(Dalla puntata precedente) “Successivamente Selvini chiese ai suoi colleghi di formare una prima équipe per lo studio e l’applicazione della terapia familiare. Quattro medici e psicoanalisti cominciarono, a fine anni Sessanta, a sperimentare questo approccio nuovo ai casi di anoressia e a quelli di schizofrenia.”
Nel 1975 Mara Selvini Palazzoli, Luigi Boscolo, Gianfranco Cecchin e Giuliana Prata pubblicano per Feltrinelli Paradosso e controparadosso. Un nuovo modello nella terapia della famiglia a transazione schizofrenica. Nella stessa collana appaiono libri di Franco Fornari, Michael Balint e Frieda Fromm-Reichmann.
Frieda Fromm-Reichmann (1889-1957) attrasse l’interesse clinico di Gregory Bateson per via dell’uso del “doppio legame” come strumento terapeutico con un giovane paziente paranoico. Gli autori di Paradosso e controparadosso cercano, nel libro in questione, di codificare un modello terapeutico basato sulla teoria del doppio legame. Si tratta di un rituale di prescrizione da introdurre durante l’intervento finale della seduta con la famiglia a transazione schizofrenica: la “prescrizione del sintomo” del “paziente designato”.
Durante questa puntata cercherò di chiarire le tre locuzioni virgolettate nel paragrafo precedente.
Doppio legame (Double Bind).
Si tratta di un termine che ha avuto almeno altre due traduzioni: doppio vincolo e doppia relazione. Quest’ultima fu la traduzione resa da un gruppo di psicoanalisti francesi che avevano cercato di leggere la teoria di Bateson come un contributo decisivo alla riflessione sulla psicoanalisi, che a quell’epoca si era fossilizzata nella Ego-Psychology. Secondo questo gruppo, la teoria del doppio legame aiutava gli psicoanalisti a liberarsi dalla vecchia idea che riassumeva le patologie nevrotiche nel concetto di “funzionamento debole dell’Io” e le patologie psicotiche in quello di “distruzione della funzione dell’Io”. La doppia relazione, in questa lettura, contribuisce a comprendere la posizione simbiotica nel termini di una comunicazione corporea: il cane che morde teneramente giocando i suoi cuccioli comunica loro “non ti morderò”.
Negli umani la relazione ha una duplice valenza sul piano verbale e su quello corporeo. L’esempio clinico di Bateson, in “Verso una teoria della schizofrenia”, è quello di una madre che incontra il figlio, questi la abbraccia, mentre lei si irrigidisce. Il figlio allora si allontana confuso e la madre gli dice: “non devi avere paura dei tuoi sentimenti”. Questo giovane ha, dopo questo messaggio materno, una crisi schizofrenica. Nel mio libro Figure della relazione, cerco di spiegare i termini del contenuto del messaggio considerando la negazione “non”, l’operatore deontico “devi” e il resto dell’attribuzione della madre al figlio: “paura dei tuoi sentimenti”. La madre attribuisce al figlio un sentimento di paura, certa che questo sentimento (la paura) fosse il sentimento verso tutti gli altri sentimenti del figlio. Ciò è preceduto da un’ingiunzione: il verbo deontico “dovere” e da una negazione: io so che tu hai una relazione di paura verso tutti i tuoi sentimenti, non devi avere questo sentimento, ma poiché questo sentimento è l’unico sentimento che hai nei confronti dei tuoi sentimenti, tu sei sbagliato.
Di qui i sintomi principali della schizofrenia: la lettura del pensiero, il sentire voci, la convinzione di essere spiati, la sensazione che i sentimenti siano minacce reali esterne al soggetto, statue volanti, per dirla con uno dei racconti di Sartre. Tuttavia Bateson riteneva che la schizofrenia fosse la conseguenza dell’impossibilità, o della difficoltà, del soggetto a sottrarsi o meno a questa comunicazione. Se per esempio qualcuno avesse detto: “guarda mamma che non ho paura dei miei sentimenti, sei tu che ti sei irrigidita”, costui sarebbe stato in grado di affrontare un conflitto di emancipazione.
