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LA PRESCRIZIONE DI OPPIACEI NELLA TERAPIA DELLE TOSSICOMANIE: ASPETTI MEDICO-LEGALI Prima parte: principi generali

1 Mar 16

Di Mariagrazia-Fasoli, Patrizia-Furba, Alessandra-Ramera
Premessa
 
Negli ultimi 35 anni vari provvedimenti legislativi e amministrativi, statali e regionali, hanno limitato o esteso la possibilità dei medici di effettuare, sulla base dei dati scientifici e nel rispetto del codice deontologico, terapie con farmaci sostitutivi per la tossicodipendenza da oppiacei. Tutto ciò ha suscitato una lunga serie di contenziosi sul piano politico, amministrativo e giudiziario. Molti provvedimenti legislativi sono stati adottati, in maniera estemporanea, sulla spinta di queste diatribe, spesso senza provvedere ad armonizzare l’intero corpo normativo, con il risultato di produrre incertezze a cui sono conseguiti ulteriori atti interpretativi che, a loro volta, hanno incrementato i dubbi di medici e pazienti.  Fare il punto della situazione in un determinato momento non risulta molto facile dato che l’interminabile vicenda è in perenne evoluzione e sembra ancora lontana dalla conclusione. Questa nota, nella sua prima parte, tenta di affrontare, facendo riferimento ai principi generali che, a nostro giudizio, dovrebbero guidare il comportamento di medici ed infermieri, alcuni degli aspetti che più frequentemente hanno dato origine a dubbi o problemi nella gestione delle terapie sostitutive. In una seconda parte, invece, verranno illustrate più dettagliatamente le procedure mediche ed infermieristiche che si dovrebbero attuare in base al complesso normativo attuale. Naturalmente quanto sotto esposto riflette, necessariamente, l’interpretazione delle autrici che può non coincidere con quella di altri colleghi.  Tuttavia, quanto illustrato è frutto di posizioni che si sono sviluppate nel corso di anni, anche attraverso vertenze giudiziarie, a volte con l’appoggio e l’accordo dell’Ordine dei Medici della Provincia di Brescia e/o della Federazione Nazionale Ordini dei Medici Chirurghi e Odontoiatri. In appendice abbiamo elencato tutte le norme e le sentenze citate. Questo elenco non costituisce, evidentemente, una bibliografia sull’argomento ma solo la documentazione legale su cui ci siamo basati.
 
Antefatto
 
Il Decreto Presidente della Repubblica (D.P.R.) 171/93 abrogò, a seguito di referendum popolare, i seguenti punti del Testo Unico (TU) 309/ 1990:
  • l’art. 2, punto 4), lettera e), comma 1), che attribuiva al Ministero della Sanità la competenza di stabilire con proprio decreto “i limiti e le modalità d’impiego dei farmaci sostitutivi”;
  • l’art. 72 comma 1 che vietava “l’uso personale di sostanze stupefacenti o psicotrope di cui alle tabelle previste dall’art.14“ e “qualunque impiego di sostanze stupefacenti o psicotrope non autorizzato secondo le norme del presente testo unico”;
  • l’art. 72 comma 2 limitatamente alle parole “di cui al comma 1” il cui nuovo testo è pertanto “è consentito l’uso di preparati medicinali a base di sostanze stupefacenti o psicotrope debitamente prescritti secondo le necessità di cura in relazione alle particolari condizioni patologiche del soggetto”.
  1. Il Ministero della Sanità emanò, in seguito a tale nuova situazione giuridica , non più un decreto, ma la circolare 20/94, contenente linee guida che suggerivano una serie di procedure (alcune delle quali successivamente superate da ulteriori norme legislative), e affermava, tra l’altro, che la consegna del farmaco avrebbe dovuto essere fatta solo “ad un famigliare referente” che, [i]attendibilmente”, garantisse sul suo uso appropriato, “stretto congiunto del paziente, scrupolosamente identificato e non sostituibile da altro famigliare se non per eccezionale necessità”. Tali indicazioni suscitarono, a suo tempo, una serie di critiche, principalmente perché si ritenne che indicassero, in certi punti, comportamenti gravemente illegittimi che, se attuati, avrebbero potuto anche configurarsi come reato.  La circolare non venne tuttavia ritirata, e nemmeno impugnata, poiché, contenendo delle semplici linee-guida non vincolanti, non poteva essere annullata per via giurisdizionale.  La legge 8 febbraio 2001 n.12 introdusse una serie di modifiche agli articoli 41 e 43 della legge 309/90 allo scopo di regolamentare la prescrizione di stupefacenti fino a 30 giorni per la terapia analgesica, ma escluse l’applicabilità delle nuove norme alle terapie sostitutive per le tossicodipendenze che, quindi, restarono prescrivibili da qualsiasi medico, ma per dosaggi massimi pari a soli 8 giorni di terapia. La legge 49/2006 modificò nuovamente il Testo Unico 309/90 definendo, all'articolo 4 vicies ter, comma 13, un nuovo testo dell'articolo 43. In particolare, risultò modificato il comma 2, che consente ora la prescrizione di oppiacei fino a 30 giorni, mentre venne eliminato dal comma 3 ogni riferimento agli 8 giorni per i tossicodipendenti. Si previde inoltre esplicitamente (comma 5) la consegna del farmaco, con riferimento alla “persona a cui sono consegnati in affidamento i medicinali”, senza più cenno, quindi, a rapporti di parentela o ad altre limitazioni diverse da quelle gia previste dall’art. 44 per minorenni o “manifestamente infermi di mente“.  La consegna del farmaco deve però avvenire contestualmente all’esibizione di una prescrizione medica o di un piano terapeutico. Lo stesso articolo, tuttavia, prevede che il piano terapeutico sia predisposto da una “struttura sanitaria pubblica o da una struttura privata autorizzata ai sensi dell’art. 116, comma 2” (i cosiddetti “Ser.T. privati” o Servizi Multidisciplinari Integrati-SMI, attivati a tutt’oggi solo in Lombardia).  Venne quindi meno la possibilità per i medici non appartenenti alle succitate strutture specialistiche di prescrivere del tutto autonomamente farmaci sostitutivi per le tossicodipendenze da oppiacei (benchè, nel caso lo facciano, non siano previste sanzioni) mentre restò invariata la possibilità di farlo per la terapia analgesica.  Le successive leggi 38/2010 e 79/2014, che emendarono ulteriormente il TU 309/1990, non modificarono questa parte della normativa se non per alcune procedure relative alla tenuta dei registri. In particolare, nel 2014, la legge venne modificata in seguito alla dichiarazione di incostituzionalità delle norme contenute nella legge 49/2006, non in quanto ai contenuti ma perché inserite nella conversione di un decreto legge la cui necessità e urgenza era dovuta all’imminenza delle Olimpiadi invernali di Torino e quindi non pertinente alla normativa sugli stupefacenti.  Il conseguente nuovo decreto-legge (resosi, a questo punto, davvero necessario ed urgente, a causa del vuoto normativo) e la successiva legge di conversione 79/2014 modificarono, come si è detto, diverse procedure ma non intervennero sulla prescrivibilità dei farmaci per la terapia delle dipendenze. Pertanto, attualmente, nel nostro paese, la terapia sostitutiva per la dipendenza da oppiacei è limitata solo dal dettato della versione in vigore del TU 309/1990 che prevede, in sintesi: obbligo del registro di carico e scarico, divieto di consegna a minori e persone manifestamente inferme di mente, scopo terapeutico della prescrizione, consegna o prescrizione su ricettario ministeriale fino ad un massimo di 30 giorni di terapia, obbligo di piano terapeutico di una struttura pubblica o di uno SMI per i medici di fiducia dell’interessato. Per ogni altro aspetto valgono le norme applicabili a tutti i farmaci. Ciò non ostante, il successivo stratificarsi di normative e interpretazioni, anche da parte di autorità sanitarie locali, i ritardi di alcune regioni nell’emanare le necessarie direttive (o l’emanazione di direttive in contrasto con la legge dello Stato), la persistenza nei servizi di prassi consolidatesi in precedenti contesti, fanno sì che si ripetano situazioni problematiche che, a volte, danno la percezione che il rispetto dei diritti civili, dei medici e dei pazienti, dipendano dalla residenza geografica o dalla Procura di riferimento. Ciò anche se con Decreto Ministero della Salute 16 novembre 2007   vennero chiariti alcuni aspetti dell’applicazione della legge, senza, peraltro, porre completamente fine ad una serie di “interpretazioni” a nostro giudizio non corrette.  Di seguito riportiamo alcune osservazioni relative ai più frequenti problemi che tuttora si permangono rispetto alla terapia sostitutiva.
 
