Il risultato però lo conosciamo bene: l’Oscar nel 1990 e la fama per un piccolo capolavoro che resta nel cuore e che si rivede sempre volentieri; chissà se sarebbe stata la stessa cosa con la pletorica versione originale?
Questo ricordo mi è venuto in mente dopo la visione dell’ultimo film di Paolo Virzì LA PAZZA GIOIA , che per altro sta avendo un ottimo successo di botteghino, meritato aggiungo…
Proverò in queste righe di darne conto ai lettori.
Dopo il meritato successo de “IL CAPITALE UMANO” Paolo Virzì ha preferito girare un “piccolo film” tornando nella sua Toscana per raccontare la storia di un’amicizia al femminile tra due ricoverate in una Comunità Terapeutica della Lucchesia raccontata nella sua quotidianità tra le altre cose con buona verisimiglianza, come tutte le parti “psichiatriche” del film, anche se un po’ romanticamente e ideologicamente rappresentata (il MarcoCavallo posto all’ingresso della Villa che ospita la Comunità ne è un esempio lampante).
In breve la trama: in una Comunità Terapeutica femminile si incontrano Donatella una ragazza madre, figlia del proletariato di oggi, che ha tentato di uccidersi ed uccidere il figlio in fasce che è stato poi dato in adozione e che lei disperatamente, da anni, cerca di ricontattare e Beatrice, una ricca borghese che a causa della sua bipolarità si è messa in grossi guai finanziari ed ora al pari di Donatella si trova nella CT per ordine del Tribunale.
Una fuga, quasi casuale, dal luogo di lavoro protetto dove passano parte della giornata favorisce l’approfondimento della reciproca conoscenza e la nascita di una vera amicizia. Per due giorni le donne percorrono la Versilia, in una sorta di rivisitazione di Thelma e Louise in salsa maremmana (vi è pure una citazione precisa durante durante un viaggio su una vecchia Flaminia Spider in realtà agito dall’interprete con improvvisazione e non deciso a tavolino dal regista) rientrando anche in contatto con il loro passato rappresentato dall’incontro con le due madri parimenti anche se diversamente e drammaticamente rifiutanti nei loro confronti.
Il finale del film è, per me, volutamente buonista e un po’ consolatorio: Beatrice fa i conti con la sua depressione rientrata in Comunità e Donatella dopo un’ennesima e drammatica ultima fuga sopravvissuta ad una incidente stradale si “riconcilia” col suo passato, incontra il figlio ma lo lascia andare per la sua strada con la famiglia adottiva, avviando, si potrebbe dire, una elaborazione del lutto e rientra volontariamente in CT a piedi stramazzando a terra al cancello della Villa dopo il lungo cammino di ritorno un po’ come Lassie ad essere sincero.
Ho avuto modo di parlare del film a lungo con Paolo Virzì che voglio ringraziare pubblicamente per la disponibilità e la simpatia e l’apertura intellettuale con cui ha accettato il confronto con me.
Il soggetto è originale, scritto a quattro mani con Francesca Archibugi ma è poi stato trasformato nella sceneggiatura definitiva dopo un lungo percorso di studio delle realtà psichiatriche italiane fatto incontrando e interagendo con molti colleghi tra i quali mi piace ricordare l’amico Peppe Dell’Acqua.
Da questo ricognizione che ha portato Paolo a visitare realtà psichiatriche diverse sia come impostazione tecnica terapeutica sia come strumenti di cura è nato il film in cui molti elementi raccolti nel lavoro preparatorio hanno trovato una buona sintesi cinematografica.
Virzì mi ha detto che ha seguito la sua ispirazione per la storia senza sostanziali modifiche pur avendo ricevuto dai “suoi consulenti” consigli a modifiche e riscritture.
E’ questa la ragione per la quale si coglie nel film un forte verisimiglianza di ambientazione pur nella totale invenzione del plot e delle locations a partire dalla Comunità “Villa Biondi” in cui il film è ambientato.
E’ interessante notare che tra gli ospiti della CT che è al centro della storia, sette erano donne di una cooperativa teatrale collegata col CSM di Pistoia che hanno nel film “recitato sé stesse” e per la prima volta in vita loro son state pagate per il loro lavoro di attrici.