Ci fu anche una lettura molto più strategica del doppio vincolo formulata dal gruppo del Mental Research Institute di Palo Alto, un gruppo del quale Bateson non fece mai parte, col quale entrò in polemica molto precocemente, in particolare con due suoi esponenti: Jay Haley e Paul Watzlavick. Tuttavia questa fu la versione più diffusa e condivisa nel mondo della terapia familiare. Questi autori dividevano la comunicazione in due tipi di linguaggi che chiamavano “analogico” e “digitale”, come fossero due canali separati. Essi sostenevano che si creava un paradosso nella comunicazione ogni volta che il canale analogico e quello digitale erano in contrasto tra loro e che il doppio vincolo era l’essere sottoposti a questo paradosso senza poter abbandonare il campo della comunicazione.
Paradosso e controparadosso era assai più vicino a questa seconda visone del doppio legame, benché Bateson, nel 1969, scrivesse che vedere doppi legami come i pipistrelli nelle macchie di Rorschach, corrispondeva a una concezione semplicistica della schizofrenia, un principio dormitivo.
Prescrizione del sintomo. La prescrizione del sintomo parte da una considerazione paradossale, solo se prescrivi a qualcuno di non cambiare, costui cambierà. A quell’epoca la terapia familiare si era creata un proprio setting specifico, assai diverso, se non contrapposto, al classico setting freudiano, erano gli anni della rottura. Potremmo dire che, se il setting classico è una narrazione intima – il romanzo del nevrotico – la terapia familiare è un teatro. Mentre la narrazione si svolge in un flusso di coscienza (Joyce e Svevo erano maestri del flusso di coscienze in letteratura), il teatro ha una dimensione evenemenziale pubblica, ogni gesto teatrale consiste in qualcosa che qualcuno fa in relazione a qualcun altro. La terapia familiare, a quell’epoca, è composta dunque di atti, come a teatro: pre-seduta (confronto del team terapeutico a partire dalla scheda dei dati raccolti al telefono), seduta (che può consistere in diverse sedute), discussione del gruppo terapeutico dietro uno specchio unidirezionale (tra una seduta e l’altra), intervento finale e discussione post-seduta. La prescrizione del sintomo è un gesto terapeutico che va svolto durante l’intervento finale, in chiusura dell’intera sessione con la famiglia. Vari furono gli interventi di prescrizione finale allora ideati, con le “famiglie a transazione schizofrenica”, la prescrizione d’obbligo era la prescrizione del sintomo. L’ingiunzione, nella prescrizione del sintomo, era di “non cambiare”.
Paziente designato. Il termine risale a un’idea che proviene dagli studi sulla comunicazione oppressiva di quegli anni (Goffman, gli studi sull’autorità e la famiglia della Scuola di Francoforte, i movimenti di protesta nord-americani, ecc.). Il “paziente” non è un personaggio della medicina, è l’emergenza di una comunicazione distorta che produce una designazione; è colui o colei che presenta i sintomi e porta in terapia la famiglia. Il paziente è il soggetto che, nelle dinamiche familiari, assume una posizione che gli altri gli designano. Il paziente designato non è un malato, è una persona che si presenta sulla scena del teatro terapeutico come “lo schizofrenico” a partire dalle interazioni familiari. La ricerca terapeutica allora era volta cogliere e segnalare le differenti forme del doppio legame (per esempio tra la schizofrenia e l’anoressia) e la ricorrenza delle comunicazioni a doppio legame, che indicano la gravità della situazione familiare.
Dopo alcuni anni di lavoro comune il gruppo di Milano si divise, c’era, in Luigi Boscolo e Gianfranco Cecchin, il bisogno di percorrere nuove strade, di ritornare a Bateson. Il bagno strategico li aveva stancati e aveva dato loro troppo potere, questo, i due, non lo tolleravano. Ricordavano che Bateson aveva detto a Haley, per prendere distanza dalla terapia strategica: “l’idea del potere è sempre corruttiva”. Fu in quegli anni, grazie al ritorno a Bateson, che la clinica sistemica scoprì la cibernetica del second’ordine e la teoria della complessità.
Tredici anni fa, alla riedizione di Paradosso e controparadosso, nel 2003, mi fu chiesto dal nuovo editore, Raffaello Cortina, di scrivere l’introduzione a ventisette anni dalla sua apparizione. Scrissi che, così come L’interpretazione dei sogni di Freud aveva segnato il passaggio dalla preistoria alla storia della psicoanalisi, Paradosso e controparadosso aveva segnato il passaggio dalla preistoria alla storia della clinica sistemica. Freud aveva abbandonato l’ipnosi e la terapia catartica, Boscolo e Cecchin stavano per abbandonare l’approccio strategico, si accorsero che le dialettiche della liberazione sono molteplici. Bisognava trovare una nuova epistemologia.