 
Prescrivibilità di terapie sostitutive per le dipendenze da oppiacei da parte di medici non operanti nei servizi specialistici per le tossicodipendenze
 
Come si è visto l’articolo 43, comma 5, nella sua attuale versione, prevede la possibilità di prescrizione di terapie sostitutive da parte di qualsiasi medico ma solo “nel rispetto del piano terapeutico predisposto da una struttura sanitaria pubblica o da una struttura privata autorizzata ai sensi dell'articolo 116 e specificamente per l'attivita' di diagnosi di cui al comma 2, lettera d) del medesimo articolo.”  Da ciò si dedurrebbe che solo i Ser.T. ed i servizi privati autorizzati con le stesse caratteristiche possano decidere tali terapie e che altri medici possano collaborare solo in posizione sussidiaria. L’articolo 120, comma 4, tuttavia, sembra configurare in maniera diversa tale collaborazione nel momento in cui dispone che “gli esercenti la professione medica che assistono persone dedite all'uso di sostanze stupefacenti e di sostanze psicotrope possono, in ogni tempo, avvalersi dell'ausilio del servizio pubblico per le tossicodipendenze e delle strutture private autorizzate ai sensi dell'articolo 116“. La collaborazione del servizio specialistico pare così configurasi più come un diritto del medico che come una limitazione alla sua libertà terapeutica. Ciò, naturalmente, non può significare che il medico del Ser.T. sia obbligato a redarre piani terapeutici se non condivide l’indicazione clinica alla terapia. Ciò infatti confliggerebbe con l’articolo 4 del Codice di Deontologia Medica 2014 (CDM) che impone ad ogni medico di esercitare la professione in “libertà, indipendenza autonomia e responsabilità”. La legge impone, invece, di prestare ai colleghi che intendano trattare pazienti tossicodipendenti ogni possibile aiuto, compreso quello necessario per gestire le terapie farmacologiche non ritenute controindicate. Tale interpretazione è confermata dalla Nota Ministero della Salute, 19/04/2006 prot. DGFDM/VIII/P/C.1.a.c/14480 che prevede esplicitamente la prescrizione di buprenorfina fino a 30 giorni da parte dei medici con piano terapeutico del Ser.T. e dall’art. 2 comma 3 del citato Decreto Min. Salute 16-11-2007 che dispone che “resta invariata la procedura di prescrizione da parte del medico di medicina generale sulla scorta del piano terapeutico redatto dal servizio di cura, e la dispensazione dei medicinali sostitutivi da parte delle farmacie”. Non riteniamo pertanto giustificata la pretesa di alcuni servizi di subordinare la consulenza farmacologica ad altri medici all’accettazione da parte del paziente di interventi d’altro tipo da lui non richiesti, relegando il medico di fiducia ad un ruolo puramente esecutivo, salvo che, naturalmente, si tratti di accertamenti necessari per valutare complessivamente l’opportunità della terapia: si pensi al caso di pazienti con sospetta depressione che potrebbero utilizzare il farmaco a scopo autolesivo, se non adeguatamente seguiti da specialisti.  Con l’entrata in vigore della nuova versione della legge qualcuno ha posto anche il problema della possibilità per strutture pubbliche diverse dai SERT (per esempio i servizi psichiatrici, i distretti sanitari, le strutture universitarie sede di scuole di perfezionamento in medicina delle farmaco- tossicodipendenze) di predisporre il piano terapeutico. Si è rilevato che il citato Decreto Min. Salute 16-11-2007, in effetti, si riferisce continuamente e unicamente al “servizio di cura” senza specificare che debba trattarsi di un SERT o di uno SMI.  L’articolo 43 del TU 309/1990, tuttavia, si riferisce chiaramente alle strutture pubbliche o private “di cui all’art. 116” che, come si evince dai successivi articoli 117, 118 e 119, sono quelle destinate specificamente all’assistenza ai tossicodipendenti.  Riteniamo, però, che con l’introduzione del concetto di accreditamento (art 117) nulla vieti che Università, associazioni di professionisti o altri soggetti, che dimostrino di avere i requisiti richiesti, possano richiedere il necessario riconoscimento come SMI, sempre che le regioni abbiano provveduto ai passi necessari.  
 
 
Rapporto tra Normativa regionale e leggi dello stato
 
Ci risulta che alcune regioni (come la Toscana e l’Umbria) abbiano assunto provvedimenti che escluderebbero di fatto la possibilità di accreditamento, prevista dall’art 116 del TU 309/1990, per Servizi Specialistici Multidisciplinari non pubblici. Riteniamo che provvedimenti di questo tipo, incidendo su diritti degli utenti e degli erogatori di servizi, garantiti da una legge nazionale, potrebbero essere considerati sotto il profilo della violazione costituzionale. Il Titolo V della Parte Seconda della Costituzione stabilisce infatti quali siano le competenze dei vari organi dell’Amministrazione dello Stato. In particolare: 
  • l’articolo 70 attribuisce alle Camere la funzione legislativa;
  • l’articolo 114 stabilisce che le regioni sono costituite in enti autonomi con propri poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione;
  • l’articolo 116 prevede l’adozione di statuti speciali con leggi costituzionali per le cosiddette regioni autonome e che, altre forme di autonomia, limitatamente all’organizzazione della giustizia di pace, alle norme generali sull’istruzione e alla tutela dell’ambiente e dei beni culturali, possono essere attribuite con legge dello Stato ad altre Regioni;
  • l’articolo 117 stabilisce, con le tre  possibili eccezioni sopra citate, le materie in cui lo Stato ha legislazione esclusiva.
Tra queste rientrano la determinazione dei livelli essenziali di prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale.  Lo stesso articolo prevede che, nelle materie di legislazione concorrente, tra cui “professioni” e “tutela della salute”, la potestà legislativa spetti alle Regioni, “salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato“.  L’articolo 126 sottopone le Regioni al disposto Costituzionale e alla legislazione nazionale stabilendo che gli atti contrari alla Costituzione o gravi violazioni di legge possono comportare lo scioglimento del consiglio regionale. Da tutto ciò si evince che, salvo il caso di una legge–delega, i provvedimenti regionali possono espletarsi solo negli ambiti non riservati allo Stato o, in caso di legislazione concorrente, solo nel rispetto dei principi fondamentali stabiliti con legge dello Stato. Non rientra pertanto, a nostro giudizio, nei poteri delle Regioni cambiare o vanificare i principi costituzionali o le leggi dello Stato. Lo svolgimento di attività professionali in favore di soggetti tossicodipendenti, tra l’altro, rientra, anche, nella fattispecie dell’iniziativa economica privata. L’art. 41 della Costituzione stabilisce che “l’iniziativa economica privata è libera” e che “la legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”.  Anche la regolazione di questa attività, in quanto diritto costituzionalmente tutelato, dovrebbe quindi essere riservata allao Stato almeno per la determinazione dei principi fondamentali, necessariamente validi su tutto il territorio nazionale. Peraltro, il fatto che la prescrizione di terapie sostitutive sia riservata ai servizi specialistici ha riflessi anche sull’esercizio della professione medica e, anche sotto questo profilo, non può, a nostro avviso, essere sottratta alla competenza della legge nazionale (vedi, per analogia, e a mero titolo di esempio, la  sentenza Corte Costituzionale 19-26 2002 n.282, pres. Ruperto, red. Onida, che annullò la legge 13 novembre 2001 della Regione Marche). A questo proposito, altre regioni, come la Lombardia, hanno formalmente chiarito il problema con posizioni completamente in linea con il dettato legislativo (nota regione Lombardia del 29 3-2006 prot GI.2006.0004496). 
 
