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Scrivere la follia. La storiografia italiana tra le mura del manicomio.

19 Ott 16

Di Fabio-Milazzo
Il manicomio è una grande cassa di risonanza
e il delirio diventa eco
l’anonimità misura,
il manicomio è il monte Sinai,
maledetto, su cui tu ricevi
le tavole di una legge
agli uomini sconosciuta.
 
A. Merini, La terra Santa, 1984
 
 
Storia e psichiatria. Gli inizi
 
Nel 1986[1], Ferruccio Giacanelli, psichiatra, discutendo sui rapporti tra psichiatria e storia afferma che «di sicuro, l’evoluzione recente della psichiatria si è accompagnata a un movimento di crescente interesse per la sua storia»[2]. Tutto ciò a fronte di «una situazione precedente di generale disinteresse e, in definitiva, di vuoto concreto di conoscenze»[3]. A rimarcare ciò Patrizia Guarnieri, in La storia della psichiatria. Un secolo di studi in Italia[4] [1991], sostiene che «fino a venticinque anni fa, chi tentava un bilancio degli studi italiani di storia della psichiatria, approdava ad una sconsolata conclusione. Vuoto, silenzio, o almeno “mancanza di seri e moderni contributi” erano lamentati in disonorevole contrasto con lo sviluppo dei lavori all’estero»[5]. Poche le ricerche svolte, segno evidente di un disinteresse epistemologico da parte della storiografia, più interessata alle vicende politiche e a quelle istituzionali. In verità, come nota Guarnieri, non è tanto l’assenza di studi di settore a far notizia – perché in verità i contributi non sono mancati nel tempo –, quanto la loro rilevanza qualitativa. In altre parole, ciò che salta agli occhi dello studioso è la scarsità di opere di ampio respiro, in grado di decifrare e problematizzare il ruolo della psichiatria in ordine alle vicende politiche e sociali degli ultimi due secoli almeno, e le sue connessioni con la storia della medicina e della scienza in genere. L’assenza di queste opere è il contrassegno più evidente di una storiografia che ha fatto tanta fatica ad occuparsi di ambiti che richiedono competenze e ibridazioni disciplinari, capacità di affrontare generi diversi e problemi non immediatamente inquadrabili come politici e istituzionali. Tutto ciò ha tradizionalmente consegnato lo studio della storia della psichiatria agli psichiatri, più specificamente «medici docenti di storia della medicina all’università, che hanno sostenuto la insuperabile necessità dell’approccio interno alla medicina»[6]. Gli studi prodotti tendono ad essere spesso autocelebrativi, a rappresentare gli alienisti come degli eroi e «il loro sapere sembra una scienza in costante progresso, la pratica una sua diretta applicazione  sempre più avanzata»[7]. