articolo pubblicato su Gli Argonauti, 144 marzo 2015 pag. 75-88. Carocci editore, Roma.
Come ben sappiamo, Freud non ignorava il fatto che i sentimenti sperimentati dal paziente mediante la cura analitica potessero a loro volta suscitarne altrettanti nell’analista[1]. Nonostante la prima volta che Freud usò il concetto di “controtransfert” in uno scritto scientifico fu nel lavoro letto il 30 marzo di 1910 al Congresso di Norimberga intitolato Le prospettive future della terapia psicoanalitica[2]. Una profonda lettura di questo saggio consente di pensare, in accordo con Etchegoyen (1986), che Freud supponesse “che la conoscenza del controtransfert fosse collegata al futuro della psicoanalisi”. Inoltre Freud introdusse in esso cambi teorici e metodologici completamente rivoluzionari. Oltre a cambiare il campo di osservazione nell’analista, che si trasforma da mero osservatore a partecipante attivo, la ricerca psicoanalitica perde il suo carattere di obiettività e le antiche osservazioni diventano esperienze. Per la prima volta Freud segnala il carattere intrusivo di certi fenomeni psichici che hanno la propietà di “impiantarsi” o “insorgere” nell’inconscio dell’analista.
Freud aggiunge che bisogna esigere all’analista, come regola generale, la conoscenza, il dominio e il riconoscimento del proprio controtransfert e il saperlo “padroneggiare” (Bewältigung) come una condizione indispensabile per essere analisti[3]. Freud accenna, cioè, alla necessità di dominare il controtransfert nel senso di poterlo elaborare e non semplicemente superare (overcome), come appare nella traduzione inglese di Strachey.
Per quanto si sia sempre sostenuto che nei lavori successivi, specialmente in Consigli al medico (1912), Freud attribuisse al controtransfert un carattere peggiorativo, considerandolo un ostacolo che interferisce nel lavoro analitico per il coinvolgimento che desta e come un pericoloso inconveniente che è necessario controllare attraverso l’autoanalisi, ritengo che le ragioni che spinsero Freud a frenare, e in un certo modo a trattenere l’entusiasmo iniziale con il quale aveva affrontato l’argomento, resiedano soprattutto nel timore che un tema così complesso e del quale non si aveva ancora una sufficiente esperienza clinica alterasse e mettesse in dubbio il modello terapeutico difeso dalla psicoanalisi[4].
Otto anni dopo la pubblicazione del saggio di Freud, Ferenczi ritornò sull’argomento in un saggio pieno di intuiti clinici intitolato La tecnica psicoanalitica (1919a).
Uno dei capitoli è dedicato per l’appunto alla “padronanza del controtransfert” dove viene adottata la stessa parola utilizzata da Freud nello scritto del 1910, a cui prima ho fatto riferimento. Per Ferenczi la terapia psicoanalitica richiederebbe un “duplice lavoro”: da una parte l’analista deve osservare il paziente, ascoltare il suo discorso e, a partire delle sue parole, ricostruirne l’inconscio, ma dall’altra deve controllare costantemente il proprio atteggiamento nei confronti del malato e se è necessario rettificarlo. Padroneggiare il controtransfert diventa quindi un requisito indispensabile per realizzare questo lavoro. Se Freud in quegli anni, per conseguire tale requisito, ricorreva all’autoanalisi (1910), Ferenczi considerava già necessario che l’analista fosse stato analizzato. L’insistenza di Ferenczi sull’analisi introduceva l’idea che nemmeno il più esperto degli analisti è esente da commettere gravi errori se non presta attenzione e non elabora il proprio controtransfert. Quest’idea di Ferenczi anticipa, secondo la mia opinione, il concetto di “nevrosi di controtransfert” coniato da Racker (1968), che mette in luce come la parte nevrotica del controtransfert dell’analista disturbi il lavoro analitico.
Il processo della “padronanza del controtransfert” viene descritto da Ferenczi attraverso tre fasi ben differenziate.
“[Nella prima fase] l’analista è molto lontano dal considerare il controtransfert e ancor più dal dominarlo. Egli soggiace a tutte le emozioni che il rapporto medico-paziente può generare, si lascia commuovere dalle tristi esperienze e persino dalle fantasie del paziente, si indigna nei confronti di quanti gli vogliono o gli fanno del male” (1919a, p. 314).
In queste circostanze le possibiltà di portare a termine un processo analitico sono praticamente nulle.
