La psicoanalisi è un processo psicologico dinamico che coinvolge due persone, il paziente e lo psicoanalista, durante il quale il paziente insiste nel mantenere l’analista in una posizione relazionale «one-up» mentre tenta disperatamente di metterlo «one- down», e durante il quale l’analista insiste che il paziente rimanga «one-down» per aiutarlo a divenire «one-up»[2]. L’obiettivo della relazione è una separazione amichevole dell’analista e del paziente.
Tutti e due i soggetti coinvolti nella relazione si pongono necessariamente i seguenti problemi: a) che tipo di messaggi e di comportamento può aver luogo in questa relazione, e b) chi controlla ciò che può accadere nella relazione e quindi chi controlla la definizione della relazione.
Naturalmente un simile atteggiamento non riguarda solo la relazione paziente/analista. In qualsiasi relazione umana una persona manovra costantemente per fare in modo di essere in una «posizione superiore» nei confronti dell’altra persona coinvolta nella relazione. Ma non si tratta di una superiorità di status sociale od economica, né intellettuale. Essa è qualcosa che viene definita e ri-definita dalla relazione nel suo farsi. Le mosse relative per raggiungere una posizione superiore possono essere scoperte o infinitamente sottili.
Tutti, quindi, sono continuamente impegnati a definire la propria relazione o a rispondere alla definizione dell’altro. Tuttavia, dall’importanza che una persona dona al controllo della relazione si può comprendere il suo essere o meno una potenziale candidata alla psicoterapia. Non è patologico in sé il tentare di avere il controllo della situazione, tutti lo facciamo, ma quando una persona tenta di ottenere quel controllo mentre lo nega, allora può divenire patologico.
Tuttavia, il contesto della relazione psicoanalitica, appositamente studiato con molta cura, rende la posizione superiore dell’analista praticamente invincibile. Innanzitutto, il paziente deve rivolgersi volontariamente all’analista per essere aiutato, ammettendo così la sua posizione inferiore fin dall’inizio del processo. Inoltre, l’onorario dell’analista accentua ulteriormente la posizione «one-down» del paziente. È veramente un miracolo che un paziente, che parte da una posizione così debole, possa mai raggiungere la posizione «one-up» nei confronti dell’analista. Tuttavia, i pazienti possono essere estremamente abili ed usare una tale varietà di «mosse relazionali» o, meglio, «ploy» cioè trucchi che danno un vantaggio nella relazione, che occorre essere sempre molto pronti per mantenere la posizione superiore.
Introduco a questo proposito il concetto di Funzione Narcisistica[3] consapevole del sé del Terapeuta (FNT). Esplicito cosa intendo con FNT. Definisco “funzione” come una delle varie strutture esperienziali possibili del sé, come categoria di decodificazione dell’esperienza in un modo coerente ed integrato. Nella fattispecie con Funzione Narcisistica del Terapeuta intendo la capacità propria dell’analista di relazionarsi con l’ambiente, il paziente, in maniera tale da mantenere e, a volte, ri-stabilire la propria posizione superiore («one-up»).
La FNT si rappresenta quindi in termini di capacità volitiva e decisionale del sé dell’analista, come parte attiva e intenzionale che opera delle scelte identificandosi con alcune parti del campo e rifiutandone altre. In particolare rappresenta la capacità creativa del sé dell’analista che agisce tenendo conto delle informazioni derivanti dall’ambiente in relazione al contesto della relazione. Deriva dal sistema di atteggiamenti che l’analista ha assimilato durante il training e l’analisi personale, riguardando il formarsi della responsabilità a seguito degli apprendimenti avvenuti. Essa è compresa nei cambiamenti della crescita personale e di analista. Naturalmente la FNT può essere declinata in diversi modi che corrono lungo il continuum di autorità-comprensione.
La FNT si contrappone alla Funzione Narcisistica inconsapevole del sé del Paziente (FNP) presente in tutti i pazienti con sintomi psicopatologici. Come infatti è stato evidenziato da Medri ogni paziente ha una componente narcisistica[4]. Il sintomo psicopatologico, come è stato evidenziato dalle correnti più marcatamente sistemico-relazionali, dona potere all’interno della relazione, configurandosi, quindi come una vera e propria tattica relazionale, seppure non consapevole e che provoca intensa sofferenza.