(continua)
Nel 1975 Mara Selvini Palazzoli, Luigi Boscolo, Gianfranco Cecchin e Giuliana Prata pubblicano per Feltrinelli Paradosso e controparadosso. Un nuovo modello nella terapia della famiglia a transazione schizofrenica. Nella stessa collana appaiono libri di Franco Fornari, Michael Balint e Frieda Fromm-Reichmann.
Frieda Fromm-Reichmann (1889-1957) attrasse l’interesse clinico di Gregory Bateson per via dell’uso del “doppio legame” come strumento terapeutico con un giovane paziente paranoico. Gli autori di Paradosso e controparadosso cercano, nel libro in questione, di codificare un modello terapeutico basato sulla teoria del doppio legame. Si tratta di un rituale di prescrizione da introdurre durante l’intervento finale della seduta con la famiglia a transazione schizofrenica: la “prescrizione del sintomo” del “paziente designato”.
Durante questa puntata cercherò di chiarire le tre locuzioni virgolettate nel paragrafo precedente.
Doppio legame (Double Bind).
Si tratta di un termine che ha avuto almeno altre due traduzioni: doppio vincolo e doppia relazione. Quest’ultima fu la traduzione resa da un gruppo di psicoanalisti francesi che avevano cercato di leggere la teoria di Bateson come un contributo decisivo alla riflessione sulla psicoanalisi, che a quell’epoca si era fossilizzata nella Ego-Psychology. Secondo questo gruppo, la teoria del doppio legame aiutava gli psicoanalisti a liberarsi dalla vecchia idea che riassumeva le patologie nevrotiche nel concetto di “funzionamento debole dell’Io” e le patologie psicotiche in quello di “distruzione della funzione dell’Io”. La doppia relazione, in questa lettura, contribuisce a comprendere la posizione simbiotica nel termini di una comunicazione corporea: il cane che morde teneramente giocando i suoi cuccioli comunica loro “non ti morderò”.
Negli umani la relazione ha una duplice valenza sul piano verbale e su quello corporeo. L’esempio clinico di Bateson, in “Verso una teoria della schizofrenia”, è quello di una madre che incontra il figlio, questi la abbraccia, mentre lei si irrigidisce. Il figlio allora si allontana confuso e la madre gli dice: “non devi avere paura dei tuoi sentimenti”. Questo giovane ha, dopo questo messaggio materno, una crisi schizofrenica. Nel mio libro Figure della relazione, cerco di spiegare i termini del contenuto del messaggio considerando la negazione “non”, l’operatore deontico “devi” e il resto dell’attribuzione della madre al figlio: “paura dei tuoi sentimenti”. La madre attribuisce al figlio un sentimento di paura, certa che questo sentimento (la paura) fosse il sentimento verso tutti gli altri sentimenti del figlio. Ciò è preceduto da un’ingiunzione: il verbo deontico “dovere” e da una negazione: io so che tu hai una relazione di paura verso tutti i tuoi sentimenti, non devi avere questo sentimento, ma poiché questo sentimento è l’unico sentimento che hai nei confronti dei tuoi sentimenti, tu sei sbagliato.
Di qui i sintomi principali della schizofrenia: la lettura del pensiero, il sentire voci, la convinzione di essere spiati, la sensazione che i sentimenti siano minacce reali esterne al soggetto, statue volanti, per dirla con uno dei racconti di Sartre. Tuttavia Bateson riteneva che la schizofrenia fosse la conseguenza dell’impossibilità, o della difficoltà, del soggetto a sottrarsi o meno a questa comunicazione. Se per esempio qualcuno avesse detto: “guarda mamma che non ho paura dei miei sentimenti, sei tu che ti sei irrigidita”, costui sarebbe stato in grado di affrontare un conflitto di emancipazione.
