La rappresentazione che abbiamo del mondo, il nostro modo di rendere il rapporto con esso sensato, comprensibile e attendibile, decide della nostra possibilità di abitarlo e usarlo ricavando soddisfazione e benessere.
Questa rappresentazione non si costruisce in modo rigorosamente scientifico (la scienza ne é solo una parte) né con l’aiuto di tecniche appositamente pensate. Può essere costruita in relazione stretta con la nostra reale esperienza di vita, che trascende l’“ordine del simbolico”. In tal caso rispetta il “non so che” delle cose vissute, che eccede la nostra capacità di significazione e le conferisce un carattere sperimentale (nel doppio senso di sperimentare e di esperire).
Quand’è così, la nostra rappresentazione del mondo è fatta della materia dei nostri sogni, delle nostre emozioni e dei nostri desideri più profondi. Si radica nella “meraviglia” dei nostri sentimenti -il loro essere esposti all’attesa, la sorpresa, la scoperta- è una visione rigorosa, autentica della realtà. Non disdegna la sofferenza, che trasforma in apprendimento e conoscenza; lega la mancanza con la passione e l’amore con l’odio e rende solido, interessante e avvincente il rapporto con la realtà e il suo uso.
Diverso è il caso in cui la nostra concezione del mondo elude l’imprevisto, il non ancora definito, il divenire che ha direzione ma non un approdo predeterminato. Più che rappresentare la realtà a partire dall’esperienza vera e in accordo con essa, cerchiamo di racchiuderla in schemi di lettura che restringono il rapporto con essa nel campo di una prevedibilità assoluta e difensiva. Viviamo nella luce artificiale della “caverna”, ma per motivi opposti a quelli ipotizzati da Platone: l’idea sostituisce la vita realmente vissuta, piuttosto che cogliere le configurazioni essenziali del suo fluire.
Il prevalere di questa seconda modalità di rappresentazione del mondo determina il nostro andare verso la stagnazione. La si può cogliere bene nelle “tendenze” della mentalità collettiva che, acquistando rapidamente consenso, “fanno mercato”. Negli Stati Uniti, la mindfulness, tecnica di miglioramento della propria consapevolezza, (adattamento di una pratica meditativa buddista), sta diventando un affare importante. Com’è stato riportato su NY Times, Google, General Electric, Ford Motor e American Express stanno inviando il loro dipendenti a appositi corsi di suo apprendimento, molto di voga nel management e pagati lautamente.
Generalmente la mindfulness è definita come tipo di consapevolezza che si raggiunge attraverso un elevato livello di attenzione non giudicante ed è orientata a notare i cambiamenti nell’ambiente, esperendoli pienamente in tempo reale. Realizzata nel “qui è ora” dell’esperienza, impedirebbe che schemi rigidi del passato si impadroniscano del presente impedendo la sua apertura a nuovi modi di vedere. Colto nella prospettiva della mindfulness l’essere umano appare senza storia e a-conflittuale, aspirante a una dimensione divina accessibile nella vita terrena. Il miraggio della piena consapevolezza ferma il tempo e le trasformazioni ed è desolatamente chiuso all’esperienza. Le tecniche che lo inseguono sono il prodotto della ricerca di un’esistenza indolente, che elude il patire (il travaglio) e la conoscenza.
Essere creativi richiede la capacità di sospensione dell’attenzione, una certa distrazione dal compito operativo, che consente di essere sorpresi dall’inaspettato. La mindfulness non migliora la creatività lavorativa: crea uno spirito di adesione religiosa all’efficienza produttiva, che evade le domande sul senso della vita.
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