Ma facciamo un passo indietro. Fin dalle primissime fasi dello sviluppo della psicoanalisi fu chiaro che l’analista aveva bisogno di un rinforzo del contesto per far si che l’analista potesse rimanere «one-up» nei confronti di pazienti anche più abili di lui. Un primo rinforzo fu l’uso del lettino[5]. Tuttavia, sistemando il paziente sul lettino l’analista gli dà la coscienza di avere i piedi per aria, mentre l’analista è uno con i “piedi per terra”. Il paziente, quindi, non è solo disorientato per il fatto di dover stare sdraiato mentre parla, ma si trova letteralmente al di sotto dell’analista, in modo che la sua posizione «one-down» è anche spazialmente sottolineata. Inoltre, l’analista si mette dietro al lettino da dove può osservare il paziente senza essere visto: questo “privilegio” richiama l’onnipotenza divina, il poter vedere senza essere a sua volta visti! Questa situazione dà al paziente quel genere di sensazione di disorientamento che si prova quando si lotta bendati: impossibilitato a vedere quali reazioni provocano i suoi «ploy», non sa quando è «one-up» e quando è «one-down». Alcuni pazienti cercano allora di risolvere questo problema dicendo frasi del tipo: «Ho dormito con mia sorella l’altra sera», voltandosi quindi di scatto per vedere come reagisce l’analista. Tuttavia, questi «ploy» ad effetto di solito mancano il bersaglio. L’analista può, difatti, trasalire, ma ha il tempo per riprendersi prima che il paziente possa voltarsi del tutto per vederlo. Inoltre, molti analisti hanno escogitato per mezzo della loro FNT dei sistemi per fronteggiare i pazienti che si voltano: guardano nel vuoto, scarabocchiano con la matita ecc. Ciò che è fondamentale comunque è che quei pochi pazienti che riescono ad avere l’opportunità di osservare l’analista possano cogliere solo un atteggiamento impassibile. La posizione dietro al lettino serve anche ad un altro scopo. Inevitabilmente tutto quello che l’analista dice acquista più importanza perché il paziente manca di ogni altro strumento per stabilire la sua influenza sull’analista. Il paziente si trova nella condizione di dipendere da ogni parola dell’analista e, per definizione, colui che dipende dalle parole di un altro è «one-down».
Ma forse l’arma più potente dell’arsenale dell’analista è l’uso del silenzio. È un’arma che rientra nella categoria dei «ploy di impotenza» e di «rifiuto di lottare». È impossibile vincere una lotta con un avversario impotente poiché, anche se si vince, non si vince niente. Tutti i colpi rimangono senza risposta così che tutto quello che si può provare è solo un senso di colpa per aver colpito, mentre nello stesso tempo si ha la sgradevole sensazione che l’impotenza sia calcolata. Il risultato è una rabbia e una disperazione represse, due emozioni che caratterizzano la posizione «one-down». Il problema che si pone al paziente è il seguente: come posso divenire «one-up» nei confronti di un uomo che non reagisce e che non lotta con me per conquistare la posizione superiore in uno scontro leale ed aperto? I pazienti trovano naturalmente delle soluzioni, ma ci vogliono mesi, anni di analisi prima di riuscire a trovare il sistema per forzare l’analista a rispondere. Di solito il paziente inizia in modo piuttosto rozzo, guidato dalla sua FNP con una frase del tipo: «Qualche volta penso che lei sia stupido». Aspetta poi che l’analista reagisca per difendersi, passando così alla posizione «one-down». Ma l’analista risponde, grazie alla sua FNT, con il «ploy» del silenzio. Il paziente si spinge oltre e dice: «Sono sicuro che lei sia stupido». Ancora nessuna risposta. Disperato ripete: «Ho detto che lei è uno stupido, accidenti, lo è veramente!». Di nuovo silenzio. Che cosa può fare il paziente se non scusarsi, passando così volontariamente in una posizione «one-down»? Spesso un paziente scopre quanto sia efficace il «ploy» del silenzio e prova ad usarlo. Tuttavia, anche questo tentativo è destinato a fallire quando si accorge che paga X euro all’ora per stare sdraiato su un lettino in silenzio. Il contesto psicoanalitico è appositamente strutturato per evitare che i pazienti utilizzino i «ploy» dell’analista per ottenere la stessa posizione, sebbene sia una parte importante del trattamento che il paziente impari ad usarli efficacemente con gli altri. Pochi miglioramenti sono stati apportati al brillante modello originale di Freud in merito all’uso dei «ploy». Come l’uso del martello non può essere migliorato dal falegname, così l’uso del paziente volontario, il pagamento dell’onorario, la posizione dietro al lettino e il silenzio sono stratagemmi che non sono stati migliorati da chi esercita la psicoanalisi.
