la mira senza fare una piega, un killer professionista. In apparenza. Fantozzi è un eroe gogoliano se non addirittura dostoievskiano, un uomo del sottosuolo colmo di rancore ma anche di desiderio, incessantemente umiliato della propria incapacità che maschera un’inusitata volontà di potenza con relativa impotenza. Zalone è al di là della lotta servo-padrone, la sua indifferenza è abissale, non mostra fede alcuna ma solo un’ostentata sicurezza. In apparenza. Ché le cose non sono come sembrano e neppure come sono: l’occhio dello spettatore attento ha seguito con benevola apprensione l’impercettibile tremore di Zalone che via via approssimandosi alla fine del film non riesce a celare un vistoso, toccante smarrimento: Quo Vado? Ci pensa tutto il tempo, e questa sua tormentata ricerca è il nocciolo duro del film, la sua gloria.
Segue qui:
http://www.ilfoglio.it/la-politica-sul-lettino/2016/01/13/il-zalone-in-me___1-vr-136946-rubriche_c196.htm
Quo vadis? Guardatelo bene Zalone; il supremo Fantozzi è umano pur essendo feroce come ogni servo, colmo di pulsioni omicide, a caccia di frustrazioni che ne gonfiano l’odio; ma mentre Fantozzi paga duramente la propria cattiveria sul proprio corpo già in partenza disastrato, Zalone passa impassibile sopra ogni cosa, pronto a rettificare la mira senza fare una piega, un killer professionista. In apparenza. Fantozzi è un eroe gogoliano se non addirittura dostoievskiano, un uomo del sottosuolo colmo di rancore ma anche di desiderio, incessantemente umiliato della propria incapacità che maschera un’inusitata volontà di potenza con relativa impotenza. Zalone è al di là della lotta servo-padrone, la sua indifferenza è abissale, non mostra fede alcuna ma solo un’ostentata sicurezza. In apparenza. Ché le cose non sono come sembrano e neppure come sono: l’occhio dello spettatore attento ha seguito con benevola apprensione l’impercettibile tremore di Zalone che via via approssimandosi alla fine del film non riesce a celare un vistoso, toccante smarrimento: Quo Vado? Ci pensa tutto il tempo, e questa sua tormentata ricerca è il nocciolo duro del film, la sua gloria.
Segue qui:
http://www.ilfoglio.it/la-politica-sul-lettino/2016/01/13/il-zalone-in-me___1-vr-136946-rubriche_c196.htm
“AMMAZZARE FREUD? UN GIOCO DA BAMBINI”. La coppia di teatro fuori dagli schemi si racconta: “I più piccoli riescono a vedere cose che gli adulti ignorano Il padre della psicoanalisi? Se l’è presa con gli inermi e ha fatto confusione…”
di Roberto Scafuri, ilgiornale.it, 18 gennaio 2016
Rezzamastrella, non facciamo i furbi. Uno è attore e performer, l’altra artista e scenografa. Assieme sarete pure la coppia più travolgente e fuori dagli schemi del teatro italiano, ma qui il personaggio da intervistare dev’essere uno solo.
«Uno siamo».
Allora vedo doppio.
«Se non ha bevuto, è il nostro lavoro che resta inscindibile. Quello conta».
In effetti l’attore vive di sdoppiamento.
«Il doppio è l’Io».
Vedendo i vostri spettacoli lo si capisce. Ma come funziona?
Mastrella: «C’è bisogno di tanto tempo solitario, devi stare solo ore e ore, devi andare a finire là dove c’è l’idea…».
Rezza: «… autosaccheggio completo di te stesso».
M: «Dal reale creo il virtuale o il contrario. Do questo spazio a lui, e lui là dentro crea per conto suo. Ogni tanto vado a vedere quel che fa per stupirmi, ma lo lascio libero di percepire quel che c’è. Di solito viene assistito da Massimo Camilli, che lavora con noi da anni. Solo in quest’ultima fase si lavora assieme, sui corpi».
Benvenuti nel laboratorio del teatro globale: la premiata ditta Rezzamastrella. Un uomo in uno spazio non suo, ma che diventa suo sotto i nostri occhi.
R: «Il nome lo voglio far brevettare. Ma non è che le opere di Flavia non vivano da sole, tanto che ha esposto anche a New York. Il suo è uno spazio autoreggente».
M: «Faccio queste opere per comunicare uno stato d’animo».
L’uno senza l’altro esisterebbe?
R: «Guai a pensare che non esisterebbe… Abbasserebbe la potenza devastante della nostra unione. Individualmente siamo potentissimi, poi se ci uniamo siamo irresistibili. A noi dovrebbero farci vincere i festival per manifesta superiorità».
Anche quello per la modestia.
R: «Per raggiungere certi livelli d’arte, l’egoismo da solo non basta. La pienezza dei Sé deve giungere all’egotismo, l’autosopravvalutazione dev’essere patologica. Per fare certe cose non puoi essere una brava persona».
Segue qui:
http://www.ilgiornale.it/news/ammazzare-freud-gioco-bambini-1214385.html
«Uno siamo».
Allora vedo doppio.
«Se non ha bevuto, è il nostro lavoro che resta inscindibile. Quello conta».
In effetti l’attore vive di sdoppiamento.
«Il doppio è l’Io».
Vedendo i vostri spettacoli lo si capisce. Ma come funziona?
Mastrella: «C’è bisogno di tanto tempo solitario, devi stare solo ore e ore, devi andare a finire là dove c’è l’idea…».
Rezza: «… autosaccheggio completo di te stesso».
M: «Dal reale creo il virtuale o il contrario. Do questo spazio a lui, e lui là dentro crea per conto suo. Ogni tanto vado a vedere quel che fa per stupirmi, ma lo lascio libero di percepire quel che c’è. Di solito viene assistito da Massimo Camilli, che lavora con noi da anni. Solo in quest’ultima fase si lavora assieme, sui corpi».
Benvenuti nel laboratorio del teatro globale: la premiata ditta Rezzamastrella. Un uomo in uno spazio non suo, ma che diventa suo sotto i nostri occhi.
R: «Il nome lo voglio far brevettare. Ma non è che le opere di Flavia non vivano da sole, tanto che ha esposto anche a New York. Il suo è uno spazio autoreggente».
M: «Faccio queste opere per comunicare uno stato d’animo».
L’uno senza l’altro esisterebbe?
R: «Guai a pensare che non esisterebbe… Abbasserebbe la potenza devastante della nostra unione. Individualmente siamo potentissimi, poi se ci uniamo siamo irresistibili. A noi dovrebbero farci vincere i festival per manifesta superiorità».
Anche quello per la modestia.
R: «Per raggiungere certi livelli d’arte, l’egoismo da solo non basta. La pienezza dei Sé deve giungere all’egotismo, l’autosopravvalutazione dev’essere patologica. Per fare certe cose non puoi essere una brava persona».
Segue qui:
http://www.ilgiornale.it/news/ammazzare-freud-gioco-bambini-1214385.html
IL LATO OSCURO DELLA PSICOANALISI. Cosa succede se un rapporto terapeutico con uno psicoanalista deraglia?
di Maurizio Montanari, lettera43.it, 18 gennaio 2016
Il titolo di questo blog, non è per caso. La Stanza 101 è il luogo delle paure, dei timori, delle peggiori scene dalle quali tutti fuggiamo, che si ripresentano. Io l’ho conosciuta questa stanza. Io ho subito le conseguenze nefaste e durature di un rapporto ‘terapeutico’ deragliato, diventato malsano e psicotizzante. Qualcosa che ha lasciato in me tracce indelebili, che non possono esigere alcuna ‘giusitizia’. Il solo risarcimento dell’animo, è stato quello di scrivere, scrivere e ancora scrivere, alla ricerca di tutti quelli che, in un modo o nell’altro, sono entrati nella stanza di un terapeuta per trarne giovamento, e ne sono usciti danneggiati, colpiti, a volte distrutti. Tante testimonianze come la mia, tanti racconti ho raccolto, destinati altrimenti a perdersi come lacrime nella pioggia. Per questo, di volta in volta, scriverò su questo tema.
Cominciamo così.
Ne ho davvero sentite tante, troppe, di storie di analisi finite male.
Non solo da parte dei pazienti, ma anche raccontate nei consessi seminariali, nei convegni, negli incontri con i colleghi.
Ho sempre rifuggito la vulgata capace di alimentare luoghi comuni, ma anche so che occuparsi di psicoanalisi applicata significa ascoltare quello che proviene dal corpo sociale.
Per questo motivo ho ripreso un vecchio articolo, e dedicherò la parte di questa rubrica a raccogliere e dibattere , con chi lo vorrà fare, di esperienze analitiche finite male, deragliate o sfociate in un danno per il paziente.
Apro dunque uno spazio nel quale descriverò, con le normali cautele e modifiche di dati che la privacy impone, frammenti di vite raccontate che sono passate nel mio studio,
e che hanno incontrato la malapratica analitica. Pagandone le conseguenze.
E apro questo spazio a chi, assumendosi le proprie responsabilità, voglia dire la sua. L’intervista ad Armando Verdiglione pubblicata anni fa su Repubblica , e l’ultima polemica sollevata da Elisabeth Roudinesco su ‘Liberation’ del primo ottobre 2011, hanno l’indubbio merito di riprendere alcune questioni che da sempre interessano il funzionamento della psicoanalisi e le azioni degli psicoanalisiti. Al di là delle sterili polemiche, è assai utile alimentare un serio dibattito su un tema anch’esso importante ed emergente che va al di là del caso Verdiglione: perché sempre più spesso accade che gli psicoanalisti siano messi sul tavolo degli imputati? Chi ha a cuore la psicoanalisi, come me, come strumento clinico e di analisi del legame sociale, si deve interrogare.
Cominciamo così.
Ne ho davvero sentite tante, troppe, di storie di analisi finite male.
Non solo da parte dei pazienti, ma anche raccontate nei consessi seminariali, nei convegni, negli incontri con i colleghi.
Ho sempre rifuggito la vulgata capace di alimentare luoghi comuni, ma anche so che occuparsi di psicoanalisi applicata significa ascoltare quello che proviene dal corpo sociale.
Per questo motivo ho ripreso un vecchio articolo, e dedicherò la parte di questa rubrica a raccogliere e dibattere , con chi lo vorrà fare, di esperienze analitiche finite male, deragliate o sfociate in un danno per il paziente.
Apro dunque uno spazio nel quale descriverò, con le normali cautele e modifiche di dati che la privacy impone, frammenti di vite raccontate che sono passate nel mio studio,
e che hanno incontrato la malapratica analitica. Pagandone le conseguenze.
E apro questo spazio a chi, assumendosi le proprie responsabilità, voglia dire la sua. L’intervista ad Armando Verdiglione pubblicata anni fa su Repubblica , e l’ultima polemica sollevata da Elisabeth Roudinesco su ‘Liberation’ del primo ottobre 2011, hanno l’indubbio merito di riprendere alcune questioni che da sempre interessano il funzionamento della psicoanalisi e le azioni degli psicoanalisiti. Al di là delle sterili polemiche, è assai utile alimentare un serio dibattito su un tema anch’esso importante ed emergente che va al di là del caso Verdiglione: perché sempre più spesso accade che gli psicoanalisti siano messi sul tavolo degli imputati? Chi ha a cuore la psicoanalisi, come me, come strumento clinico e di analisi del legame sociale, si deve interrogare.
JUNG-PAULI, DIALOGO SUGLI ARCHETIPI
di Bianca Garavelli, avvenire.it, 19 gennaio 2016
Il rapporto fra analista e paziente può diventare amicizia, basata su di una stima profonda, e duratura. Se poi i due sono il fondatore della psicologia analitica Carl Gustav Jung e il premio Nobel per la fisica Wolfgang Pauli, allora da questa amicizia può nascere uno scambio di riflessioni tale da lasciare una traccia nella storia di scienza e psicanalisi. Abbiamo la fortuna di poter assistere, a distanza di decenni, alle fasi di questa relazione fra due giganti del pensiero, grazie a un carteggio ampio e sorprendente, che ha mantenuto la sua freschezza intatta. Pauli e Jung lo avviarono nel 1932, quando il fisico si era rivolto all’ex allievo di Freud per mettere fine ad alcuni disordini esistenziali che cominciavano a preoccuparlo seriamente.
A sua detta, Pauli stava vivendo una serie di gravi fallimenti personali, soprattutto in campo sentimentale e in generale con l’altro sesso, mentre contemporaneamente otteneva successi planetari in campo lavorativo, che lo avrebbero condotto al Nobel per la formulazione del “principio di esclusione”, uno dei capisaldi della fisica quantistica. Dal punto di vista di Jung, quel professore universitario in crisi era un caso molto interessante, singolarmente legato, attraverso i suoi sogni che riusciva a ricordare nei dettagli, al mondo delle immagini arcaiche presenti nell’inconscio collettivo umano, quelli che Jung stesso definiva “archetipi”.
Segue qui:
http://www.avvenire.it/Cultura/Pagine/ARCHETIPI-.aspx
A sua detta, Pauli stava vivendo una serie di gravi fallimenti personali, soprattutto in campo sentimentale e in generale con l’altro sesso, mentre contemporaneamente otteneva successi planetari in campo lavorativo, che lo avrebbero condotto al Nobel per la formulazione del “principio di esclusione”, uno dei capisaldi della fisica quantistica. Dal punto di vista di Jung, quel professore universitario in crisi era un caso molto interessante, singolarmente legato, attraverso i suoi sogni che riusciva a ricordare nei dettagli, al mondo delle immagini arcaiche presenti nell’inconscio collettivo umano, quelli che Jung stesso definiva “archetipi”.
Segue qui:
http://www.avvenire.it/Cultura/Pagine/ARCHETIPI-.aspx
CARA FRANCESCA, NON SEI SOLA CON I BULLI
di Luigi Ballerini, avvenire.it, 20 gennaio 2016
La ragazza di Pordenone e il futuro che s’apre Cara Francesca, scusa se sento il bisogno di darti un nome, ma si scrive sempre a qualcuno e vorrei scrivere proprio a te e non alla-ragazza-di-Pordenone-che-è-stata-sui-giornali. Ci è giunta notizia che le conseguenze del tuo gesto non sono irreparabili, e ne sono, anzi ne siamo tutti sollevati. Questa buona notizia apre un nuovo capitolo, per te. I grandi faticano a capire cosa è accaduto. I grandi faticano ad accettare che alla tua giovane età ti sia venuta in mente una cosa tanto grossa. Forse ti vediamo ancora piccola, forse crediamo che essere giovani significhi automaticamente essere contenti perché essere contenti per noi a volte coincide con essere s-pensierati, senza pensieri. Invece non è affatto così. A te è proprio venuta in mente una cosa tanto grossa, un’idea che ti è sembrata una buona idea perché aveva il sapore di una soluzione. E qui è stata la svista, nel pensare che fosse una soluzione proprio l’atto che avrebbe cancellato ogni soluzione possibile, che non avrebbe più reso praticabile alcuna via.
Segue qui:
http://www.avvenire.it/Commenti/Pagine/CARA-FRANCESCA-NON-SEI-SOLA-COI-BULLI-.aspx
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http://www.avvenire.it/Commenti/Pagine/CARA-FRANCESCA-NON-SEI-SOLA-COI-BULLI-.aspx
FIGLI E FIGLIASTRI. Grillo è il padre di un esercito di antipatici. Il padre di Maria Elena, invece, ha generato bellezza
di Umberto Silva, ilfoglio.it, 20 gennaio 2016
Se Fruttero e Lucentini scrissero una memorabile “Prevalenza del cretino”, i grillini stanno coniando una altrettanto memorabile “Prevalenza dell’antipatico”. E dire che il loro capo è un comico, uno che sbeffeggiava luoghi comuni e idiozie istituzionali proponendone di ancor più demenziali ma divertenti! Lo si pensava uno spassoso burlone e invece davvero credeva alle stronzate che andava dicendo, al punto di metterle in atto. La satira è sfottere l’esistente in nome del surreale, e finisce lì; pretendere di applicare il surreale, di sostituirlo al reale, è… Ecco, Grillo è … cretini noi a non capirlo. Attuando il delirio del famoso presidente Schreber che pensava di rigenerare il mondo, Grillo ha messo in piedi una miriade di figlioli che fanno paura a vederli tanto sono figlioli, e per passare il tempo si diverte a mangiarne uno dopo l’altro, al pari di Cronos e di altri cannibalici genitori.
Che doveva fare Elena Maria? Dire che fin da piccola papà le rubava i soldini dal salvadanaio? Sì, questo e altro doveva, dovrebbe, fare la Boschi, rivelando così un empito patriottico assoluto, sacrificando il padre alla nazione con uno slancio alla Bruto tale da far restare di stucco gli stessi grillini. Ma che padre è Grillo? Il padre di un esercito di antipatici. Detesto la corruzione, ma il suo alter ego, la correzione, è ancora più orrenda, perfino i cinesi ne sanno qualcosa; anche quando sembra assolutamente necessaria mi disgusta. Che la Boschi sia costretta ad andare a gridare ai quattro venti che le colpe dei padri – sempre che colpe siano – non devono ricadere sui figli, è una cosa talmente ovvia da fare paura. Occorre ancora ricordarlo nell’Italia del 2016? Pare di sì, ma l’effetto non è quel che sarebbe lecito sperare. Tutti sghignazzano e dicono: “Guardala, guarda la figlia che adesso scarica il padre, in combutta con lui ora come prima”. Basta leggere il Malleus Maleficarum di Krämer e Spengler per vedere come gli inquisitori non danno scampo alcuno; la colpa del padre della Boschi è una sola: avere fatto una figlia così vispa, intelligente e carica di bella sessualità tanto da suscitare invidia, e questo non viene perdonato né a lui né a lei. Il signor Boschi avrebbe dovuto mettere al mondo una grillina pronta a sputargli in faccia e altre amenità del genere.
Segue qui:
http://www.ilfoglio.it/la-politica-sul-lettino/2016/01/20/figli-e-figliastri___1-vr-137218-rubriche_c718.htm
Che doveva fare Elena Maria? Dire che fin da piccola papà le rubava i soldini dal salvadanaio? Sì, questo e altro doveva, dovrebbe, fare la Boschi, rivelando così un empito patriottico assoluto, sacrificando il padre alla nazione con uno slancio alla Bruto tale da far restare di stucco gli stessi grillini. Ma che padre è Grillo? Il padre di un esercito di antipatici. Detesto la corruzione, ma il suo alter ego, la correzione, è ancora più orrenda, perfino i cinesi ne sanno qualcosa; anche quando sembra assolutamente necessaria mi disgusta. Che la Boschi sia costretta ad andare a gridare ai quattro venti che le colpe dei padri – sempre che colpe siano – non devono ricadere sui figli, è una cosa talmente ovvia da fare paura. Occorre ancora ricordarlo nell’Italia del 2016? Pare di sì, ma l’effetto non è quel che sarebbe lecito sperare. Tutti sghignazzano e dicono: “Guardala, guarda la figlia che adesso scarica il padre, in combutta con lui ora come prima”. Basta leggere il Malleus Maleficarum di Krämer e Spengler per vedere come gli inquisitori non danno scampo alcuno; la colpa del padre della Boschi è una sola: avere fatto una figlia così vispa, intelligente e carica di bella sessualità tanto da suscitare invidia, e questo non viene perdonato né a lui né a lei. Il signor Boschi avrebbe dovuto mettere al mondo una grillina pronta a sputargli in faccia e altre amenità del genere.
Segue qui:
http://www.ilfoglio.it/la-politica-sul-lettino/2016/01/20/figli-e-figliastri___1-vr-137218-rubriche_c718.htm
I più recenti pezzi apparsi sui quotidiani di Massimo Recalcati e Sarantis Thanopulos sono disponibili su questo sito rispettivamente ai link:
http://www.psychiatryonline.it/rubrica/4545
http://www.psychiatryonline.it/rubrica/4788
Da segnalare anche la rubrica
"Mente ad arte, percorsi artistici di psicopatologia nel cinema ed oltre, di Matteo Balestrieri al link
http://www.psychiatryonline.it/rubrica/4682
http://www.psychiatryonline.it/rubrica/4788
Da segnalare anche la rubrica
"Mente ad arte, percorsi artistici di psicopatologia nel cinema ed oltre, di Matteo Balestrieri al link
http://www.psychiatryonline.it/rubrica/4682
(Fonte dei pezzi della rubrica: http://rassegnaflp.wordpress.com)
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