Paolo mi ha raccontato che la malattia mentale ha percorso la sua storia personale e quella delle interpreti e questo può spiegare in parte la grande prova attoriale che attraversa la pellicola con Micaela Ramazzotti immersa totalmente in un personaggio difficile (una borderline) rappresentato con una partecipazione da actors’ studio e con Valeria Bruni Tedeschi che in mano a Virzì dopo la splendida prova in “IL CAPITALE UMANO” che le è valso un premio al TRIBECA FILM FESTIVAL del 2015 offre un’altra grande interpretazione nei panni di una paziente bipolare altoborghese.
Il film si muove con un tocco leggero ma non favolistico e pur nella drammaticità della storia e dei contesti strappa pure qualche sorriso amaro allo spettatore e ho inteso che questo era lo scopo riuscito della narrazione cinematografica anche per avvicinare lo spettatore al tema molto sentito da Virzì dello stigma nei confronti del malato di mente.
Un film per molti versi quindi riuscito a cui manca per me lo scatto per passare da bel film a grande film indimenticabile ed è come dicevo all’inizio e come dico nel titolo un problema non di storia ma di coraggio nella scelta dello stile narrativo per chiudere la vicenda .
Virzì mi ha raccontato che in farse di montaggio definitivo la prima versione lunga due ore e quaranta minuti è stata ridotta all’attuale di 118 minuti eliminando alcune vicende laterali ritenute alla fine non indispensabili alla tenuta narrativa della storia.
Nella mia visione avrebbe dovuto tagliarne altri 8 fermandosi al sottofinale .
La malattia mentale è soprattutto, purtroppo, dolore e angoscia purtroppo e il finale buonista e riparativo dei conflitti poco si concilia con la realtà ed ecco che arriva il parallelo con NUOVO CINEMA PARADISO e l’idea “un po’ pazza” di proporre al Regista di tagliare gli ultimi 8 minuti del film dove appunto gli snodi narrativi si sciolgono in positivo per proporre CORAGGIOSAMENTE un finale più drammatico ma pure più realistico .
Basterebbe infatti far finire il film, dopo la bellissima e toccante scena in cui le due donne sul muretto della passeggiata a mare si confrontano col loro dolore esistenziale profondo scoprendosi nelal diversità tanto simili, con l’incidente stradale in cui Maddalena è coinvolta sul lungomare di Viareggio (e la scena sembra fatta apposta per costituire volendolo la conclusione della storia certo con un altro impatto sullo spettatore e certo con un effetto molto spiazzante ma al tempo stesso più vero) per trasformare il film in un piccolo capolavoro come detto più aderente alla realtà e credo più potente come messaggio per un pubblico che voglia attraverso il Cinema capire qualcosa della malattia mentale, vedendola come è giusto non solo nella sua “simpatia” ma pure nella sua “drammatica” violenza.
Paolo Virzì ha chiamato, con giusta ironia, questa ipotesi, che gli ho anticipato, la “Bollorino’s Cut” e come tale ve la propongo rispettando ovviamente la sua scelta di “Director’s Cut “che va in un’altra direzione.
Ai lettori-spettatori il compito di dire chi ha ragione tra noi.
Confesso che a me il finale
Confesso che a me il finale e` piaciuto. Non l’ho trovato affatto consolatorio, poiche` il ritorno in comunita` dopo aver conosciuto le storie delle due donne e le loro famiglie ha il sapore di una sconfitta. Non c’e` posto per loro nel “mondo”, non c’e` amore, ne` comprensione, ne` “pazza gioia”, solo solitudine, violenza e rifiuto.
opinione rispettabilissima
opinione rispettabilissima ovviamente.