Sebbene non si possano elencare qui tutte le maniere di gestire il paziente appresi dagli analisti, possiamo accennare ad alcuni principi generali. Inevitabilmente, un paziente che entra in analisi inizia ad utilizzare i «ploy» che lo avevano messo «one-up» nelle sue precedenti relazioni: questo è chiamato un modello nevrotico. L’analista impara a distruggere, con l’uso della sua FNT, queste manovre del paziente; un modo molto semplice, per esempio, è rispondere impropriamente a ciò che dice il paziente. Questo lo costringe a dubitare di tutto quello che aveva imparato nelle relazioni con gli altri. Il paziente accompagnato dalla sua FNP può dire «Tutti dobbiamo essere sinceri», sperando che l’analista sia d’accordo con lui e che quindi segua la sua linea, perché colui che segue la linea di un altro è «one-down». L’analista può rispondere con il silenzio, un «ploy» piuttosto debole in questa circostanza, oppure può dire «Eh?» con un’ inflessione tale da significare: «come può aver pensato una cosa simile?». Questo non solo mette in dubbio il paziente sulla propria affermazione, ma anche su quello che l’analista vuol dire con quell’ Eh? Il dubbio è, naturalmente, il primo passo verso la posizione «one-down». Il paziente tende così ad appoggiarsi all’analista per risolvere il dubbio, difatti ci si appoggia a coloro che sono superiori a noi. Le mosse riguardanti al far sorger il dubbio in un paziente sono utilizzate fin dall’inizio dell’analisi. Ad esempio, l’analista può dire: «mi domando se questo è veramente quello che sente». L’uso di questo avverbio è di prammatica nella pratica analitica; implica che il paziente ha delle motivazioni di cui non è cosciente. Chiunque si sente turbato, e perciò «one-down», quando si insinua questo sospetto nella sua mente.
Il dubbio è legato al «ploy dell’inconscio», nucleo centrale dell’analisi perché è il modo più efficace per rendere il paziente insicuro di sé. Fin dall’inizio del percorso terapeutico l’analista fa notare al paziente che in lui operano processi inconsci con i quali egli inganna e sabota se stesso. Quando il paziente accetta questa idea può contare solo sull’analista perché gli dica o, meglio, “lo aiuti a scoprire” ciò che veramente vuole. Così affonda sempre più nella posizione «one-down», rendendo semplice all’analista di «parare» più o meno tutti i «ploy» che riesce ad escogitare. Ad esempio, il paziente può raccontare – condotto dalla sua FNP – come sia stato bene con la sua ragazza, sperando di far sorgere una certa gelosia – emozione «one-down» – nell’analista. La risposta dell’analista, dettata dalla sua FNT, allora sarà: «mi domando che cosa quella ragazza veramente significhi per lei», facendo sorgere il dubbio nel paziente se egli ha una relazione con una ragazza chiamata Carmen o con un simbolo inconscio. Inevitabilmente, si rivolge all’analista perché lo aiuti a scoprire che cosa rappresenti per lui quella ragazza. Solitamente nel corso di un’analisi, in particolare quando il paziente diventa indocile – usa «ploy» di resistenza – l’analista ricorre alla libera associazione e al racconto dei sogni. Ora, una persona deve avere la coscienza di sapere di cosa sta parlando per sentirsi in una posizione superiore; tuttavia, nessuno può fare delle mosse per divenire «one-up» mentre associa liberamente o racconta i suoi sogni. Capita, quindi, di dire le frasi più assurde, allo stesso tempo l’analista suggerisce che ci sono delle idee significative. Questo non solo dà al paziente la sensazione che stia dicendo delle cose ridicole, ma che stia dicendo delle cose in cui l’analista trova un significato e lui no. Un’esperienza di questo tipo sconcerta chiunque ed inevitabilmente mette il paziente in una posizione «one-down». Naturalmente se il paziente rifiuta di associare liberamente o di raccontare i suoi sogni, l’analista gli ricorda che danneggia se stesso con le sue resistenze.