La seconda fase viene chiamata da Ferenczi “resistenza al controtransfert”, si tratta di una reazione di segno opposto alla situazione precedente che può ugualmente condurre al fallimento dell’analisi.
“Quando lo psicoanalista ha faticosamente imparato a riconoscere i sintomi del controtransfert e riesce a controllare nei propri atti e discorsi nonché nei propri sentimenti tutto ciò che potrebbe dar adito a complicazioni, lo minaccia il pericolo di cadere nell’estremo opposto e di divenire troppo brusco e scostante nei confronti del paziente, così da intralciare o addirittura impedire la formazione del transfert, premessa di ogni successo terapeutico” (1919a, p. 315).
Questa stessa idea di Ferenczi verrà ripresa, alcuni anni più tardi, da Racker nel suo lavoro del 1968 Transfert e Controtransfert, in cui si riferisce alle conseguenze della controresistenza dell’analista, diretta – secondo l’autore – a evitare la regressione del paziente e a convertire l’analisi in un processo monotono, carico di interpretazioni reiterate incapaci di produrre la benché minima trasformazione nel mondo interno del paziente. In questo lavoro, inoltre, il pensiero di Racker coincide in modo quasi letterale con quello di Ferenczi quando pone in discussione l’“oggettività” dell’analista, che per l’autore naviga tra due poli potenzialmente nevrotici, l’annegare del controtransfert o il reprimerlo ossessivamente tentando di raggiungere il mito dell’analista “libero da ansia e da rabbia”. Per Racker l’unica possibilità che l’analista ha di essere “oggettivo” con il suo paziente è di trasformare se stesso in oggetto di auto-osservazione e analisi.
La terza fase descritta da Ferenczi corrisponde a quella della padronanza del controtransfert propriamente detta, che si realizza con il superamento delle fasi precedenti. È questo il momento in cui l’analista raggiunge lo stato mentale richiesto per “lasciarsi andare” durante il trattamento, così come esige la cura psicoanalitica. L’aspetto realmente innovativo di questa posizione teorica risiede nel fatto che per la prima volta il controtransfert non viene considerato come un ostacolo o un inconveniente pericoloso, ma come uno strumento imprescindibile ed efficace.
Nello scritto di Ferenczi troviamo altresì moltissimi riferimenti a problemi tecnici con cui tutti conviviamo abitualmente nel nostro lavoro analitico: i silenzi, le resistenze, la sonnolenza, gli acting out, non solo del paziente ma anche dell’analista. Egli raccomanda molta prudenza specialmente nei confronti della frequenza tendenza a lasciarsi coinvolgere nella vita reale dei pazienti attraverso consigli o esortazioni molto dirette che non tengono conto del substrato transferale che accompagna i loro problemi “reali”. Ferenczi suggerisce a questo proposito una felice metafora che evoca l’inconfondibile ambiente che egli creava: la situazione dell’analista ricorda per molti aspetti quella dell’ostetrico, che deve agire, per quanto possibile, limitandosi a essere uno spettatore di un processo naturale, ma che nei momenti critici porrà mano al forcipe per facilitare una nascita che non procede spontaneamente.
Ma continuiamo con lo sviluppo degli intuiti teorici e clinici di Ferenczi. Successivamente alla formulazione della seconda topica e all’introduzione del concetto di “pulsione di morte” Freud non modificò soltanto il suo modello di apparato psichico. I nuovi concetti di narcisimo, masochismo e pulsioni distruttive, così come quello dello sviluppo dell’Io attraverso i processi di identificazione, determinarono una concezione molto più complessa del transfert positivo e negativo. Senza dubbio, una delle ragioni che spinsero Freud a formulare una nuova metapsicologia risiede nel suo lavoro clinico, sopratutto di fronte alla reazione terapeutica negativa e alla nuova dimensione che acquisiva il concetto di ripetizione che non solo si limitava ad essere un meccanismo di resistenza dinanzi al recupero del ricordo, ma che si costituiva in un materiale analitico di carattere analogo a quello costituito dai sogni, gli acting out, i lapsus o le libere associazioni in generale.
L’insistenza di Freud nel voler approffondire la relazione tra la tecnica e la teoria psicoanalitica portò Ferenczi e Rank a pubblicare insieme nel 1924 uno dei libri più brillanti ed audaci di tutta la loro produzione, e che viene considerato da numerosi autori il punto di partenza di molte attuali concezioni psicoanalitiche e che intitolarono Prospettive di sviluppo della psicoanalisi.