Il punto per me è un altro: la “sensazione” di “aggiunta” ovvero sembra e l’ho pure detto nel mio piacevole colloquio col Regista, davvero disponibile che il storia arrivi naturalmente alla drammatica conclusione ma poi da tale conclusione “perturbante” se ne distacchi in maniera narrativamente PER ME un po’ artificiosa e per ciò stesso meno forte. “La pazza gioia” resta nel cuore ma forse poteva restarci di più e in maniera più profonda anche se maggiormente dolorosa. E’ una questione di scelta ovviamente rispettabile ma come psichiatra lo vivo come un’occasione perduta ed è per me un giudizio positivo sul film: è proprio la sua riuscita complessiva la sua bella regia l’ottima interpretazione delle protagoniste a suscitarmi il rimpianto di quel qualcosa in più che si intuisce ci sarebbe potuto essere
Ricevo da Paolo Virzì e
Ricevo da Paolo Virzì e pubblico con piacere:
“Ho ereditato dall’umile mondo nel quale sono cresciuto il proverbiale rispetto timoroso verso “i dottori”, ecco perché nel momento in cui vengo contattato da qualcuno che si presenta come psichiatra e direttore di qualcosa che io immagino essere una specie di solenne dipartimento sanitario, e che sollecita “urgentemente” una mia telefonata, non mi è proprio possibile sottrarmi al moto istantaneo di richiamare, al pensiero che possa trattarsi di emergenze improcrastinabili, come minimo salvare vite umane, o meglio ancora, che si sia manifestata l’eventualità lungamente attesa che un’eccellenza della sanità voglia prendersi finalmente carico dei guai psichici del sottoscritto con un progetto terapeutico non dico risolutivo, ma che almeno attenui il dolore del vivere con il quale mi pare di convivere da sempre. Non mi era proprio venuto in mente che invece l’impellenza che muoveva il dottore era quella di manifestarmi il suo personale punto di vista d’autore cinematografico in pectore, con una convinzione che certo non mi sono sentito di contraddire. Sui gusti cinematografici non si discute, a lui piace “Nuovo Cinema Paradiso” per esempio, e vorrebbe essere per me quello che Cristaldi fu per Tornatore. Gusti sui quali appunto non discuto, tranne che per replicare, ma molto sommessamente, che nel mio personale, modesto e discutibilissimo modo di vedere le cose che riguardano non tanto la psichiatria, né il dolore e l’imperfezione della vita, ma l’arte della narrazione, la sua idea di finale non mi sembra né coraggiosa né vigliacca, né scientificamente fondata né infondata, né giusta né sbagliata, ma soltanto bruttina, cacofonica, inutilmente brutale e fondamentalmente anti-musicale. Come chiudere una canzone in sol settima, che invece è un accordo che, per motivi misteriosi che solo chi ha orecchio musicale è in grado di apprezzare, impone il passaggio successivo al do maggiore. Ma si sa, a proposito dell’idea di bellezza mi pare legittimo che ciascuno abbia la propria. E comunque ringrazio il dottor Bollorino per la sua attenzione e per i suoi consigli.”
Ringrazio Paolo Virzì per il
Ringrazio Paolo Virzì per il commento.
Ovviamente rispetto ma l’ho pure scritto nel testo la sua opinione per altro reificata nel taglio scelto.
Riporto a sostegno in realtà del suo parere un commento che un amico cinefilo mi ha inviato in posta privata ma che credo torni utile al dibattito che per me non rientra in una valutazione estetica sul film che mi è piaciuto assai ma appunto su una diversa filosofia di rappresentazione che leggitimamente può essere diversa senza alcuna velleità di sovrapposizioni di ruoli.
Ecco il commento dell’amico cinefilo;
“Non so…. Si -per dire- io forse avrei chiuso addirittura su quando, attraverso la grata del giardino, la madre intuisce il profilo del proprio figlio distaccatole da tempo. E senz’altro, la scena del muretto da te indicata, è particolarmente intensa: una bionda e l’altra nera; rivolte verso due punti opposti dello spazio, eppure mai così vicine (senza paralleli blasfemi, lì non tanto Thelma e Louise, ma persino Persone o Anni di Piombo). Comunque sia il cut lo sceglie l’autore. Per Hitchcock (nella famosa intervista a Truffaut) la forbice sarebbe più importante della macchina da presa nel cinema. In ogni caso non sono certo sia giusto parlare di finale buonista. Dopotutto il ritorno volontario alla struttura, la chiusura alle sue spalle del pesante cancello, lo sguardo complice, ma lontano con l’amica “reclusa” nella sua camera, le leggo anche come un atto di rassegnata accettazione alla condizione reietta del malato e, insomma, una presa d’atto di quanto siano lontano i tempi dei Matti da slegare di Bellocchio. Io l’ho vista così. E pure io -si sa- in altre vesti, ho una certa sensibilità al disagio psichico.”
Ho visto ‘La pazza gioia’ e
Ho visto ‘La pazza gioia’ e ne sono uscita non appesantita…. ovvero senza quella sensazione cupa (direi ‘grigia’) che talvolta segue la visione di pellicole che trattano il tema della malattia / sofferenza mentale. Questo per dire che la leggerezza mi appare come pregio. Ma leggerezza non è certamente ‘buonismo’. Ho poi letto lo scambio di opinioni riportate in questa rubrica, ed ho – forse leggermente – pensato ad una ovvietà: le scelte registiche appartengono all’Autore..! Fornire opzioni per un diverso finale è soltanto – a mio parere – allargare lo sguardo alle possibilità sempre insite in una pellicola. Un gioco della percezione mescolata a fantasia e immaginazione, talora alla propria esperienza se si opera nel settore che configura il contesto del film. Nello specifico, mi sento vicina all’opzione del ‘Bollorino’s cut’… personalmente, la gran parte delle volte che esco dalla visione di un film, mi dico che la pellicola avrebbe guadagnato da qualche ‘taglio’. Ma forse questo è un mio tratto costitutivo, un amore per la sottrazione più che per l’aggiunta… così anche nello scrivere.
Ricevo da Giovanni Giusto
Ricevo da Giovanni Giusto Direttore Scientifico e Sanitario gruppo redancia e pubblico con piacere:
“Film godibile che descrive il rapporto di amicizia di due persone con sullo sfondo una fotografia della malattia mentale grottesca nella quale gli operatori “psi” fanno la figura dei deficienti, in particolar modo lo psichiatra che pare anche un poco stupido.
Deficit di professionalità: la comunità descritta non potrebbe essere accreditata in nessun contesto sanitario credibile.
Deficit di umanità: la relazione terapeutica è assente come lo è qualsiasi accenno alla cura complessiva; deficit di competenza: gli operatori sembrano affannati in operazioni afinalistiche; ben altro da ciò che quotidianamente e faticosamente fortunatamente si fa nelle comunità terapeutiche che si rifanno ai valori fondanti la idea di cura ben descritti da Rapoport nella sua indagine e descritti nel libro Comunità terapeutiche : storie di lavoro quotidiano ed.Pearson 2015 che vi invito a leggere”
Caro Francesco, il film ha
Caro Francesco, il film ha attivato una quantità notevole di commenti in Italia. Mi è capitato ad esempio di vedere un botta e risposta prolungato sul Corriere Fiorentino. Alcuni commenti sono stati personalistici, fatti da chi si è sentito coinvolto in prima persona, perchè toscano. Altri commenti sono stati più generali ed hanno a che fare sul modo in cui si è esplorato il tema della salute mentale.
Ovviamente, un film come questo può essere affrontato sul piano dell’opera d’arte, oppure più pedissequamente come una posizione “politica” sulla psichiatria e sulla sua capacità di gestione della salute mentale. Chi sostiene la seconda posizione, argomenta che si sarebbe dovuto dire questo o quello, che i farmaci non sono stati trattati bene, che si è fatto un riferimento improprio all’elettroshock, che la comunità terapeutica era clownesca, e così via.
A me piace invece apprezzare l’opera d’arte, e trovo in generale che questo sia proprio un bel film, misurato, vero nella emotività, e veritiero nello svolgimento. Una bipolare può essere così eccessiva e priva di criterio ed inibizioni, e una borderline così disperata, confusa e priva di risorse è assolutamente plausibile. Io utilizzerò questo film per la didattica, certamente con tutto il supporto di commenti ad hoc.
