Riflessioni (in)attuali
Uno sguardo psicoanalitico sulla vita comune
Il “genere” non ama la donna
Nel nostro modo di affrontare la violenza contro le donne ci sono errori seri.
Il primo errore è l’affidamento eccessivo allo strumento della repressione legale. Siamo convinti, perché ci semplifica la vita, che il rigore della pena abbia di per sé un effetto dissuasivo a causa del timore che incute.
In realtà la dissuasione agisce indirettamente, attraverso il sentimento di esclusione: la punizione sancisce soprattutto l’auto-estraniazione dell’autore di un delitto dalla costruzione e condivisione di un interesse comune e fa leva sul legame di appartenenza dei cittadini con la comunità.
Qui sta la forza della legge, ma anche la sua vulnerabilità. Si rivolge efficacemente a coloro che desiderano essere inclusi nella società civile e nei suoi conflitti, e sanziona i loro eccessi di passione.
Nulla può contro la produzione sociale di esclusi privi di passione e senza un reale approdo al mondo, che agiscono spinti da compulsioni distruttive, se non impedire che reiterino i loro crimini.
Il secondo errore è il nostro appiattimento su una cultura “politicamente corretta”, che dispensa canoni del buon pensare e del buon agire, in mezzo a una sorda disperazione con cui si relaziona in modo cosmetico.
A ogni donna sfregiata o uccisa rispondiamo con l’autocompiacimento di chi sta dalla “parte giusta”, cioè né nella posizione del carnefice né della vittima. Costoro vivono in un altro mondo che i nostri bei sentimenti non riescono a raggiungere: non lo conoscono.
Il terzo errore è la sostituzione del corpo erotico vivo, ribelle alla sua manipolazione, alienazione da parte del potere, con il concetto astratto di “genere”.
L’uso di questo concetto è assoggettato, al di là delle intenzioni, alla sovradeterminazione sociale della relazione erotica.
Il “genere” è stato pensato come emancipazione dall’uso ideologico delle differenze biologiche tra i due sessi, che, incastrandole sul piano della procreazione, ha penalizzato la donna e l’omosessualità. È finito, invece, nella palude di una svalutazione della differenza sessuale dei corpi. Eliminando la complementarità nella relazione tra donna e uomo, ha reso la loro differenza generica e il loro incontro un’artificiosa combinazione di istanze convenzionalmente egalitarie.
La differenza anatomica/biologica tra i sessi, lega la soddisfazione del desiderio alla complementarità tra donna e uomo e, per estensione, alla complementarità tra componente femminile e maschile del corpo e tra corrente eterosessuale e omosessuale della sessualità.
La combinazione libera di queste polarità complementari determina l’incontro tra gli amanti. L’incontro è paritario solo attraverso la contrattazione tra due desideri interdipendenti che la complementarità impone alla differenza.
Tolta la complementarità alla differenza, le relazioni umane si allontanano dalla parità: sono affidate al caso e alla necessità, il regno della differenza come ineguaglianza. L’identità sessuale si struttura per combinazione arbitraria di ruoli sociali a prescindere dai soggetti desideranti che li incarnano.
L’arbitrio sposta inevitabilmente il centro della differenza umana dal piano paritario della relazione di desiderio al piano del rapporto padrone-servo (luogo di violenza socializzata). La vita fatta su misura per il dominio di un corpo maschile avulso dall’eros, tende a slittare verso le diversità indifferenti, differenze che si ignorano (terreno fertile per la violenza nichilista).
La donna non può aspettarsi nulla di buono da una società di questo tipo: può solo sottomettersi o imitare l’uomo.
A volte, fatale necessità, le capita di essere uccisa.