Gli autori espongono una critica e offrono una riflessione tecnica e teorica sulla modalità di conduzione della cura analitica. Fino a quel momento l’obiettivo principale dell’analisi consisteva nel “ricordare”, al punto che gli atti ripetitivi venivano considerati come ostacoli che scaturivano dalla resistenza del paziente e che l’analista doveva neutralizzare[5]. In questo scritto Ferenczi ritiene, al contrario, che l’oggetto essenziale dell’elaborazione analitica, e pertanto dell’interpretazione dell’analista, sia la coazione a ripetere le varie manifestazioni del transfert, che devono venir considerate come un materiale specificamente inconscio. La fondamentale importanza che Ferenczi accorda all’interpretazione transferale e al processo analitico, a scapito dell’individuazione intellettualizzata delle fantasie e dei contenuti inconsci, nonché delle rappresentazioni, implica sia una parallela modificazione del controtransfert, sia un ulteriore viraggio, essenziale nella concezione stessa dell’analisi. Ferenczi, tra le altre cose, fa notare, ad esempio, come molte volte quello che si mette realmente in gioco sia lo stesso narcisimo dell’analista (“controtransfert narcisistico”), che corre il rischio di influenzare i suoi pazienti affinché gli portino il materiale che risulta maggiormente gradito. I pazienti tenteranno di evitare i sentimenti ostili, rafforzando il loro senso di colpa inconscio e impedendo il progresso della cura. A partire da quest’idea, Ferenczi sviluppa pienamente la sua concezione dell’interazione transfert-controtransfert intesa non tanto come strumento terapeutico ma come nucleo centrale del lavoro analitico.
La ferma convinzione di Ferenczi nel considerare che quanto emerge nel “qui” e “ora” della situazione analitica derivi dall’incontro tra il transfert del paziente e il controtransfert dell’analista, apre le porte a un’esplorazione senza limiti degli strati più profondi della vita psichica, giustifica l’esigenza di favorire la regressione del paziente fino ai livelli necessari e conferisce al controtransfert il valore di strumento indispensabile per riconoscere e rilevare nel transfert del paziente gli aspetti emergenti e significativi[6].
All’inizio del 1928, Ferenczi scrisse L’elasticità della tecnica psicoanalitica. In poche pagine fornisce un gran numero di osservazioni cliniche e di consigli tecnici che si possono riassumere nella necessità che l’analista raggiunga l’Einfühlung (l’empatia, la capacità di “sentir con” e di immedesimarsi con il paziente). Non risulta difficile accostare il concetto di Einfühlung di Ferenczi con quello di empathy introdotto da Kohut nella sua “analisi del Sè” (1971), con l’“alleanza terapeutica” descritta da Zetzel. Inoltre, è interessante segnalare che alcune delle idee di Ferenczi in questo testo sono il preludio dell’elaborazione che sviluppò Racker vent’anni più tardi con i concetti di controtransfert concordante e complementare, e degli intuiti clinici di P. Heimann che, nel suo famoso lavoro del 1950, sostiene che il controtransfert è una creazione del paziente e corrisponde a una parte della sua personalità e, in uno dei suoi ultimi lavori (1979), segnala il bisogno che ogni paziente ha di fare l’esperienza di “sentire” che il suo analista si sintonizza con lui.
In definitiva, Ferenczi intraprende una riflessione profonda sull’importanza del controtransfert dell’analista nella cura analitica e affronta di conseguenza il problema dell’analisi dell’analista, che considerava la seconda regola fondamentale. Anche in questo saggio egli difende concezioni di una sorprendente modernità auspicando l’idea di un’analisi didattica come analisi terapeutica. Un’analisi che in nessun caso dovrebbe esssere confusa con un processo di apprendistato intellettuale o teorico, ma che a maggior ragione dovrebbe approffondirsi e prolungarsi più dell’analisi di qualsiasi altro paziente, fino a permettere al futuro analista di entrare in contatto con gli aspeti più reconditi e profondi della sua psicopatologia. La sua ferma convinzione che il miglior analista è un paziente ben analizzato si va trasformando, pertanto, in un ideale di cui è possibile cogliere i riflessi nella sua produzione scientifica successiva.