 
AFFIDAMENTO DEL FARMACO A PERSONA DIVERSA DAL PAZIENTE
 
Fino all’entrata in vigore della legge 49/2006, alcune regioni, alcuni membri dei N.A.S., e anche lo stesso Ministero della Salute (vedi nota all’Ordine dei Medici di Roma del 1-8-2003), avevano ritenuto vincolante il disposto della citata circolare 20/94 che imponeva a persone maggiorenni e non interdette, con diagnosi di dipendenza da oppiacei in terapia farmacologica sostitutiva ai sensi dell’articolo 43 del T.U.  309/90, di presentarsi al servizio accompagnate da un famigliare. Costui avrebbe dovuto prendersi la responsabilità della conservazione e somministrazione dello stupefacente, con ciò assumendo le stesse funzioni di un farmacista e di un infermiere.  Tale posizione, già allora discutibile sotto diversi aspetti, ivi compresa la normativa sulle riservatezza dei dati personali sensibili, è completamente superata dalla attuale versione dell’articolo 43 che, come si è detto, recita testualmente (comma 5)La persona alla quale sono consegnati in affidamento i medicinali di cui al presente comma e' tenuta ad esibire a richiesta la prescrizione medica o il piano terapeutico in suo possesso”.   Da ciò si evince che chiunque sia considerabile una “persona”, e non rientri in condizioni che altre disposizioni di pari rango considerano incompatibili con la consegna di farmaci, può ritirare la terapia, come peraltro confermato dalla citata nota del Ministero della Salute – 19/04/2006 e dall’ art. 1, comma 4 del Decreto Min. Salute 16-11-2007.  Il farmaco deve quindi essere consegnato o all’interessato o anche, sempre che non sussista la necessità di diretti controlli clinici, ad una persona da lui stesso delegata per iscritto nel rispetto delle disposizioni dell’art. 34 del CDM sull’informazione a terzi, confermate dall’art. 1 comma 5 del citato D.M.. Anche se il decreto non lo impone esplicitamente, riteniamo che, in analogia a quanto disposto dalla citata nota ministeriale e a quanto avviene nelle farmacie, la persona delegata dovrà essere identificata con l’annotazione in cartella degli estremi di un documento di identità. Il comma 5 del D.M 16-11-2007, peraltro, prevede che l’impedimento per cui il paziente non accede al servizio “debba essere dimostrato da opportuna certificazione scritta ai sensi delle norme di legge vigenti”. Nella seconda parte di questa nota, riguardante le procedure, esponiamo i problemi che questa dicitura può sollevare. In ogni caso si conferma che la consegna a terze persone deve essere una libera scelta del paziente (sempre nei limiti delle necessità di controllo clinico) e non, come ci risulta che ancora a volte avvenga, una imposizione del servizio che pretende illegittimamente la presenza di un famigliare per consegnare il trattamento domiciliare a persone maggiorenni. Nel nostro paese, infatti, un cittadino che abbia raggiunto la maggiore età può essere privato dei diritti riconosciuti ad ogni adulto solo per disposizione di legge. La legge, come già si è visto, vieta la consegna di sostanze stupefacenti solo a minori di età o a persone “manifestamente inferme di mente(art 44 T.U. 309/1990) non facendo alcun accenno (e certamente non a caso trattandosi di legge sulle droghe) allo stato di tossicodipendenza.  La pretesa di imporre a una persona con piena capacità giuridica limitazioni non previste da nessuna legge dello stato (tanto da non essere applicate a pochi chilometri di distanza) risulta, a nostro giudizio, ingiustificata. E tale posizione è stata implicitamente confermata dalla apertura di un procedimento da parte del Garante per la privacy nei confronti della Provincia Autonoma di Trento (Nota Garante per la Protezione dei dati Personali alla Provincia Autonoma di Trento del 27-1-2000 prot. n. 796) poi estintosi in seguito alla revisione della norma contestata.  In particolare si sarebbe in quel caso verificato che un paziente maggiorenne, per decisione di operatori sanitari o di organi amministrativi:
  • non potesse disporre di un farmaco a lui prescritto;
  • fosse indotto a rilasciare il proprio consenso all’informazione ai famigliari in condizioni di evidente coartazione della propria libertà, (con ciò violando gli articoli 7, 8, 10, 83, 84, del D. Lgs. 196/2003Codice in materia di protezione dei dati personali” che, al di fuori dei casi espressamente previsti dalla legge, tra cui non ci sono arbitrarie variazioni delle modalità di prescrizione degli stupefacenti ex 309/1990, impongono l’acquisizione del consenso liberamente espresso dall’interessato per ogni comunicazione di dati sensibili a terzi);
  • fosse discriminato se non aveva famigliari ritenuti “affidabili”;
  • venisse messo in condizioni di sudditanza nei confronti dei propri congiunti dalla cui disponibilità sarebbe dipesa la possibilità di una certa modalità terapeutica .
Tale prassi, inoltre, sembrerebbe presupporre che si affidi la custodia di stupefacenti e il controllo di una terapia, non al destinatario della prescrizione ma a persone non qualificate per svolgere tali funzioni, sulle quali il prescrittore non ha alcun diritto di effettuare indagini e che, per quanto (non) si è autorizzati a sapere, potrebbero essere a loro volta tossicodipendenti, alcolisti o malati mentali, spacciatori, pregiudicati, o comunque non idonei a gestire la terapia di altri.  E, infatti, la legislazione non prevede la possibilità di prescrizioni a persone diverse dal destinatario della terapia.  Il ritiro in farmacia di ricette ad altri destinate si configura, per esempio, come un mandato del paziente, unico proprietario dei propri dati sensibili, e non certo del medico che non deve indicare sulle ricette altre generalità che quelle dell’interessato. Osserviamo inoltre che
  • l‘articolo 64 del citato T.U., rimandando all’articolo 120, consente all’interessato, su semplice richiesta, il trattamento in anonimato, cioè senza identificazione nominativa, diritto che sarebbe inapplicabile nel caso si prevedesse la collaborazione “obbligatoria” di parenti che, invece, come si è visto, devono essere identificati;
  •  l’articolo 122 stabilisce, al comma 2,  il dovere di formulare il programma nel rispetto della dignità della persona tenendo conto “in ogni caso delle esigenze di lavoro e di studio e delle condizioni di vita famigliari e sociali dell’assuntore” con ciò escludendo indebite “infantilizzazioni” del cittadino;
  •  l’articolo 2 del Codice Civile dispone che con la maggiore età si acquisisca la capacità di compiere tutti gli atti per i quali non sia prevista un’età diversa.
Rileviamo anche che gli articoli 414 e 415 del Codice Civile sembrano nettamente distinguere l’infermità mentale dalla condizione di tossicodipendenza.  Prevedono, infatti, che per “abituale infermità di mente” possa essere disposta l’interdizione mentre nei confronti di persone prodighe o che abusano di droghe o alcol è ipotizzabile solo l’inabilitazione ma unicamente per tutelare gli interessi economici della persona o della famiglia (e quindi senza alcun riflesso sui diritti del cittadino-paziente).  Tutto ciò considerato, ci pare di poter affermare che la responsabilità di eventuali danni al paziente o ad altri, derivanti da un affidamento imposto dal medico, e non per libera delega dell’interessato, della custodia e del controllo di una terapia con stupefacenti, a terze persone che non hanno in ciò né una responsabilità professionale (come un farmacista o un infermiere) né una responsabilità legale (come l’esercente la tutela o la patria potestà) ricade unicamente su chi ha il potere di prescrivere cioè sul medico.  Tale comportamento inoltre risulterebbe difficilmente compatibile con lo spirito e la lettera degli articoli 10,11,20,34 del CDM, concernenti il segreto professionale, la riservatezza dei dati personali, la relazione di cura, l’informazione e comunicazione a terzi, che non prevedono alcuna eccezione dovuta alla diagnosi di tossicodipendenza.  Ciò non toglie che, in casi selezionati, nell’ambito di un programma comportamentale che preveda il coinvolgimento “terapeutico”, e non poliziesco, della famiglia, si possa e si debba concordare (ma non certo imporre) l’assunzione supervisionata di questi come di altri farmaci. Il titolare della prescrizione e dell’affidamento, però, non può essere, anche in questa fattispecie, altri che l’interessato.
 