Un’interpretazione della resistenza rientra nella classe generica dei «ploy» chiamati «rivoltare le cose contro il paziente». Tutti i tentativi, in particolare quelli che riescono a mettere l’analista «one-down», possono essere interpretati come una resistenza al trattamento. Al paziente si fa sentire che è per colpa sua se la terapia sta andando male. Preparandosi attentamente il terreno fin dall’inizio con il diligente utilizzo della sua FTN, l’analista esperto informa il paziente già nella prima seduta che la strada per la felicità è difficile, che a egli tenterà di impedire il miglioramento e che potrà persino risentirsi con l’analista per il fatto che lo aiuta. Con questa premessa anche un rifiuto di pagare l’onorario o una minaccia di interrompere l’analisi possono trasformarsi in richieste di scuse poiché l’analista risponde con un atteggiamento impersonale – il «ploy di non farne un fatto personale» – e con un’interpretazione delle resistenze. A volte l’analista può fare in modo che il paziente rientri nella posizione «one-down» facendogli gentilmente notare che la sua resistenza è un segno di progresso e che un mutamento sta avvenendo in lui. La principale difficoltà con la maggior parte dei pazienti è la loro insistenza nell’affrontare l’analista direttamente una volta che hanno iniziato ad avere una certa fiducia. Quando il paziente inizia a rivolgersi criticamente all’analista e a minacciare uno scontro aperto, vengono inseriti numerosi «ploy» di distrazione, sostenuti dalla FTN. Il più comune è il «ploy di concentrazione sul passato». Se il paziente si mette a discutere lo strano modo in cui l’analista si rifiuta di rispondergli, utilizzando la FNT, l’analista gli chiederà: «mi domando se lei ha avuto questi sentimenti prima d’ora. Forse i suoi genitori non le davano molte risposte». Ben presto saranno occupati a discutere dell’infanzia del paziente senza che questi neanche si accorga che si è cambiato argomento. Un «ploy» di questo tipo è particolarmente efficace quando il paziente inizia ad utilizzare quello che ha imparato durante l’analisi per fare commenti all’analista.
Durante il training, il giovane analista apprende le regole che deve seguire. La prima è che è essenziale fare in modo che il paziente si senta «one-down» mentre lo si incita a lottare strenuamente nella speranza di divenire «one-up»: questo è chiamato transfert. Secondariamente l’analista non deve mai sentirsi «one-down»: e questo è chiamato controtransfert. Il training è creato per aiutare il giovane analista a capire che cosa significa fare l’esperienza della posizione «one-down». Agendo, difatti, come un paziente egli impara a capire che cosa significhi ideare un «ploy», utilizzarlo con abilità e trovarsi in una posizione completamente «one-down»». Tuttavia, nonostante la brillante costruzione analitica e l’arsenale dei «ploy» imparati nel corso del training, tutti gli uomini sono essere umani, ed essere un essere umano significa proprio trovarsi, a volte, in posizione «one-down». Il training mette in evidenza però come uscire al più presto dalla posizione «one-down» una volta che ci si è capitati. Tuttavia la regola generale quando non si può uscirne è accettare la posizione «one-down» volontariamente. Di fronte al paziente «one-up», l’analista può dire: «Qui lei ha guadagnato un punto», oppure: «Devo ammettere che ho commesso un errore». L’analista più spregiudicato dirà: «Mi domando come mai mi sono sentito un po’ in ansia quando lei ha detto quella cosa». Ma è importante notare che tutte queste frasi sembrano mostrare che l’analista è «one-down»» e il paziente «one-up», in realtà la posizione «one-down» richiede un comportamento difensivo. Quindi, riconoscendo deliberatamente la sua posizione inferiore l’analista di fatto mantiene la posizione di superiorità e il paziente deve riscontrare che una volta ancora il suo «ploy», per quanto abile, è stato neutralizzato con un «ploy» di impotenza o di rifiuto di dare battaglia[6]. A volte, però, la tecnica dell’ «accettazione» non può essere usata perché l’analista è troppo sensibile nei confronti di un certo argomento. Se un paziente scopre che il suo analista si sente a disagio se si discute, ad esempio, di problemi omosessuali, egli può rapidamente sfruttare la situazione. L’analista che prende come attacchi personali i commenti del paziente è perduto. La sua sola possibilità di sopravvivenza è quello di riconoscere, nel corso dei primi quattro-cinque incontri diagnostici, i pazienti capaci di scoprire e sfruttare queste sue debolezze e di inviarli ad un analista con debolezze diverse.