A poco a poco, Ferenczi comincia a introdurre alcune modificazioni tecniche. In primis propone come obiettivo terapeutico la sostituzione di un Super-Io genitoriale rigido con un Super-Io analitico più flessibile. Poi evidenzia la necessità di separarsi da un atteggiamento onnisciente a beneficio di uno più accogliente e intuitivo. Uno dei punti sui quali Ferenczi (1927b) insiste con maggior ostinazione riguarda la relatività del sapere dell’analista, la necessità di poter tollerare controtransferalmente l’angoscia di non sapere anche l’importanza di sapere di non sapere. Non si tratta solo di tutte, quanto piuttosto di evidenziare che “[…] niente è più dannoso all’aaffermare che non esiste una tecnica psicoanalitica definita una volta per nalisi che l’intervento cattedratico o anche soltanto autoritario del medico. Ogni nostra interpretazione deve avere carattere di proposta piuttosto che di affermazione, e questo non solo allo scopo di non irritare il paziente, ma proprio perché noi ci possiamo effettivamente sbagliare […]”.
Benché Ferenczi (1924) avesse già indicato anni addietro, in un lavoro scritto a quattro mani con Rank, i pericoli derivanti dall’eccesso di sapere dell’analista, mettendolo in relazione con il controtransfert narcisistico, è nel lavoro sull’Elasticità che Ferenczi introduce l’importanza dell’umiltà come fattore tecnico essenziale e come fattore etico dello psicoanalista. Inizia a riflettere sulla pericolosità di alcune abitudini tecniche che possono riprodurre, a suo avviso, la situazione traumatica infantile del paziente; riformula, quindi, il concetto d’interpretazione in un modo che rinnega l’idea dell’analista onniscente. Propone in definitiva un ascolto delle autorappresentazioni del paziente che, benché inconsce, sono comunque presenti nel materiale che porta in seduta. L’analista deve abbandonare ogni tipo di atteggiamento superegoico e ascoltare con umiltà il paziente. Bisogna, in altre parole, “sentire con lui” in modo empatico i movimenti affettivi più profondi che esprime.
Pensiamo solo, ad esempio, come questa idea sia stata ripresa da alcuni autori psicoanalitici successivi. In Gioco e realtà (1971), Winnicott segnala come l’analista debba cercare di nascondere il suo sapere e soprattutto evitare di ostentarlo. Solo nella misura in cui l’analista si dimostra umile potrà aiutare il paziente a far emergere il proprio sapere. “La creatività del paziente – afferma Winnicott – può essere in realtà facilmente rubata dal terapeuta che ne sa troppo” (p. 107). Questa impostazione teorica equivale a dire che l’eccesso di sapere dell’analista causa nel paziente un effetto traumatico, nella misura in cui ostacola la sua capacità di rappresentare e simbolizzare i processi mentali in maniera autonoma.
D’altra parte, prendendo in considerazione anche riferimenti teorici molto lontani, come pure la tanto nota esortazione lacaniana di “lasciare il sapere in secondo piano” o l’idea dell’“analista come luogo del supposto sapere”, Viderman in Construction de l’espace psychanalytique (1974) propone una riflessione a favore di una concezione relativista della verità alla quale la psicoanalisi dovrebbe rifarsi, proteggendosi in tale modo da ogni dogmatica deriva teorica.
Ancora più incisiva, se la si accetta, è la tesi sostenuta da Spence (1982) intorno alla verità narrativa. Questo autore, convinto dell’insuccesso del modello archeologico di Freud, difende l’idea, in fondo un po’ nichilista, di una interpretazione interminabile diretta essenzialmente a produrre un qualcosa. Non si tratta di sapere se è vera o falsa, ciò che conta sono i suoi effetti. La verità dell’interpretazione si riferisce più al presente e al futuro che al passato.
Queste idee erano presenti, o per lo meno erano abbozzate, nelle radicali teorizzazioni di Ferenczi sull’umiltà dell’analista che, diversamente da Freud, lo portavano a credere ai suoi pazienti, ai suoi “nevrotici”, e a confidare nella loro verità sino alle sue estreme conseguenze. Però, a che cosa si riferiva in ultima analisi Ferenczi quando parlava di umiltà dell’analista? Quello che sembra certo è che la sua concezione trascende l’accezione religiosa del termine. Ferenczi propone la necessità di accettare i limiti del nostro sapere, che deve differenziarsi radicalmente dalla “abituale superbia che il medico onniscente e onnipotente utiliza” con i suoi pazienti.