 
AFFIDAMENTO DEL FARMACO A PERSONA IN STRUTTURA RESIDENZIALE
 
Una riflessione del tutto analoga, confermata dall’art.2 comma 6 del DM 16-11-2007, può essere fatta per i pazienti che assumono il farmaco in strutture residenziali come le Comunità Terapeutiche per tossicodipendenti.  La consegna diretta dello stupefacente dal medico del SER.T. alla comunità in quanto tale, infatti, comporterebbe, vista la logica della legge rispetto alla necessità di documentare ogni movimentazione fino alla consegna o somministrazione al destinatario della prescrizione, la presenza di registro di carico e scarico presso la struttura e, quindi, la presenza di un direttore sanitario con la facoltà di gestirlo.  Ma, in questo caso, l’acquisto del farmaco dovrebbe essere fatto direttamente in farmacia o dalla ditta produttrice e la prescrizione dovrebbe provenire da un medico interno alla comunità, sebben su programma terapeutico del SERT/SMI.  Quanto alla somministrazione, la giurisprudenza prevalente ritiene che, a livello professionale, possa essere fatta solo da personale infermieristico. Si veda, a questo proposito, la sentenza TAR Toscana II sezione, 11 giugno 1998, n. 552 con cui venne annullato l’ordine di servizio di una ASL che imponeva a educatori, operatori tecnico-assistenziali e fisioterapisti di una comunità per handicappati la somministrazione di farmaci prescritti dal medico di base. Nel caso, più frequente, in cui la comunità non disponga di personale medico o infermieristico interno in grado di attivare le necessarie procedure per l’approvvigionamento (peraltro in nessun modo previste nella specifica normativa) la consegna dovrà, invece, essere correttamente fatta all’interessato, anche se, in genere, alla presenza di operatori della comunità. La comunità, infatti, può e deve definire liberamente, inserendo tali limiti nel proprio regolamento, luoghi, tempi e persone deputate ad assistere, non dal punto vista sanitario ma dal punto di vista logistico, chi necessita di terapie farmacologiche.  Ciò avviene, del resto, anche per altri bisogni primari, come i pasti, l’attività fisica o le ore di riposo notturno, senza violare alcun diritto purchè queste procedure siano note all’interessato nel momento in cui chiede di entrare nel programma.  Per fare ciò in tutta sicurezza si richiede solo che la struttura disponga di un armadio chiuso a chiave dove conservare il medicinale che sarà posto, insieme alla prescrizione o al certificato di trattamento, in busta o contenitore chiuso, su cui andrà apposta la scritta “di proprietà del signor (nome e cognome del paziente)“.  Si potrà inoltre decidere che l’accesso all’infermeria avvenga solo in ore prestabilite e che all’assunzione assista un operatore. Nel caso il paziente lasciasse la comunità il farmaco gli verrà, di regola, consegnato e il soggetto dovrà essere invitato a rivolgersi al più presto al medico prescrittore per le decisioni del caso. Naturalmente, qualora le condizioni psichiche dell’interessato fossero tali da far dubitare agli operatori situazioni di grave rischio sarà possibile, in virtù dell’articolo 54 del  Codice Penale  (CP) concernente lo stato di necessità, trattenere il farmaco senza tema di essere accusati di furto, sino a valutazione medica delle condizioni dell’interessato, indicandogli la necessità di rivolgersi al più presto al medico o al servizio prescrittore. Qualora, per un qualsiasi motivo, il paziente lasciasse il farmaco in comunità dovrebbe essere applicato il disposto della Nota Ministero della Salute del 26-10-2007 prot DGFDM/VIII/P/C.1.a.c./35622 con oggetto “Smaltimento farmaci stupefacenti residuati a domicilio del paziente per interruzione del trattamento o decesso”.  La comunità, infatti, si configura a tutti gli effetti come domicilio, sebbene temporaneo dei suoi ospiti.  Nel documento citato si chiarisce che “i cittadini che si ritrovano ad essere occasionalmente detentori di farmaci prescritti a singoli pazienti che hanno cessato la terapia” (omissis) “possono conferire i residui di farmaci stupefacenti a seguito di interruzione di terapia negli appositi contenitori presenti nelle farmacie senza obblighi di presa in carico o scarico da parte del farmacista”. Questi farmaci possono quindi essere smaltiti presso qualsiasi farmacia senza particolari procedure.  Il ministero suggerisce però di renderli inutilizzabili o, almeno, irriconoscibili rimuovendo l’etichetta. A partire dal gennaio 2008, in base al disposto dell’art 2 commi 350, 351 e 352 della cosiddetta finanziaria 2008 (legge 24-12-2007, n. 244), qualora le confezioni risultino integre e ben conservate e non siano reclamate dal paziente, possono essere restituite all’ASL per il riutilizzo. Riteniamo che, in questo caso l’operatore della comunità e il medico dell’ASL dovrebbero redarre un verbale di consegna in due copie citando il suddetto comma della legge. Tale documento dovrà essere citato nel registro di carico a cui dovrà essere allegato per la riutilizzazione.  Per inciso, sottolineiamo che la prassi, purtroppo ancora in qualche caso attuata, di inviare pazienti in comunità con terapie mediche prescritte dal SERT o dal CPS di provenienza e di affidarne la gestione, non ad altro medico specialista, ma agli operatori della comunità telefonicamente telecomandati, accampando una inesistente “competenza territoriale” è, a nostro giudizio gravemente illecita.  Le terapie mediche e, in particolare, quelle farmacologiche, devono, infatti, sia per motivi deontologici che per motivi legali, essere prescritte solo e unicamente dal medico che ha l’effettivo controllo clinico del paziente, che è, indiscutibilmente, il medico che ha la possibilità di aggiornare l’anamnesi ed effettuare l’esame obbiettivo.  La prescrizione a distanza, oltre ad essere pericolosa, configura, sempre a nostro giudizio, una violazione dei doveri deontologici (cfr art. 13 CDM).  Il medico, infatti, deve prescrivere farmaci solo in seguito a diretto controllo del quadro clinico, le cui variazioni dovrebbero, peraltro, essere puntualmente registrate o su una cartella clinica o su una scheda sanitaria a lui solo accessibile o su fogli di consulenza debitamente intestati e firmati.  Si confronti a questo proposito la sentenza 4 aprile 2007, Tribunale di Bologna, Sezione III Penale, che conferma la condanna per omicidio nei confronti di uno psichiatra che aveva ridotto la terapia antipsicotica, senza gli opportuni controlli clinici e senza l’accurata revisione dell’anamnesi, ad un paziente che uccise un educatore.  Perciò, qualora una comunità terapeutica si trovasse a fronteggiare problemi di questo genere, sarebbe consigliabile chiarire preliminarmente ai servizi invianti che i pazienti in terapia farmacologica possono essere accettati solo dopo l’attestazione dell’avvenuto trasferimento del caso, per gli aspetti medici, ad una analoga struttura specialistica idonea operante nel territorio a cui è situata la comunità. Da questo punto di vista aggiungiamo che il servizio ricevente il trasferimento di persona che verrà seguita presso quella struttura per settimane, mesi od anni dovrebbe, a nostro giudizio, prendere in carico il caso aprendo ed aggiornando una cartella clinica. Non è infatti concepibile, né nell’area delle dipendenze né in nessun altro tipo di problema medico, che non siano chiare le responsabilità cliniche sull’intera gestione terapeutica, come inevitabilmente avverrebbe quando si attuasse una inedita terapia “congiunta”, con uno dei due medici materialmente impossibilitato  a visitare il paziente, che invia le sue “prescrizioni” per telefono o “via fax”
 