Ci fu anche una lettura molto più strategica del doppio vincolo formulata dal gruppo del Mental Research Institute di Palo Alto, un gruppo del quale Bateson non fece mai parte, col quale entrò in polemica molto precocemente, in particolare con due suoi esponenti: Jay Haley e Paul Watzlavick. Tuttavia questa fu la versione più diffusa e condivisa nel mondo della terapia familiare. Questi autori dividevano la comunicazione in due tipi di linguaggi che chiamavano “analogico” e “digitale”, come fossero due canali separati. Essi sostenevano che si creava un paradosso nella comunicazione ogni volta che il canale analogico e quello digitale erano in contrasto tra loro e che il doppio vincolo era l’essere sottoposti a questo paradosso senza poter abbandonare il campo della comunicazione.
Paradosso e controparadosso era assai più vicino a questa seconda visone del doppio legame, benché Bateson, nel 1969, scrivesse che vedere doppi legami come i pipistrelli nelle macchie di Rorschach, corrispondeva a una concezione semplicistica della schizofrenia, un principio dormitivo.
Prescrizione del sintomo. La prescrizione del sintomo parte da una considerazione paradossale, solo se prescrivi a qualcuno di non cambiare, costui cambierà. A quell’epoca la terapia familiare si era creata un proprio setting specifico, assai diverso, se non contrapposto, al classico setting freudiano, erano gli anni della rottura. Potremmo dire che, se il setting classico è una narrazione intima – il romanzo del nevrotico – la terapia familiare è un teatro. Mentre la narrazione si svolge in un flusso di coscienza (Joyce e Svevo erano maestri del flusso di coscienze in letteratura), il teatro ha una dimensione evenemenziale pubblica, ogni gesto teatrale consiste in qualcosa che qualcuno fa in relazione a qualcun altro. La terapia familiare, a quell’epoca, è composta dunque di atti, come a teatro: pre-seduta (confronto del team terapeutico a partire dalla scheda dei dati raccolti al telefono), seduta (che può consistere in diverse sedute), discussione del gruppo terapeutico dietro uno specchio unidirezionale (tra una seduta e l’altra), intervento finale e discussione post-seduta. La prescrizione del sintomo è un gesto terapeutico che va svolto durante l’intervento finale, in chiusura dell’intera sessione con la famiglia. Vari furono gli interventi di prescrizione finale allora ideati, con le “famiglie a transazione schizofrenica”, la prescrizione d’obbligo era la prescrizione del sintomo. L’ingiunzione, nella prescrizione del sintomo, era di “non cambiare”.
Paziente designato. Il termine risale a un’idea che proviene dagli studi sulla comunicazione oppressiva di quegli anni (Goffman, gli studi sull’autorità e la famiglia della Scuola di Francoforte, i movimenti di protesta nord-americani, ecc.). Il “paziente” non è un personaggio della medicina, è l’emergenza di una comunicazione distorta che produce una designazione; è colui o colei che presenta i sintomi e porta in terapia la famiglia. Il paziente è il soggetto che, nelle dinamiche familiari, assume una posizione che gli altri gli designano. Il paziente designato non è un malato, è una persona che si presenta sulla scena del teatro terapeutico come “lo schizofrenico” a partire dalle interazioni familiari. La ricerca terapeutica allora era volta cogliere e segnalare le differenti forme del doppio legame (per esempio tra la schizofrenia e l’anoressia) e la ricorrenza delle comunicazioni a doppio legame, che indicano la gravità della situazione familiare.
Dopo alcuni anni di lavoro comune il gruppo di Milano si divise, c’era, in Luigi Boscolo e Gianfranco Cecchin, il bisogno di percorrere nuove strade, di ritornare a Bateson. Il bagno strategico li aveva stancati e aveva dato loro troppo potere, questo, i due, non lo tolleravano. Ricordavano che Bateson aveva detto a Haley, per prendere distanza dalla terapia strategica: “l’idea del potere è sempre corruttiva”. Fu in quegli anni, grazie al ritorno a Bateson, che la clinica sistemica scoprì la cibernetica del second’ordine e la teoria della complessità.
