Gli assassini seriali e le loro emozioni

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18 settembre, 2016 - 11:15
“Ci si sbaglierà raramente, attribuendo le azioni estreme alla vanità,
quelle mediocri all’abitudine
e quelle meschine alla paura.”
Friedrich Nietzsche.

Dentro ai “meccanismi di difesa”.
Con il termine meccanismo di difesa ci riferiamo a un’operazione mentale che avviene per lo più in modo inconsapevole, la cui funzione è di proteggere l’individuo.
Proteggerlo da cosa? Secondo la teoria psicoanalitica classica, tali dinamiche si manifesterebbero sia in modo inconscio che consapevole nel caso in cui l’io dell’individuo di fronte a una situazione che genera un’angoscia insostenibile ricorre a varie strategie per fronteggiare tale vissuto emotivo, con lo scopo di escludere dalla coscienza ciò che è ritenuto inaccettabile e pericoloso tra cui pensieri, impulsi o desideri (Cramer,1998). Questi meccanismi diventano patologici solo quando funzionano come reazioni automatiche indifferenziate e disadattive, limitano lo sviluppo dell’Io e non hanno una reale utilità.
È l’angoscia a innescare il processo che produrrà i meccanismi di difesa, poiché agisce come segnale della presenza di pericoli esterni o interni che minacciano l’Io che poi mobiliterà le proprie difese. Ogni fase dello sviluppo mentale è caratterizzata da una particolare angoscia: quella della nascita, di separazione, di castrazione, del sentimento di colpa, della morte.
Ogni essere umano utilizza quotidianamente e in modo combinato tali meccanismi per non farsi travolgere da questi sentimenti così dolorosi ed evitare gli effetti distruttivi di traumi ed eventi negativi che, altrimenti, provocherebbero un’interruzione del senso di continuità e unicità connesso alla percezione del Sé e al senso di realtà.
I meccanismi di difesa, quindi, sono creazioni della nostra mente che cerca di proteggere se stessa, il corpo e l’anima da emozioni “catastrofiche”. Prima di procedere all’analisi di alcuni meccanismi di difesa relativi al comportamento dei serial killer, dovremmo essere ben coscienti, anche se ciò può sembrare in contraddizione con quello sopra affermato, che tali dinamiche non si dovrebbe classificare come "patologiche", anche quando il loro utilizzo appare disadattivo o disumano, in quanto la loro funzione conserva il medesimo scopo che ha avuto originariamente nell’infanzia, cioè quello di far fronte sia ad una “difficile” realtà oggettiva, che alle rappresentazioni mentali che da essa ne sono derivate. Paradossalmente, ciò che all’inizio è servito per modulare la distanza tra organismo e ambiente, per comprendere come muoversi nel mondo, per un numero indeterminato di ragioni, tale processo subisce delle modificazioni e, gradualmente, si trasforma producendo comportamenti che non sembrano essere collegati alla situazione esperita. Prendiamo, ad esempio, una semplice esperienza di un bambino, come quella di giocare e sporcarsi con della terra: se questo comportamento venisse costantemente censurato da un adulto significativo, perfino con punizioni corporee, tale evento avrebbe grandi probabilità di alterare le sue modalità di approccio con l’ambiente, divenendo gradualmente una fobia per la sporcizia. Questo vissuto, che nasce come esperienza “creativa” con l’ambiente esterno, attraverso l’interiorizzazione della punizione, e delle emozioni ad essa collegate (paura/angoscia della punizione, odio verso il genitore e rimozione di quest’ultimo), diviene una rappresentazione mentale dell’evento, un vissuto psichico; l’idea di sporco fondendo tra loro tutti questi elementi diverrà un unico nucleo energetico, unendo il fuori e il dentro. Lo sporco del mondo coinciderà con quello della psiche, e viceversa, senza poter essere separato successivamente. Lo “sporco” diviene il simbolo che unisce tutto, sia il vissuto cognitivo che quello emotivo. È la somma di tutte le esperienze che ci edifica nel bene e nel male: il concreto, il reale, il corporeo, lentamente si trasforma in idea, immagine e scolpisce la nostra mente rendendola unica e originale. Ognuno di noi compie e ha compiuto tali trasformazioni e l’espressione di tali modalità, che di volta in volta utilizziamo approcciandoci all’altro e all’ambiente, rappresentano e costituiscono il nostro stile di vita.
Il nostro comportamento, da quello più apprezzabile al più “disumano”, è il risultato di una combinazione di chimica, biologia, educazione e cultura, che al momento non è ancora stato compreso.
Noi siamo fatti di dinamiche che operano in modo istantaneo, complesso e imprevedibile e spesso completamente originale; di più, noi siamo queste dinamiche. È l’incontro tra le cose del mondo e l’uomo a produrre atteggiamenti, modalità che prima esistevano soltanto in potenza, e tutto ciò in risposta all’assurdo, alle difficoltà inimmaginabili che vive la persona in modo più o meno consapevole, soprattutto quando incontra l’altro. Se il comportamento umano è, dunque, l’insieme di dinamiche psicoemotive consce ed inconsce, per quanto riguarda gli assassini seriali, persone che commettono azioni reputate crudeli, mostruose e inammissibili dalla società, l’angoscia da cui si proteggono è più intensa rispetto a quella di persone normali? La loro “sensibilità” potrebbe essere maggiore, proprio perché più di altri hanno interiorizzato tali crudeltà? La loro capacità di discernimento, per ragioni bio-psico-sociali, potrebbe essersi trasformata, guidata da un’empatia negativa, per adattarsi ad un contesto “capovolto” eticamente o, addirittura, nasce dal desiderio di modificare una realtà “insufficiente” per tali personalità? Tutto questo, può considerarsi “patologia”?
 