 
PAZIENTI INCARCERATI
 
Si è purtroppo verificato che pazienti incarcerati nel corso di una terapia sostitutiva siano stati trattati unicamente sulla base di decisioni prese dal Ser.T. a cui erano in carico prima dell’inizio della detenzione.  A questo proposito valgono le stesse considerazioni esposte per la gestione delle terapie in strutture residenziali: per nessun motivo una terapia può essere condotta da un medico che non è materialmente in grado di valutare direttamente il paziente.  Ovviamente, il medico del carcere è tenuto, nei limiti del possibile, ad acquisire tutti i dati clinici dal precedente curante ma tali dati devono tassativamente essere confrontati con le risultanze della visita medica da lui personalmente effettuata, dato che solo lui risponderà del trattamento. Ricordiamo, per inciso, che, sfortunatamente, vige ancora in alcuni servizi la prassi di affidare i farmaci, non in base alle esigenze di lavoro o di studio dei pazienti o a significativi problemi clinici, ma in base agli esiti degli esami tossicologici che, come dovrebbe essere noto, non sono in grado di discriminare chi, per esempio, assume eroina ogni 3 ore da chi la assume una volta alla settimana. Per di più, i dosaggi vengono a volte definiti in base ad astratti protocolli che prescindono dalla condivisione dell’interessato. Ciò comporta, in qualche caso, che da un lato persone con urine positive e con difficoltà ad accedere giornalmente ai servizi siano disposte a rivolgersi al mercato grigio e, dall’altro, che persone con urine negative a cui vengono affidati dosaggi da loro ritenuti non necessari siano disponibili ad autoridurseli, cedendoli ad altri.  Per tali motivi all’ingresso in carcere è possibile che il dosaggio riferito dal Ser.T. non corrisponda, in eccesso o in difetto, a quello effettivamente assunto né al livello di dipendenza e tolleranza del paziente. In ogni caso, date le caratteristiche farmacocinetiche di metadone e buprenorfina, il quadro clinico potrebbe cambiare in base ad un gran numero di fattori che solo il medico effettivamente presente può valutare.  Analoghe considerazioni vanno fatte rispetto alla necessità o meno di iniziare un trattamento sostituivo ex novo in carcere.  Ricordiamo, a questo proposito, che, tra i farmaci spesso prescritti per trattare la eventuale sindrome d’astinenza, le benzodiazepine sono generalmente controindicate perché all’origine di tossicodipendenze iatrogene e la clonidina non ha tale indicazione sulla scheda tecnica e può quindi essere legittimamente prescritta solo nel caso che altre terapie siano controindicate, con l’acquisizione del consenso informato del paziente e con spesa a carico dell’interessato (legge 94/1998 art. 3, comma 2) . Il mancato rispetto di queste regole, particolarmente per quanto riguarda il consenso scritto, potrebbe contribuire a costituire il reato in caso di danno da effetto collaterale o reazione avversa (sentenza Cassazione Penale, Sezione IV, n.30057 del 12-9-2006). La terapia d’elezione rimane quindi la disassuefazione con metadone o buprenorfina e ogni paziente che presenti l’indicazione clinica (sindrome d’astinenza in atto o prevedibile in base all’anamnesi) ha diritto ad ottenerla.
 
 
AFFIDAMENTO FARMACI A PAZIENTI OSPEDALIZZATI
 
Un problema apparentemente simile si è a volte presentato con pazienti ricoverati in ospedale. A questo proposito si ricorda che, come decine di sentenze hanno confermato, responsabile della cartella clinica, e quindi anche dell’intera gestione del caso, è il primario (ora direttore di struttura complessa) del reparto in cui il paziente si trova. Tutti gli altri medici non da lui direttamente dipendenti intervengono in veste di consulenti.  Pertanto la responsabilità dell’intera terapia farmacologica è della struttura in cui il cittadino effettivamente si trova ricoverato.  Poiché, a volte, se il reparto non fa capo alla stessa farmacia che fornisce il SERT, avviene che non disponga immediatamente dei farmaci sostitutivi assunti dal paziente può essere inevitabile che, in un primo tempo, il SERT stesso continui a fornirli all’interessato.  Anche in questo caso, tuttavia, benché il farmaco possa e debba essere custodito nell’armadio farmaceutico del reparto con le modalità sopra descritte, il SERT consegnerà formalmente al paziente, e non al reparto, la terapia chiarendo però che dovrà essere custodita e assunta secondo le indicazioni dei medici del reparto stesso. Ciò perché non è previsto il passaggio di stupefacenti da una azienda sanitaria all’altra e, anche nel caso eccezionale che ciò avvenisse, il trasferimento dovrebbe essere registrato secondo le indicazioni del TU 309/1990, cioè tramite registro di carico e scarico.  La consegna a paziente ospedalizzato, il motivo per cui il trattamento non può essere interrotto ed il motivo per cui il reparto non è in grado di provvedere immediatamente alla erogazione del farmaco dovranno essere annotati sia sulla cartella del SERT che fornisce la terapia e funge da consulente per il suo utilizzo sia sulla cartella del reparto dove la prescrizione dovrà essere confermata dal medico responsabile.
 
 
AFFIDAMENTO DI FARMACI STUPEFACENTI PER TERAPIA SOSTITUTIVA A PERSONE CON MORFINURIE COSTANTEMENTE POSITIVE O “NON AFFIDABILI”
 