Tu volevi far morire la Ramazzotti (sic!) per accentuare la drammaticità e la insolubilità della situazione. A me piace invece questo finale parzialmente consolatorio, non tanto per il piacere dell’happy end (che non c’è), quanto per dare un senso alla vicenda, per dirci che non ci sono soluzioni facili e che ognuno deve continuare a farsi carico della propria sofferenza, e che ci sono poi anche persone – professionisti forse anche non del tutto preparati, ma pieni di buona volontà – che si stanno impegnando per renderla meno dura.
Caro Matteo pure a me il film
Caro Matteo pure a me il film è piaciuto e pur con i suoi “limiti di ricostruzione realistica” vero nella rappresentazione del dolore.
La mia opinione, del tutto personale, è connessa al fatto che il tono scelto e apprezzabile da “commedia” avrebbe colpito di più lo spettatore con la rappresentazione del dolore nella sua a volte insolubilità: ci facciamo i conti tutti giorni e forse non è sbagliato rammentarlo a noi stessi e a tutti quanti.
Lungi dal volermi assugere ad autore, dico solo che nel preconscio di chi il film lo ha scritto questo “Finale Alternativo” c’era eccome visto che il “Finale Scelto” resta ai miei occhi come un’aggiunta, un po’ posticcia, che ci sta ovviamente nella linea da te indicata (non è un happy and , concordo ma è pur sempre consolatorioper me) ma ai miei occhi del cuore suona come posticcio appunto e meno coraggioso poichè certamente avrebbe dato al film un taglio più drammatico e un po’ meno popolare
Il professore, purtroppo,
Il professore, purtroppo, risponde troppo, a ciascuno di noi, per troppo amore, dimenticando per sè la regola del taglio che vorrebbe applicata al film.
Ammetto che ho avvisato anche io il senso completo di finale al momento dell’ìncidente stradale, ma avremmo perso le due scene, quelle della impossibile riconciliazione con il figlio, presa da Maleficent, sicuramente, e quella del ritorno dietro le pesante grate del mondo alternativo della Comunità più matta del mondo.
Nelle SIR dove lavoro io prevale la NOIA, sinceramente, alternata a momenti intensi durante i progetti. D’altra parte la vita di un paziente psicotico grave alterna per causa della patologia stessa lunghi momenti di PAUSA non meditativa, che non si risolve in altro che nella rituale del caffè e della sigaretta, dell’attesa del pasto e della terapia, in qualunque contesto essi siano, anche a casa propria.
D’altra parte la patologia mentale non ha un tale tasso di mortalità nè è fatta solamente delle frustrazioni dei casi gravi, da meritare un finale, già valutato come infamante quando vinse Sanremo TI regalerò una Rosa, di Cristicchi.
Abbiamo diritto a sperare, anche se con tante penombre?
Ovviamente ho tagliato i commenti ulteriori…
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Premiato come miglior film migliore regia e migliore interprete ai David di Donatello
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Grazie per ciò che farete, grazie dell’attenzione.
In riferimento alle simpatie
In riferimento alle simpatie per un finale, piuttosto che per un altro e di cui avete ampiamente ed efficacemente argomentato, io mi pongo un altro problema e cioè, se nel repertorio comportamentale di una mamma borderline possa rientrare, con tutte le condizioni favorevoli proposte nella sceneggiatura, la scena del bagno col figlio, vero lavacro, alla fine, del tentato suicidio omicidio precedente.
Uno o due secondi di immersione che tengono col fiato sospeso, prima della riemersione/redenzione nei quali la mamma risarcisce il figlio e se stessa di un amore malato e patologico, di una immersione precedente senza riscatto.
La “Pazza Gioia” può però durare solo pochi attimi, perché poi la quotidianità si ripresenterà in tutta la sua drammaticità e il suo strazio.
Attimi nei quali c’è la presa di coscienza che la vera salvezza del figlio è lontano da lei e dalla sua follia e dalla consapevolezza, nel saluto, che la speranza di potersi rivedere è egualmente atroce, perché, anche se così fosse, in un lontano domani, alla madre rimarrebbe sempre il dolore infinito di non poter chiamare suo figlio, “Figlio”.