L’assassino seriale
 
L’assassino seriale, dunque, come ogni altra persona, utilizza dei meccanismi di difesa, che lo proteggono dalla percezione o da sentimenti per lui troppo dolorosi.
Ma quali sono quelli più comunemente utilizzati da queste persone?
La proiezione, ad esempio, è uno di questi.
Essa consiste nel mettere in un’altra persona alcuni aspetti non riconosciuti del Sé, durante un conflitto emotivo oppure in una situazione di forte stress. Il pensiero paranoico è tipico dell’assassino seriale, che proietta sulle potenziali vittime quegli aspetti che non vuole riconoscere come facenti parte della sua personalità.
Un secondo meccanismo è l’identificazione, che fa parte dei meccanismi fisiologici di costruzione dell’Io in ogni forma di educazione; può trasformarsi in meccanismo di difesa patologico lì dove vi è imitazione servile, oppure nella perversione sadomasochista in cui si verifica l’identificazione proprio con ciò di cui si ha paura e che si vorrebbe sopprimere: l’aggressore.
L’identificazione proiettiva è un processo che si sviluppa in tre fasi:
  • il soggetto si libera di aspetti indesiderati del Sé;
  • le parti indesiderate sono depositate in un altro;
  • attraverso l’“altro”, il soggetto recupera un versione modificata di quanto è stato proiettato.
Rispetto alla semplice proiezione, che è sempre accompagnata da un senso di “estraneità”, l’identificazione proiettiva è caratterizzata dal senso di “essere tutt’uno con l’altro”, anche se, spesso, le due difese fanno la loro comparsa in contemporanea.
I processi di scissione permettono al bambino di rimanere in contatto con la propria figura di riferimento reprimendo i sentimenti di rabbia distruttive che hanno origine dalle ferite narcisistiche. I sentimenti di rabbia e distruttivi scissi, insieme ai ricordi dolorosi che vi sono associati, si spostano nella sfera inconscia, dove rimangono fino a quando le strutture psicologiche difensive sono in grado di mantenere la scissione.
Ogni essere umano sente il bisogno fondamentale di essere importante per se stesso e anche per qualcun altro. L’assassino seriale ha questa stessa esigenza, ma, di solito, non riesce a realizzarla nei rapporti normali e quindi ha bisogno di usare metodi non convenzionali per raggiungere l’obiettivo.
Con i meccanismi della dissociazione e della rimozione, un particolare affetto o impulso, di cui il soggetto non è consapevole, agisce al di fuori della coscienza (dissociazione), oppure il soggetto ne è consapevole e coscientemente lo isola in un angolo nascosto della sua personalità (rimozione). Il materiale dissociato e\o rimosso viene vissuto dall’individuo come troppo minaccioso, ansiogeno conflittuale o per essere integrato nell’esperienza conscia (traumi ripetuti subiti durante l’infanzia).
La negazione viene utilizzata dal soggetto per negare attivamente che un sentimento o un’intenzione sia stata o sia presente e che una determinata azione sia mai stata compiuta da lui, anche se risulta evidente a osservatori esterni che il soggetto è responsabile del comportamento in oggetto. La negazione permette di non acquisire coscienza di un fatto psichico che potrebbe causare conseguenze negative. 
La razionalizzazione viene usata per fornire una ragione fittizia, ma plausibile, per una certa azione o impulso, mentre la motivazione reale è tutt’altra e molto evidente a un osservatore esterno. Questo meccanismo di difesa è sempre molto ben costruito e plausibile e rappresenta un prodotto della capacità di manipolazione della realtà del soggetto che la esegue.
 