La soppressa circolare del Ministero della Sanità 20/94, varie circolari regionali, un gran numero di leggi in un gran numero di paesi europei e, per finire, molti documenti di medici con titoli accademici in ogni parte del mondo, sostengono o hanno sostenuto che la terapia sostitutiva sia legittima ed abbia valenza terapeutica solo se il paziente si astiene da ogni altra droga e, in particolare, da ogni oppiaceo illegale. Gli stessi documenti affermano, in genere, che la “affidabilità” del paziente, sia strettamente correlata alla durata dell’astinenza da droghe illegali. Alcuni farmaci, come il LAAM, che dal punto di vista farmacologico non presentano alcun vantaggio sul metadone e presentano invece dei rischi in più (tanto da non essere stati approvati in Europa), sono stati introdotti in alcuni paesi principalmente perché, dati gli ostacoli all’affidamento, rappresentavano l’unico modo di ridurre gli accessi obbligati del paziente con “urine sporche” al servizio.  Lo stesso metadone che, per la sua farmacocinetica, in alcuni casi, dovrebbe essere assunto in due o tre dosi giornaliere, viene quasi sempre somministrato in dose unica per evitare l’affidamento.  A questo proposito si osserva quanto segue.  Dal punto di vista legale, i già più volte citati articoli 43 e 44 T.U. 309/1990 prevedono unicamente che la prescrizione non possa superare i 30 giorni di terapia e che il farmaco non possa essere consegnato a persona minore o manifestamente inferma di mente. Dal punto di vista scientifico, non esiste, a nostra conoscenza, nessuno studio che correli la correttezza dell’assunzione di metadone da parte del paziente alla durata dell’astensione da droghe illegali, anche perché una tale ricerca comporterebbe ovvie, e probabilmente insuperabili, difficoltà tecniche. Per tali motivi l’unico limite alla durata dell’affidamento dovrebbe essere la necessità di controlli clinici da parte del medico.  Tali controlli non dovrebbero dipendere tanto dall’esito di esami tossicologici (che, in genere, non sono in grado di per sé di distinguere una persona in coma per overdose da una persona che ha utilizzato codeina per la tosse) quanto da eventuali problemi clinici (per esempio presenza di insufficienza epatica o renale, febbre in atto, entità degli effetti collaterali, possibili reazioni avverse, segni di sovradosaggio, come rallentamento psico-motorio, o di sottodosaggio, come midriasi, poliassunzione di farmaci non prescritti, ecc)  e/o farmacocinetici (accelerazione del metabolismo per fattori genetici, per acidificazione o alcalinizzazione delle urine, per interferenze farmacologiche o dietetiche, ecc).  Da questo punto di vista, rifiutare, per questo solo fatto, l’affidamento a persone con esami tossicologici positivi sarebbe del tutto ingiustificato e, nel caso ciò rappresentasse un disagio per l’interessato, contrasterebbe con l’obbligo da parte del SERT di definire i programmi “tenendo conto, in ogni caso, delle esigenze di lavoro e di studio e delle condizioni di vita famigliare e sociale dell’assuntore” (art 122 TU 309/1990).  Il metadone (e ancor di più la buprenorfina), tuttavia, non sono farmaci “normali”.  Hanno infatti uno sproporzionato valore sul mercato illegale e, quindi, a differenza della sempre citata insulina, possono rappresentare una fonte di reddito se venduto ad altri.  Il medico non è tenuto a svolgere indagini poliziesche sul paziente ma, certamente, è tenuto a vigilare, per quanto gli compete, su eventuali strumentalizzazioni del proprio operato. Pertanto, più che preoccuparsi dell’esito positivo degli esami tossicologici, è consigliabile non sottovalutare segnali, comportamenti o informazioni che potrebbero suggerire la diversione quali, per esempio il mancato ritiro del farmaco nella giornata prevista, lo stazionamento nei paraggi del servizio in attesa di altri pazienti o di altre persone non in trattamento farmacologico, l’insistenza non spiegata a mantenere dosaggi elevati dopo molti anni di astensione da eroina.  Infatti, come già detto, sembra ragionevole pensare che abbia più probabilità di cedere ad altri il proprio metadone chi non assume più eroina che non chi la sta ancora assumendo.  A parte ciò, osserviamo che se l’obbiettivo della terapia sostitutiva è, di regola, l’astensione da eroina, nel caso non venga raggiunto il provvedimento logico è la revisione della terapia, non il passaggio a modalità che la rendono più difficile, come il rifiuto dell’affidamento.  Ci risulta infatti da molte testimonianze che proprio questo inspiegabile rifiuto, motivato magari con una singola positività, è uno dei principali motivi per cui molti pazienti si rivolgono al mercato illegale.  Aggiungiamo che anche la riduzione cospicua dell’assunzione di eroina, che non può essere provata con esami tossicologici costantemente negativi, può essere un obbiettivo della terapia se  comporta un miglioramento delle condizioni fisiche, psichiche e sociali del paziente. Per un eroinomane scompensato che non possa o non voglia rinunciare all’eroina, per esempio, il trattamento di mantenimento con dosi medio-basse di metadone a scopo di riduzione del danno può essere l’unica possibilità di ridurre il rischio di decesso per overdose, in quanto evita eccessive variazioni della tolleranza.  Per quanto riguarda il rischio di tossicomania iatrogena da metadone, come problema clinico autonomo, siamo a conoscenza, finora, solo di segnalazioni anedottiche.  A riprova di ciò, questa sostanza non è presente sul vero e proprio mercato nero, non viene “trattata” dalle organizzazioni criminali ma, per quanto si può sapere, viene invece ceduta illecitamente a persone dipendenti da eroina che incontrano difficoltà a rivolgersi ai servizi anche per la cosiddetta “lotteria delle urine”. Diverso il caso della buprenorfina che, anche nella formulazione Suboxone, ha dato origine a numerose segnalazioni di tossicodipendenze iatrogene che però non si vede come potrebbero essere prevenute dal mancato affidamento. Non sembra, quindi, che escludere l’affidamento a persone con esami tossicologici positivi aiuti a ridurre lo spaccio di metadone o buprenorfina ma, anzi, pare che, insieme alla mancanza di privacy nei servizi, ne sia uno degli involontari presupposti.  Giova inoltre ricordare l’articolo 3 del CDM che stabilisce: “doveri del medico sono la tutela della vita, della salute psico-fisica, il trattamento del dolore e il sollievo della sofferenza nel rispetto della libertà e della dignità della persona, senza discriminazione alcuna, quali che siano le condizioni istituzionali o sociali nelle quali opera.”.  Ciò non sembra accordarsi con la imposizione arbitraria di condizioni inutilmente difficoltose per accedere ad una terapia.  Tutto ciò considerato, sembra corretto procedere alla prescrizione di metadone e all’affidamento del medesimo a persone con morfinurie positive o che fanno uso di altre sostanze ogni volta che
  1. il medico ha sufficiente esperienza e competenza per valutare, criticamente e in maniera indipendente la letteratura e le linee guida sopra citate;
  2. le condizioni cliniche del paziente non richiedono controlli ravvicinati;
  3. non sussistono evidenti motivi per sospettare un uso scorretto del farmaco;
  4. vengono esplicitati in cartella clinica gli obbiettivi terapeutici e le ragioni per cui si stabilisce quel regime di affidamento o prescrizione oppure
  5. nel Servizio è stato motivatamente adottato un protocollo, da citare in cartella, che prevede perché l’affidamento dovrebbe essere fatto indipendentemente dagli esiti degli esami tossicologici.  Anche in quest’ultimo caso la responsabilità dell’affido rimane al medico prescrittore che, pertanto, può sempre decidere diversamente purchè giustifichi in cartella la propria scelta.
 
 
RESPONSABILITA’ DEL MEDICO PER L’USO CHE IL PAZIENTE FA DEL FARMACO
 
Si è a volte verificato che il medico sia stato incriminato per aver prescritto o consegnato metadone a pazienti che hanno utilizzato il farmaco in maniera scorretta commettendo reati o suicidandosi.  Ricordiamo il caso di un paziente che investì mortalmente due persone uscendo dal SERT e sostenne che ciò era dovuto al metadone che gli era stato somministrato.  O i numerosi casi di bambini intossicati dal metadone mal custodito dai genitori.  O i casi di omicidio-suicidio commessi utilizzando il farmaco.  Ci sentiamo in grado di affermare che forse questi procedimenti non sarebbero nemmeno iniziati se la cartella clinica fosse stata compilata con la doverosa diligenza.  Per prescrivere correttamente una qualsiasi terapia il medico dovrebbe infatti:
  1. formulare la diagnosi sulla base, per lo meno, di una anamnesi, di un esame obbiettivo e, nel caso intenda iniziare una terapia sostitutiva, di esame tossicologico positivo per composti morfinici oppure della rilevazione di segni oggettivi indicatori di sindrome d’astinenza da oppiacei oppure di riscontro documentale di assunzione cronica di oppiacei;
  2. definire gli obiettivi della terapia e scegliere il farmaco dopo aver valutato rischi e benefici;
  3. discuterli con il paziente ed acquisire la sua collaborazione;
  4. informare il paziente delle precauzioni, degli effetti collaterali, delle norme di conservazione in maniera per lui comprensibile;
  5. nel caso di prescrizione di stupefacenti, informare il paziente dei rischi legali di un uso diverso da quello terapeutico;
  6. documentare tutto ciò sulla cartella clinica.
Quando tutto ciò viene fatto è ragionevole pensare che sia più difficile incorrere in incidenti.  Nel caso si verificassero, tuttavia, molto difficilmente verrebbero imputati al medico sempre che non ci sia stata una negligenza o un grave errore diagnostico nel non rilevare, per esempio, gravi patologie psichiatriche che avrebbero potuto risentire positivamente di un intervento adeguato o controindicazioni alla terapia.  In nessun punto infatti la legge attribuisce al medico una particolare “tutela” nei confronti di persone tossicodipendenti, a differenza di quanto avviene con i malati di mente.  Pur sottolineando il dovere della prudenza e dell’attenzione nel rilevare eventuali abusi o rischi extra-terapeutici, riteniamo perciò che il medico non sia responsabile dell’utilizzo di farmaci in maniera difforme dalla sua prescrizione ma solo di effettuare prescrizioni documentando la dovuta diligenza e la completa informazione del paziente.
 