Ma l’etica della psicoanalisi richiede che al paziente sia onestamente concessa almeno una ragionevole possibilità di difesa. I «ploy» che distruggono il paziente sono guardati con sospetto ed antipatia: si ritiene che gli analisti[7] che li usano abbiano loro stessi bisogno di un’analisi supplementare, perché possano acquisire una più vasta gamma di «ploy» corretti e una maggiore perizia nel loro uso, ovvero sono deficitari nella loro FNT. Ad esempio, non è considerato corretto incoraggiare un paziente ad discutere un argomento per mostrarsi poi indifferenti. Questo pone il paziente «one-down», ma è una mossa a vuoto perché egli non stava provando a conquistare una posizione «one-up». Se il paziente facesse un tentativo in questo senso, allora, naturalmente, il non mostrare interesse può essere un trucco necessario.
Un’altra variante dei «ploy» psicoanalitici ortodossi scopre alcuni dei loro limiti. Lo psicotico si dimostra continuamente superiore ai «ploy» ortodossi: rifiuta la volontarietà dell’analisi; non ha interesse significativo verso i soldi; non rimane tranquillamente sdraiato sul lettino a parlare mentre l’analista sta fuori dal suo campo visivo ad ascoltarlo. La struttura della situazione analitica sembra irritare lo psicotico; infatti quando vengono usati contro di lui i «ploy» ortodossi è probabile che butti all’aria lo studio e prenda l’analista a calci nei genitali (questa è definita incapacità a stabilire rapporto di transfert). L’analista in genere si sente a disagio con i «ploy» dello psicotico e perciò evita questi pazienti. Tuttavia, recentemente alcuni terapisti particolarmente coraggiosi hanno scoperto che si può essere «one-up» con un paziente psicotico se si lavora in coppia. Si tratta della terapia definita “ce ne vogliono due per mettere sotto uno” o “terapia multipla”, nella quale vengono messe in campo allo stesso tempo due FTN. Ad esempio, nel caso di uno psicotico che parla in modo compulsivo senza mai fermarsi ad ascoltare, i due terapisti entrano in stanza e iniziano a conversare fra loro. Incapace di vincere la curiosità – un’emozione «one-down» – lo psicotico interrompe il suo discorso ed ascolta, ponendosi quindi nella posizione di essere messo «one-down»[8].
Ma cosa accade quando gli analisti, così abili a porsi in una posizione di supremazia, si incontrano e si trovano a competere fra loro nelle varie associazioni? È probabile che nessun altro incontro tra persone ha permesso di vedere all’opera un così alto numero di complicati metodi per ottenere la supremazia. La maggior parte degli scontri che si verificano nelle riunioni degli psicoanalisti ha luogo ad un livello piuttosto personale, ma il contenuto palese comporta tentativi di dimostrare 1) chi è più fedele a Freud o chi riesce a citarlo di più e 2) chi può confondere un maggior numero di persone con la propria audace estensione della terminologia freudiana. Colui che riesce meglio a raggiungere entrambi questi obiettivi viene di solito eletto presidente dell’associazione. La manipolazione del linguaggio è il fenomeno più sorprendente di un incontro psicoanalitico. Quando gli analisti si impegnano in furiose discussioni teoriche i termini più oscuri vengono definiti e ridefiniti con termini ancora più oscuri; e questo particolarmente quando il punto in discussione e se un certo trattamento è o non è psicoanalitico.
Quello che accade tra analista e paziente, cioè l’arte della supremazia attraverso l’uso attento e diligente della FNT, raramente è discusso nel corso di queste riunioni. Anche il più abile e preparato analista fa subito esperienza di una marea di sensazioni non appena si perde nel turbinio delle teorie sull’energia, degli impulsi libidici, delle forze istintuali e delle barriere del Super-Io. L’analista che più degli altri riesce a confondere il gruppo lascia i suoi colleghi in preda a sentimenti di frustrazione e di invidia – emozioni «one-down».