Tredici anni fa, alla riedizione di Paradosso e controparadosso, nel 2003, mi fu chiesto dal nuovo editore, Raffaello Cortina, di scrivere l’introduzione a ventisette anni dalla sua apparizione. Scrissi che, così come L’interpretazione dei sogni di Freud aveva segnato il passaggio dalla preistoria alla storia della psicoanalisi, Paradosso e controparadosso aveva segnato il passaggio dalla preistoria alla storia della clinica sistemica. Freud aveva abbandonato l’ipnosi e la terapia catartica, Boscolo e Cecchin stavano per abbandonare l’approccio strategico, si accorsero che le dialettiche della liberazione sono molteplici. Bisognava trovare una nuova epistemologia.
(continua)
Pietro, grazie per questa
Pietro, grazie per questa storia della clinica sistemica.
È utile riportare il discorso sulle tecniche della conversazione sistemica, nate nel periodo strategico, o comunque in tempi di cibernetica classica, e talvolta additate dai clinici postmoderni (vedi Efran e Clarfield, su “La terapia come costruzione sociale”, curato da McNamee e Gergen) come armamentario sovrabbondante di un modo di lavorare obsoleto e autoritario. Quei critici, a mio avviso, cadono malamente nella “fallacia della concretezza mal posta”, perché, una volta abbandonate le premesse strategiche e manipolative della terapia, quel modo di lavorare acquisisce ancora più senso.
Se la prescrizione del sintomo e la connotazione positiva diventano una posizione del clinico che sceglie un punto di vista dal quale guardare con accettazione e accoglienza alle parti più sofferenti ma anche più creative dei pazienti (che restano creative nonostante, anzi proprio attraverso, quella sofferenza), supportano una sensibilità autoriflessiva e dunque “di secondo ordine”.
Attendo il seguito…
Grazie di questo bel commento
Grazie di questo bel commento Massimo. In effetti la prescrizione del sintomo, dal mio punto di vista, così come veniva fatta ai tempi del lavoro con Selvini, contiene un elemento di “potere” agito. Forse, chissà s’è vero (come recita Jannacci), qualsiasi tipo di relazione terapeutica contiene, in quanto tale, un elemento di potere, o come avrebbe detto Foucault, di sapere/potere. Ciò, per Foucault, è costitutivo della relazione terapeutica. Qualcuno ha chiamato il terapeuta “soggetto supposto sapere”, che vuol dire anche “che si presuppone che sappia”, condizione per l’esercizio del potere nell’epoca moderna, ma anche condizione per l’esercizio della professione (e su questo ci sono pagine meravigliose di Elvio Fachinelli).
La clinica sistemica, quando nasce – e fino a questo punto della “breve storia” siamo alla gravidanza – diventa una metodologia per liberarsi dal potere/sapere. La scelta di fare domande circolari e riflessive (cioè di non fare domande strategiche e di limitare le domande lineari alla scheda telefonica o poco più) muove dal bisogno di smentire le proprie ipotesi (non innamorarsi mai dalla proprie ipotesi!). In pratica si tratta del metodo scientifico di formulare ipotesi al fine di smentirle perché la complessità sociale e relazionale è ben più variabile di quante variabili noi possiamo inserire nelle nostre inferenze: “Ci son più cose in cielo, in terra Orazio di quante non ne contempli la tua filosofia”, “so di non sapere”, “la dotta ignoranza”, ecc.
I sociocostruzionisti, che pure ci hanno interessato e abbiamo studiato, hanno un rapporto un po’ superficiale con la realtà (questa è la mia opinione), su questo ho scritto un saggio con Maria Nichterlein (una terapeuta australiana) che ora si trova su academia.com. Chi vuole leggerlo e darmi un’opinione è benvenuto.
Un appuntamento sempre
Un appuntamento sempre piacevole, quello con la “breve storia della clinica sistemica”. Interessante e motivante soprattutto per una mente giovane e inesperta come la mia, che si avvicina adesso alle prime storie, ai primi resoconti…
Apprendere non solo l’impianto teorico su cui si fonda un approccio, ma anche le idee e i principi che lo hanno fecondato, è un’ottimo esercizio in questa fase di scoperte.
Promuovere una riflessione sul fatto che la flessibilità (di ipotesi, visioni, relazioni) permetta di vedere ciò che un cieco innamoramento delle proprie teorie invece, celerebbe, equivale a fornire un ottimo strumento di pensiero. Non solo per il clinico, ma per l’uomo in quanto tale.
Per il “professionista” e per il cliente, per colui che è portatore di una sofferenza e per le persone che gli stanno attorno.