Dobson:“La pornografia ha alimentato le tue fantasie?”
Bundy:“All’inizio era proprio così. Poi, a un certo punto, ha la funzione di cristallizzarne l’uso, facendo in modo che si trasformi in qualcosa che, quasi quasi, prende la forma di un’entità separata che cresce dentro e s’impossessa di te”
D.:“Prima non ti eri mai accorto di essere capace ad uccidere?”
B.:“Non esiste un modo efficace per descrivere il bisogno brutale di comportarsi in maniera violenta. Conducevo una vita normale, ad eccezione di questo piccolo, ma molto potente, segmento della vita che tenevo nascosto a tutti. Per quanto i miei genitori fossero stati attenti, e loro erano stati attenti a proteggere i loro figli, e per quanto il nostro ambiente familiare fosse stato sereno, non esiste nessun tipo di protezione adeguata per difenderci da questi pericoli in una società che tollera apertamente la diffusione della pornografia”. *
 
Il passaggio sottolineato, ci riporta alla mente ciò che Hannah Arendt definisce “la banalità” del male. Bundy è consapevole di ciò che compie, ed è altrettanto lucido nel comprendere quali siano le spinte istintuali che guideranno il suo agire cosciente ad atti violenti; valuta il suo contesto educativo come normale, sente che ciò che fa non è condiviso socialmente, ma non arriva alla comprensione, al discernimento. La capacità di pensiero che si inserisce tra volontà ed atto, non c’è, non lo libera da un agire, seppur consapevole, coercitivo e tirannico. Proprio in quel tratto, sembra non avere gli strumenti per comprendere completamente ciò che farà. È l’esercizio del pensiero che può renderci liberi di fronte all’agire, trasformando un atto consapevole, in uno etico.
Attraverso il meccanismo della svalutazione, il soggetto pronuncia affermazioni sprezzanti, sarcastiche o comunque negative per riferirsi agli altri, per ottenere un innalzamento della propria autostima. Nella sua forma più grave, la svalutazione può assumere i contorni della depersonalizzazione (o disumanizzazione), nella quale le altre persone perdono, agli occhi del soggetto, le loro caratteristiche umane per diventare dei semplici oggetti. Questi meccanismi di difesa sono usati comunemente dall’assassino seriale che infierisce sulla vittima attraverso mutilazioni.
Un classico esempio su questo tipo di meccanismo lo troviamo in Peter Sutcliffe, meglio conosciuto come “lo squartatore dello Yorkshire”. Dopo aver abbandonato gli studi a 15 anni, trova lavoro in un obitorio dove si diverte a toccare intimamente i cadaveri, a disporli in posizioni grottesche e a usarli come bambole per immaginari discorsi da ventriloquo.
Come meccanismo di difesa l’onnipotenza ha il compito fondamentale di proteggere il soggetto da una perdita di autostima che si verifica tutte le volte che fonti di stress provocano sentimenti di delusione, impotenza, mancanza di valore. L’onnipotenza minimizza soggettivamente queste esperienze, anche se rimangono oggettivamente evidenti per gli altri. É attivamente utilizzata dalla maggior parte degli assassini seriali proprio per combattere il senso di inadeguatezza che li minaccia dall’interno.
L’acting out, traducibile con l’espressione “passaggio all’atto impulsivo, permette al soggetto di esprimere sentimenti, desideri o impulsi mediante un incontrollato che non tiene conto delle conseguenze a livello personale o sociale. Questo meccanismo ha una funzione di scarico dell’aggressività accumulata e, fino a quel momento, tenuta a bada tramite la repressione.
Il soggetto che effettua il passaggio all’atto non tenta di elaborare una strategia più costruttiva per affrontare la fonte di tensione e, nel caso dell’assassino seriale, esprime semplicemente i suoi impulsi primitivi di tipo aggressivo e\o sessuale, senza preoccuparsi delle conseguenze.
Gli studi ci dicono che a seconda delle circostanze, alcuni comportamenti aiutano queste persone a rimuovere il senso di colpa, negare la responsabilità per determinate azioni o spostare la responsabilità su terzi. Ma tutto ciò avviene anche ad ognuno di noi durante la nostra vita normale.
E allora, quali sono le maggiori differenze tra le dinamiche utilizzate dai serial killer e quelli della gente comune? È la loro crudeltà a determinarne la “gravità” e quindi la patologia? Tali comportamenti sono considerati più patologici perché causano dolore gratuito e la morte dell’altro, o perché provocano piacere per chi le provoca? Queste dinamiche, al di là dei principi morali, sono adattivi o disattivi? Questi interrogativi ed altri saranno affrontati e approfonditi in altri articoli che riguarderanno oltre l’aspetto psicologico, quello etico di queste esperienze.

 
Bibliografia
Aristotele, (2000), Etica Nicomachea, a cura di C. Mazzarelli, Milano, Bompiani.
Freud A., (2012), L'io e i meccanismi di difesa, Firenze, Giunti Editore
*Harold Schechter, The Serial Killers Files. The Who, What, Where, How, and Why of the World’s Most Terrifying Murderers, New York, Ballantine Books, 2003, pp. 266-268.
Nietzsche F., (20034), Ecce homo, Roma, Newton.
V. Mastronardi e R. De Luca, I Serial Killer, Newton Compton editori, 2014.

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