L’umiltà dell’analista, pertanto, si basa fondamentalmente sul credere ai pazienti: anche questa idea del credere ai pazienti non va fraintesa: rimanda a un riconoscere e comprendere empaticamente i loro affetti, le loro paure, le loro sofferenze, i loro deliri. Per Ferenczi è importante che l’analista mantenga questo atteggiamento fino alle sue estreme conseguenze; deve, cioè, essere disposto a sacrificare le proprie teorie e le proprie convinzioni interpretative quando queste ultime non funzionano. È in questo modo che Ferenczi cerca di contrastare una volta di più quello che aveva chiamato il fanatismo interpretativo.
Umiltà significa, inoltre, lasciare l’iniziativa al paziente e sapersi mettere da parte, accettando di mantenere la disposizione di chi è disposto a lasciarsi “costruire”, “distruggere” e “annullare” dal paziente. Se l’analista rinuncia a pretendere di conoscere la realtà e si interessa piuttosto all’irrealtà della realtà psichica, potrà immergersi nelle emozioni e fantasie del paziente. Acquisterà così tatto, capacità empatiche, capacità di sentire con (Einfühlung), di mettersi nei panni di un altro[7] o come suggerisce Speziale-Bagliacca (1997), più ferencziano alle volte di Ferenczi, la capacità d’un atteggiamento ricettivo-attivo consistente in lasciare che l’altro entri dentro e parli.
Certamente, nel processo analitico, la verità è la conseguenza di una “cooperazione testuale” e, in particolare, di un interminabile processo interpretativo nel quale si succedono messaggi e interpretazioni dell’analista e del paziente. L’interpretazione, secondo Ferenczi, è un processo intersoggettivo: tanto l’analista quanto il paziente interagiscono reciprocamente senza soluzione di continuità e il significato trasferale viene creato attraverso queste interazioni.
In Il problema del termine dell’analisi (1927b) risulta particolare la sua posizione critica verso quegli analisti che spingono il paziente ad abbandonare l’analisi, ancor prima che questi abbia potuto considerare se vi siano stati cambiamenti psichici consistenti nella sua vita e nel suo comportamento. L’analisi deve adattarsi ai bisogni del paziente e deve “finire per esaurimento”.
Con un linguaggio differente, Ferenczi anticipa alcune delle ipotesi di Bion sottolineando come il fallimento terapeutico di molte analisi non è dovuto alle inaccessibili resistenze né all’impenetrabile narcisismo del paziente quanto piuttosto alle difficoltà dell’analista, in particolare alla sua insensibilità e ai suoi errori di tatto e di empatia. Cioè, Ferenczi risaltava anche l’importanza della persona dell’analista e specialmente della sua propria analisi come uno strumento essenziale del lavoro analitico ed enfatizzava implicitamente le basi di una teoria del controtransfert come disposizione materna.
Su questa stessa linea teorica si collocherà, molti anni dopo, anche il contributo di Winnicott che non solo equipara la situazione analitica alla relazione madre-bambino e alle sue continue interazioni, ma descrive la “preoccupazione materna primaria” che permette alla madre di adattarsi attivamente ai bisogni del proprio figlio in modo naturale e spontaneo. Analogamente a quanto esposto da Ferenczi, Winnicott sosteneva che tra l’analista e il paziente si configura una relazione intersoggettiva con caratteristiche simili, che consente all’analista di empatizzare con i bisogni primari del suo paziente. Da questa concezione deriveranno successivamente concetti come quello di “rêverie” di Bion, di “percezioni inconsce dell’analista” di Heimann o quelli più recenti di “controidentificazione proiettiva” di Grinberg e di analista come “oggetto trasformativo” di Bollas.
Per ultimo, nel Diario Clinico, ultimo lascito della sua produzione teorico-clinica, Ferenczi raccoglie una serie di sottili intuizioni e contributi inestimabili per la tecnica psicoanalitica, specialmente quelli che riguardano il controtrasnfert.
Fin dalla prima pagina, che porta il titolo L’insensibilità dell’analista, si profila per così dire il filo conduttore di tutte le sue annotazioni: il ”controtransfert reale” dell’analista. Il controtransfert non solo non è un ostacolo, ma si trasforma addirittura in uno strumento indispensabile per l’analista.
“Si potrebbe quasi dire che tanto più numerose sono le debolezze dell’analista che lo portano verso errori e insuccessi più o meno grandi, […] tanto maggiori sono le possibilità che l’analisi abbia delle basi profonde e reali” (19.1.1932).
Ferenczi, dopo aver segnalato come si sviluppa nel paziente, grazie all’analisi, una “sensibilità raffinata” che lo porterebbe a captare persino le più impercettibili sfumature dell’atteggiamento dell’analista e dopo aver sottolineato che tale fenomeno non è dovuto all’intensità delle proiezioni del paziente, prova a dimostrare che il transfert non è il risultato di un fatto spontaneo, ma è indotto proprio dall’analista e di conseguenza dalla stessa tecnica psicoanalitica. Muove inoltre una critica, che potremmo continuare a sottoscrivere, a una determinata maniera di intendere il lavoro analitico:
“L’interpretazione […] di ogni dettaglio nel senso di un affetto personale verso l’analista può dar luogo a una specie di atmosfera paranoide che […] [si] potrebbe definire come delirio narcisistico […] dell’analista. È possibile che si sia propensi, decisamente in modo troppo affrettato, a supporre nel paziente sentimenti di amore e di odio nei nostri confronti” (3.5.1932).
In questo stesso senso, Paula Heimann lanciava un monito, nel suo celebre lavoro sul controtransfert del 1949, nei confronti degli analisti che, poco attenti ai propri conflitti psichici e alla dinamica del proprio mondo interno, corrono il rischio di imputare ai loro pazienti ciò che in realtà pertiene di fatto a loro stessi, precisando che questo pericolo poteva essere neutralizzato solo se “l’analista ha elaborato nella sua analisi personale i propri conflitti infantili e le proprie angosce (paranoiche e depressive), in modo da poter entrare […] in contatto con il proprio inconscio” (p. 100).
Ferenczi, però, va ancora oltre. Procedendo con l’utilizzare il controtransfert come base per le sue interpretazioni, incomincia a vagliare l’ipotesi che l’analista non solo non giunga a trasformarsi per il paziente in un padre o in una madre buoni, ma al contrario diventa un protagonista attivo che ripete la situazione traumatica di cui il paziente è stato vittima durante l’infanzia. L’analista, portando fino alle sue ultime conseguenze la sua capacità di empatia, può allora identificarsi intensamente con la sofferenza e il dolore del paziente. Quando si accede a questo livello di profondità, “le lacrime del medico e del paziente confondendosi danno origine a una solidarietà sublimata che trova forse la sua analogia soltanto nel rapporto madre-bambino” (20.3.1932).
A partire da quel momento Ferenczi decise di scambiare, in modo sperimentale, il suo ruolo d’analista con quello di paziente. Attraverso l’analisi mutuo, Ferenczi incitava il paziente ad esplorare il mondo interno dell’analista e a riflettere, servendosi dell’immaginazione, sul significato e sull’origine degli errori del proprio analista. Il materiale che si derivava da esso, inoltre, costituiva per l’analista una certa orientazione sul controtranfert.
La novità più suggestiva di questa tecnica era l’importanza della risposta inconscia dell’analista come indice dello stato psichico del paziente. L’analisi mutuo veniva cosituita in una estensione naturale dei concetti di “attenzione fluttuante”e di comunicazione da inconscio a inconscio dove il controtransfert lasciava di essere un ostacolo per il lavoro analitico per diventare uno strumento terapeutico indispensabile. L’ascolto analitico comportava il poter mettersi nel luogo dell’altro e accoglierlo con tutti i suoi sentimenti di rabbia, di angoscia, di terrore, di vendetta e di lutto (duelo). L’autentica comprensione del paziente si basava nel poter personificare, condividere e convivere senza smentire, in una modalità estrema di com-passione, aspetti dell’esperienza persa e traumatica del paziente.
L’idea dell’analisi reciproca fu, obiettivamente parlando, un fallimento terapeutico. Dall’altra parte, però, preanunciava molte intuizioni cliniche che si sono sviluppate negli anni seguenti grazie alle intuizioni cliniche di molti analisti.
Sicuramente, Ferenczi mise in pratica una fragile capacità di contenimento, anzi, utilizzó inconsciamente alcuni dei suoi pazienti per contenere alcuni dei suoi eccessi emozionali. Comunque, l’idea di comunicare al paziente i sentimenti controtransferali ebbe però, di fatto, uno sviluppo nella letteratura psicoanalitica. Nel famoso e polemico articolo del 1947 intitolato L’odio nel controtransfert, Winnicott affermò che la confessione dell’odio controtransferale non solo non era sconsigliabile, ma anzi tanto il paziente quanto il processo analitico potevano trarne beneficio. Sulla stessa linea M. Little (1951) difese l’utilità di rivelare al paziente la natura delle proprie emozioni controtransferali, se si voleva favorire in lui l’accettazione di determinati vissuti transferali e sosteneva che il paziente potesse offrire all’analista interpretazioni molto utili per la comprensione del suo controtransfert. L’autore che forse, pur non citando Ferenczi, riprende con maggiore profondità clinica alcune intenzioni del Diario è Searles: un analista per l’appunto che, come Ferenczi, ha dedicato gran parte del suo lavoro ai pazienti gravemente psicotici accumulando un’enorme esperienza in questo campo. In un articolo intitolato Il paziente come terapeuta del suo analista (1975), Searles motiva l’ipotesi che nel corso dell’analisi il paziente psicotico abbia bisogno di “creare” un analista “a propria misura” per poter introiettare e riscostruire al suo interno un mondo più affidabile e meno persecutorio come condizione indispensabile per affrancarsi dalla psicosi. In modo analogo a Ferenczi, egli parte dal presupposto, certamente discutibile, che ogni paziente sente il desiderio inconscio di diventare il terapeuta del proprio analista e di “curarlo”.
Searles, nel difendere una concezione della relazione psicoanalitica essenzialmente simmetrica, implicitamente muove una critica sia alla teorizzazione kleiniana che interpreta questa fantasia del paziente di curare l’analista come nient’altro che un gesto riparatore nei confronti del suo sadismo, sia all’idea di “relazione parassitaria” proposta da Bion a proposito della psicosi. In questa sua visione, l’“alleanza terapeutica” è ugualmente applicabile nell’analisi ai due protagonisti della relazione e il riconoscimento da parte dell’analista degli “impulsi terapeutici del paziente”, diretti ad esempio a trasformare l’analista in una madre sufficientemente buona capace di contenerlo, o in un padre sessualmente potente, risulta di capitale importanza per lo sviluppo del processo analitico.
Oltre a non condividere personalmente nessuno degli sviluppi teorici che sul finire ho menzionato, ritengo in accordo con M. Mancia (1990) che rivelare al paziente i propri sentimenti controtransferali significhi ammettere la propria incapacità di elaborarli adeguatamente e che sia indicativo di un insuccesso delle capacità di trasformazione sulle quali si basa la creatività dal lavoro analitico. Nonostante io avverta che in alcune posizioni teoriche, in sostanza in quella di Searles, la linea di demarcazione tra transfert e controtransfert sembri pericolosamente dissolversi, sono tuttavia del parere che, con le sue ultime intuizioni cliniche, Ferenczi anticipasse molte teorie contemporanee quali l’utilità del controtransfert, l’identificazione proiettiva e la controidentificazione proiettiva come strumenti tecnici indispensabili per il lavoro analitico, il riconoscimento della partecipazione emotiva dell’analista e la possibilità di penetrare nel transfert del paziente e di osservare e interpretare le reazioni controtransferali.
Dopo la morte di Ferenczi, alcune delle sue più geniali intuizioni cliniche, soprattutto quelle concernenti il controtransfert, furono praticamente dimenticate. Nonostante, a partire da questi sviluppi teorici, una lista interminabile di analisti del calibro di M. Khan, M. Mahler, Searles, Fromm-Reichmann, W. e M. Baranger, Rosen, Guntrip, Spitz, Nacht, Kohut ecc. continuò a sviluppare, quasi sempre senza nominarle, alcune delle più geniali intuizioni cliniche di Ferenczi.
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Articolo pregevole, da
Articolo pregevole, da diffondere in maniera instancabile.
La questione del controtransfert oggi, in tempo di psicoanalisi ‘liquida’, vale a dire sempre piu refrattaria al controllo interno, al vaglio del terzo, rende alcune pratiche delle pericolose derive nelle quali ignari pazienti sono sottoposti ad agiti controtransferali da parte di sedicenti analisti, i quali lasciano volentieri la strada della rettifica personale, sapendo che nulla e nessuno potrà mai controllarli. Scrissi questo in un mio vecchio posto ‘ Cadere dal lettino’, ne parleremo, tra le altre cose, a Modena, a Marzo, all’interno di un ciclo di incontri chiamato ‘ A cosa serve la psicoanalisi’