Penso che questo insegnamento, così come la modestia e il rispetto della realtà altrui, andrebbero insegnati di più a noi studenti, spesso troppo impegnati a districarci tra le pillole di verità in formato cartaceo e, anche per questo, meno attenti ad interrogarci sull’essere umano in carne ed ossa.
Grazie Professore!
Di quale schizofrenia stiamo
Di quale schizofrenia stiamo parlando?
“Di qui i sintomi principali della schizofrenia: la lettura del pensiero, il sentire voci, la convinzione di essere spiati, la sensazione che i sentimenti siano minacce reali esterne al soggetto, statue volanti, per dirla con uno dei racconti di Sartre. Tuttavia Bateson riteneva che la schizofrenia fosse la conseguenza dell’impossibilità, o della difficoltà, del soggetto a sottrarsi o meno a questa comunicazione.”
Eppure i sintomi principali secondo Bleuler erano la rottura dei legami tra concetti (dissociazione) e il predominio del registro affettivo (ricorda che “Affekt” in tedesco vuol dire eccitazione) sul registro intellettuale scisso, mentre deliri, dispercezioni e negativismi erano considerati sintomi secondari.
Cosa è cambiato dal 1911? Che rapporto c’è tra l’approccio sistemico e la psichiatria classica, di cui oggi nel DSM si è conservato proprio il termine schizofrenia, mentre nevrosi e perversioni sono scomparse, sostituite da un generico “disturbi”.
Stiamo parlando della
Stiamo parlando della schizofrenia così come era vista, negli anni Sessanta, dai terapeuti familiari sistemici: un disturbo della comunicazione (Haley scrisse un testo importante sulla comunicazione tra gli schizofrenici). Ovvio che la primogenitura della schizofrenia è da attribuire a Bleuler, su ciò non si discute. La Spaltung è, per Bleuler, la principale caratteristica di quella cosa che lui ha definito schizofrenia e che, prima di Bleuler, era chiamata Dementia Praecox. La ripresa di quelle riflessioni di Bleuler fu importante e i fenomenologi (da Jaspers a Louis Sass) hanno ripreso il tema della Stimmung schizofrenica. La tendenza di molta psichiatria fu invece quella di separare i disturbi dell’umore da quelli del pensiero. In fondo quest’idea apparteneva ai primi psichiatri francesi, fautori della cura morale. In Delitto e castigo Dostoevskij fa dire a Lebeziatnikov, mentre si rivolge a Raskolnikov (vado a memoria): “sapete voi che a Parigi c’è un medico che cura la follia con la logica?”. Poi nel 1952 (DSM-I) ci sono diversi tipi di “reazione schizofrenica”, compreso l’autismo, Jung, sulla scorta di Janet, parla di “complessi a tonalità affettiva”, non a caso lavorava con Beluler e aveva attenzione al termine Affekt, Lacan (lo sai meglio di me) parla della preclusione del Nome-del-Padre nell’Ordine Simbolico, ecc., ecc.
Nel gruppo degli psicoanalisti francesi che si interessano al double bind c’è anche Lacan che da qualche parte scrive (vado a memoria) “avete sentito Gisela Pankow parlare di Gregory Bateson, che non è l’ultimo arrivato…” e poi parla di elastici e significazioni…
Insomma Antonello, io non voglio dire che cosa sia la schizofrenia, mi interessano di più i “soggetti” che hanno ricevuto una diagnosi di schizofrenia. Per me la psicoterapia (qualsiasi cosa sia) è una scienza sociale. Questo saggio è un racconto di come si è sviluppata la cura sistemica della schizofrenia, nel bene e nel male, o, come diceva Weber “sine ira et studio”, anche se prendo posizione, ma non su cosa sia la schizofrenia in realtà, ma sui modi e le forme del trattamento del disagio. La clinica ha bisogno di storia, non di definizioni categoriche. Di quelle, ogni tot anni, alle revisione del DSM, ne abbiamo a iosa. Oggi la schizofrenia è uno spettro che si aggira per l’Occidente.
Grazie Massimo! Grazie
Grazie Massimo! Grazie Antonello! Finalmente un dibattito animato e vivo! Quel che sto cercando. Spero che i giovani ci leggano e imparino che, dalla settima lettera di Platone in poi, le idee nascono dalla scintilla.