Riassumendo i tipici «ploy» che si presentano man mano in un trattamento analitico. I casi individuali variano a seconda delle tattiche adottate dai singoli pazienti – esse sono chiamate sintomi dall’analista quando si tratta di «ploy» che nessuna persona ragionevole userebbe – ma è possibile individuare una tendenza generale. Il paziente inizia la psicoanalisi in una posizione «one-down» perché chiede aiuto e, avvalendosi della sua FNP, subito cerca di mettere il terapeuta «one-down» esaltandolo (fase della luna di miele dell’analisi). Ma l’analista esperto non si lascia incastrare in queste manovre – conosciute come «ploy di resistenza rechiana». Quando il paziente si accorge che rimane sempre «one-down», adoperando la sua FNP cambia tattica: diventa meschino, inizia ad insultare l’analista, a minacciare di interrompere il trattamento e a mettere in dubbio la sanità dell’analista. Questi sono i «ploy» detti «tentativi di ricevere una risposta a livello umano». Essi si scontrano con un muro passivo frutto della FNT, dato che l’analista rimane in silenzio oppure risponde agli insulti dicendo: «Ha notato che questo è il secondo martedì che mi fa questa osservazione? Mi domando cosa ci sia a proposito del martedì»; oppure: «Mi sembra che lei reagisca verso di me come se io fossi qualcun altro». Frustrato nel suo comportamento aggressivo – i «ploy» di resistenza – il paziente si arrende e cede apertamente il controllo della situazione all’analista. Di nuovo esaltando l’analista, egli insiste sulla propria debolezza e sulla propria forza e aspetta il momento di distruggerlo con un «ploy» più abile. L’analista esperto gestisce queste gentilezza con una serie di «ploy accondiscendenti», sottolineando che il paziente deve aiutarsi da solo e che non deve aspettarsi che qualcun altro risolva i suoi problemi. Furioso, il paziente passa di nuovo dalla sottomissione alla provocazione, spinto dalla sua FNP. Questa volta ha, tuttavia, imparato le tecniche dell’analista ed è più bravo; utilizza l’«insight» – «ploy» sconosciuto ai profani – acquisito fin qui, tentando con ogni mezzo di definire la relazione in modo che l’analista sia «one-down». Questa è la fase difficile dell’analisi. Tuttavia avendo imparato con cura il terreno con una diagnosi accurata (in cui ha elencato i punti deboli), ed avendo instillato nel paziente una serie di dubbi su di sé, l’analista riesce ogni volta a controbattere il paziente man mano che passano gli anni.
Alla fine accade un fatto degno di nota: il paziente, quasi per caso, cerca di porsi «one-up», l’analista lo rimette «one-down», ma il paziente non si mostra turbato da questo fatto, egli ha raggiunto uno stadio in cui in realtà non gli importa molto se è l’analista ad avere il controllo della relazione (in altre parole ha risolto l’Edipo!). L’analista allora pone fine al trattamento attuando questa mossa prima che il paziente annunci la sua intenzione di terminare l’analisi[9]. Dopo aver guardato la sua lista d’attesa, l’analista chiama un altro paziente che, per definizione, è un individuo costretto a lottare per essere «one- up» e che ha dei problemi se viene messo «one-down». Così va avanti il quotidiano mestiere dell’analista, nella difficile l’arte della psicoanalisi ovvero l’arte della supremazia, considerato che… “commannari è mugghi ri futtiri!”.
Nota bibliografica
– Halley J., Le strategie della psicoterapia, Sansoni, Firenze, 1974.
– Watzlawick P. et al., La pragmatica della comunicazione umana, Astrolabio, Roma 1971.
Necessario risulta, inoltre, contestualizzarne la cornice teorica di riferimento (es: narcisismo di Freud, di Kernberg, di Kohut, ecc., ecc.) o accompagnarlo con altre specificazioni per meglio chiarirlo e definirlo (narcisismo di vita, di morte, narcisismo sano, narcisismo patologico, ecc.).
Un’altra figura interessante che contrasta con quella del Toro e rappresenta un classico esempio di declinazione della FTN sul versante della comprensione è quella di una donna conosciuta come «l’amabile padrona di casa». Il suo stile consiste nel raggiungere una posizione di superiorità con gli psicotici in modo sottile, evitando le tattiche utilizzate dal Toro, che sono spesso considerate piuttosto violente e non sempre di buon gusto. Per esempio, se un paziente insiste col dire di essere Dio, il Toro risponderà sostenendo che è lui Dio, costringendo il paziente ad inginocchiarsi davanti a lui e conquistando così la posizione «one-up», in maniera piuttosto rozza e sbrigativa (in certi casi i confini tra una FNT e FNP – cioè non sana – non sono così chiaramente distinti ma labili e sfumati, verrebbe da dire!) Per controbattere un’affermazione del genere la «padrona di casa» invece sorride e dice: «Va bene, se lei desidera essere Dio, glielo permetterò». Il paziente viene delicatamente messo in posizione «one-down» quando si rende conto che nessun altro all’infuori di Dio può permettere a qualcuno di essere Dio.
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