 
TRATTAMENTI “SINE DIE” A DOSE STABILE E TRATTAMENTI PER INDICAZIONI DIVERSE DA QUELLE APPROVATE E RIPORTATE SULLA SCHEDA TECNICA 
 
In molte sentenze di primo grado medici sono stati condannati in base all’articolo 83 del T.U. 309/1990 per non aver previsto la riduzione del dosaggio di metadone sulla base di quanto riportato sulla scheda tecnica oppure per aver trattato pazienti con dipendenza da eroina con farmaci come la morfina non approvati per tale indicazione.  A quanto ci risulta, però, non ci sono state condanne in secondo grado.  In base al dettato dell’art 13 CDM, che sempre più viene utilizzato anche in sede giudiziaria per definire la correttezza del comportamento professionale, la legittimità di un trattamento dipende dal fatto che il medico ne documenti adeguatamente la presumibile utilità per la vita o la salute di quel paziente, anche indipendentemente dalle indicazioni e dai protocolli o linee guida più o meno ufficiali, purchè ciò sia supportato da robusti dati scientifici e clinici.  Questa possibilità è confermata dall’articolo 3, comma 2 della citata legge 8 aprile 1998 n.94 che dispone: “in singoli casi il medico può sotto la sua diretta responsabilità e previa informazione del paziente e acquisizione del consenso informato dello stesso, impiegare un medicinale prodotto industrialmente per un’indicazione o una via di somministrazione o una modalità di somministrazione o di utilizzazione diversa da quella autorizzata, qualora il medico stesso ritenga, in base a dati documentabili, che il paziente non possa essere utilmente trattato con medicinali per i quali sia già approvata quella indicazione o  via di somministrazione o  modalità di somministrazione o di utilizzazione e purchè tale impiego sia noto e conforme a lavori apparsi su pubblicazioni scientifiche accreditate in campo internazionale”. Il Ministero della Salute con sua nota del 12-2-2007 “Impiego di Medicinali nell’ambito del SSN per indicazioni terapeutiche diverse da quelle autorizzate“ ha confermato la vigenza della legge succitata. La finanziaria 2008 (legge 24-12-2007, n.144) richiamò, al comma 348, la legge 94/1998 precisando che devono “essere disponibili almeno dati favorevoli di sperimentazione clinica di fase seconda”. In questi casi, tuttavia, il paziente non ha diritto al rimborso da parte del SSN. Il rimborso è invece previsto ai sensi della legge 23-12-1996 n.648 art.2 comma 4 per medicinali in attesa di autorizzazione in Italia o con indicazioni non comprese nella scheda tecnica purchè inseriti in apposito elenco predisposto, all’epoca, dalla Commissione Unica del Farmaco e ora, in base al comma 349 della citata legge 24-12-2007, n.144, dalla Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA
 
 
PRESCRIZIONE E AFFIDAMENTO DI FARMACI STUPEFACENTI PER TERAPIA SOSTITUTIVA A PAZIENTI TRASFERITI DA ALTRI SERVIZI
 
Il medico che presta assistenza ad un paziente occasionalmente trasferito non assume la titolarità del programma terapeutico e non ne è quindi responsabile, trovandosi, per certi aspetti nella stessa condizione del medico di continuità assistenziale che interviene per un paziente in terapia presso altro collega.  Il suo comportamento dovrebbe quindi uniformarsi al dettato dell’art. 59 del CDM.  Ciò comporta l’obbligo di garantire il controllo clinico rispetto all’emergere di segni o sintomi che controindichino l’assunzione del farmaco o che siano indicatori di grave inadeguatezza della terapia (per esempio: comparsa di allucinazioni o di depressione respiratoria).  In questi casi, prese le decisioni non rinviabili, il paziente dovrà essere riferito al medico responsabile della terapia.  Se ciò non è possibile, per esempio per ragioni di distanza geografica, il medico che ha effettivamente la possibilità di verificare le condizioni cliniche del paziente dovrà agire in base alle proprie competenze, fermo restando l’obbligo di informare il collega.  Il Ser.T. non è, infatti, una farmacia dove, tranne casi eclatanti, il farmacista ha il solo compito di eseguire quanto scritto sulla ricetta e di verificarne la corrispondenza formale a leggi e regolamenti, senza che ci sia nemmeno la necessità della presenza dell’interessato.  Al contrario, la somministrazione di farmaci da parte di un personale infermieristico comporta necessariamente una valutazione delle condizioni del paziente, e non solo della prescrizione, in primo luogo da parte dell’infermiere stesso e, ogni volta che quest’ultimo lo ritenga utile, anche da parte del medico sotto la cui responsabilità si sta svolgendo la somministrazione.  Sottolineiamo che ciò non significa che i pazienti debbano sempre essere visti materialmente dal medico.  Alla professione infermieristica, infatti, è ormai riconosciuta sufficiente autonomia anche per attuare variazioni di dosaggio dei farmaci secondo protocolli e condizioni prestabilite per iscritto da un medico (esempio: “in caso di morfinurie positive aumentare il dosaggio di 10 mg”).  E’ tuttavia opportuno che per persone trasferite con programma di affidamento per più giorni il medico inviante, oltre a rilasciare il certificato di trattamento, prenda contatto preliminarmente con i colleghi e, se questi ultimi lo richiedono, munisca il paziente di una relazione clinica in cui sia chiaramente descritto il razionale delle modalità di terapia in atto. Benchè, come si è detto, la titolarità del programma sia del terapeuta inviante la responsabilità della prescrizione (e delle relative conseguenze) è indiscutibilmente di chi la firma ed è quindi necessario che costui condivida la valutazione sull’utilità della terapia in atto. A questo proposito, non ha a nostro giudizio alcuna giustificazione la prassi a volte riscontrata per cui un paziente rimane in carico ad un servizio che frequenta solo ogni tanto e “ritira” regolarmente la terapia presso un altro servizio (spesso a centinaia di Km di distanza). Ciò potrebbe creare gravi problemi in primo luogo all’interessato (di tipo clinico) e in secondo luogo al medico che gestisce un programma a distanza senza poter effettuare i controlli clinici necessari per farlo e a quello che, potendoli effettuare, non lo fa basandosi invece sulle indicazioni del collega. In questi casi il paziente dovrebbe passare in carico al servizio che effettivamente può frequentare. Se rifiuta, entrambi i servizi dovrebbero, a loro volta, procedere alla dimissione, anche indipendentemente l’uno dall’altro. La libera scelta del luogo di cura, infatti, non può comportare il “diritto” ad effettuare la cura al di fuori delle regole a cui si rifà la responsabilità professionale. 
 
 
PRESCRIZIONE E AFFIDAMENTO DI FARMACI STUPEFACENTI PER TERAPIA SOSTITUTIVA A PAZIENTI STRANIERI SENZA TITOLO AL SOGGIORNO IN ITALIA E SENZA DOCUMENTI DI IDENTITA’
 
I pazienti stranieri senza titolo a soggiornare in Italia hanno diritto, in base al Decreto Legislativo (D. Lgs) 286/1998 “Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero" ad una serie di prestazioni sanitarie meglio specificate nella circolare Ministero Sanità 24 marzo 2000, n.5. In tale circolare si precisa che “A favore dei suddetti stranieri si applicano, infine, le disposizioni di cui al Testo Unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, emanato con decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990 n.
309 (…) e successive modificazioni ed integrazioni, ed in particolare:
  • il titolo VIII – capo II, anche in relazione a quanto disposto dal decreto legislativo 22 giugno 1999 n. 230 (Riordino della medicina penitenziaria);
  • il titolo X "Servizi per le tossicodipendenze";
  • il titolo XI "Interventi preventivi, curativi e riabilitativi".
Pertanto qualsiasi persona che necessiti delle prestazioni previste dal TU 309/1990, comprese quelle farmacologiche, ha diritto ad ottenerle, se indicate, indipendentemente dal suo stato giuridico. Varie regioni hanno emanato a questo proposito diverse disposizioni. In Lombardia, per esempio, l’accesso alle prestazioni che richiedono l’identificazione (per esempio il soggiorno in comunità terapeutica per cui si richieda il pagamento di una retta) comporta la compilazione di un apposito modulo per stranieri temporaneamente presenti (STP) basato sull’autocertificazione. Altre regioni hanno dato direttive diverse e non sempre in armonia con la legge nazionale. Osserviamo, In ogni caso anche i trattamenti con metadone o altri farmaci sostitutivi potrebbero essere svolti in anonimato.  L’art. 64 del TU 309/90, infatti, fa esplicito rimando all’art. 120 “Terapia volontaria e anonimato” benché, per evidente errore materiale, citi l’abrogato comma 5 e non il comma 4. Il problema si pone nel caso che un paziente non identificabile richieda un trasferimento ad altra sede oppure acceda al servizio provenienza da altro presidio (per esempio dal carcere dove potrebbe essere stato messo in trattamento utilizzando il numero di matricola per evitare scambi di persona). In questi casi, se non è possibile ricorrere alla conoscenza diretta della persona indipendentemente dai dati anagrafici, l’unica possibilità è comportarsi come con un paziente che avesse assunto stupefacenti di origine illegale. Ci si dovrà perciò basare sull’osservazione clinica dei sintomi astinenziali per individuare il dosaggio adeguato. Nel definire il dosaggio di mantenimento sarà poi tassativo tener conto del fatto che persone in questa condizione potrebbero, da un momento all’altro, trasferirsi o essere trasferite altrove senza alcuna possibilità di usufruire della continuità terapeutica. Riteniamo pertanto che sia una grave leggerezza da parte del medico utilizzare dosaggi elevati che esporrebbero il paziente a gravi conseguenze in caso di brusca interruzione.
 
 
 
RICHIESTA DI SVOLGERE FUNZIONI DI CARATTERE MEDICO LEGALE NEI CONFRONTI DEI PROPRI ASSISTITI.
 
L’articolo 62 del CDM vieta al medico curante di svolgere funzioni medico-legali di ufficio o di controparte nei confronti dei propri assistiti.  Per “medico curante” si intende ovviamente, ogni medico che abbia compiti di cura, compreso il medico del Ser.T.. Tale norma del codice si riferisce allo specifico contesto-giudiziario-forense. E’ però ragionevole e giustificato coglierne il riverbero in altri frangenti operativi di carattere medico-legale, consueti per il medico del SERT ma non per questo sempre agevoli. Si pensi ai certificati o alle relazioni concernenti i trattamenti   farmacologici richiesti al paziente da Commissioni Patenti, Tribunali dei Minori, ecc. L’art. 62 in parola induce, per traslato, ad osservare prudenza nel trasmettere ”con filo diretto” dati clinici in possesso del SERT agli enti che hanno diritto di richiederli all’interessato. E ciò anche in presenza della “condicio sine qua non” per la certificazione, ossia l’esplicito consenso del paziente. Raccomandiamo pertanto certificazioni strettamente attinenti a quanto viene richiesto (certificare solo ciò che c’è bisogno di certificare e null’altro), nonché uno stile di esposizione sobrio e misurato. In conclusione, qualsiasi relazione o certificazione può e deve essere rilasciata, e anche direttamente inoltrata ai competenti uffici, previa debita autorizzazione dell’interessato o del suo avvocato difensore. In questi casi suggeriamo di utilizzare però sempre la formula “su richiesta dell’interessato si rilascia/invia la seguente relazione/certificazione…”.
 
Autori e collaboratori
 
* Mariagrazia Fasoli, medico specialista in farmacologia clinica e psicoterapeuta, già direttore SERT e Dipartimento Dipendenze della cessata Azienda Sanitaria Locale di Brescia.
 
**Alessandra Ramera, infermiera, già coordinatore infermieristico SERT 2 della cessata Azienda Sanitaria Locale di Brescia.
 
*** Patrizia Furba, medico specialista in medicina interna e psicoterapeuta, responsabile Unità Operativa  SERT dell’Azienda Socio-Sanitaria Territoriale  di Franciacorta (Brescia).
 
 
Ringraziamenti
 
Ringraziamo per le osservazioni inviateci:
  • il dott Fulvio Fantozzi, medico delle dipendenze e medico legale libero professionista, già direttore del SERT di Carpi (MO);
  • la dott. Elena Ducci, responsabile del SERT di Val Bisagno e della U.O. delle Strutture Penitenziarie ASL 3 Genovese,
Norme citate
 
  1. DPR 171/93 Abrogazione parziale, a seguito di referendum popolare, del testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza
  2. Circolare Ministero Sanaità n. 20/1994 (decaduta)
  3. DPR 309/1990
  4. Legge 12/2001 (incorporata nel DPR 309/1990)
  5. Legge 49/2006 (incorporata nel DPR 309/1990)
  6. Legge 38/2010 (incorporata nel DPR 309/1990)
  7. Legge 79/2014 (incorporata nel DPR 309/1990)
  8. Decreto Ministero della Salute 16 novembre 2007
  9. Codice di Deontologia Medica 2014

10.Nota del Ministero della Salute – 19/04/2006  n. DGFDM/VIII/P/C.1.a.c/14480

  1. Sentenza Corte Costituzionale 19-26 2002 n.282, pres. Ruperto, red. Onida, che annulla la legge 13 novembre 2001 della Regione Marche
  2. Nota Regione Lombardia del 29 3-2006 prot GI.2006.0004496
  3. Nota Ministero della Salute all’Ordine dei Medici di Roma del 1- 8-2003 (decaduta)
  4. Nota Garante per la Protezione dei dati Personali alla Provincia Autonoma di Trento del 27-1-2000 prot. n. 796
  5. Circolare Ministero  Sanità  9/2001
  6. Costituzione della Repubblica Italiana
  7. D. Lgs. 196/2003 “Codice in Materia di Protezione dei Dati Personali
  8. Codice Civile artt. 2-414-415
  9. Codice Penale art.54
  10. Nota Ministero della Salute del 21-2-2006 con oggetto “Smaltimento farmaci stupefacenti residuati a domicilio del paziente per interruzione del trattamento o decesso”
  11. Circolare Ministero della Salute 26-10-2007, prot DGFDM/VIII/P/C.1.a.c./ 35622.
  12. Legge 24-12-2007, n 244 art. 2 commi 350, 351 e 352  (finanziaria 2008) e commi 348, 349
  13. Sentenza 4 aprile 2007, Tribunale di Bologna, Sezione III Penale
  14. Legge 8 aprile 1998, n. 94. “Conversione  in  legge,  con modificazioni,  del  decreto-legge  17 febbraio  1998, n.  23, recante  disposizioni urgenti  in materia  di sperimentazioni  cliniche  in  campo  oncologico e  altre  misure  in materia sanitaria.”
  15. Sentenza Cassazione Penale, Sezione IV, n.30057 del 12-9-2006
  16. Sentenza TAR Toscana II sezione, 11 giugno 1998, n. 552
  17. Nota Ministero della Salute del 12-2-2007 prot DGFDM/SDG/P/5106/ I n.e.b con oggetto “Impiego di Medicinali nell’ambito del SSN per indicazioni terapeutiche diverse da quelle autorizzate
  18. D. Lgs 286/1998  “T. U. delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero"
  19.  Circolare Ministero Sanità 24 marzo 2000, n.5
 

 
 
 

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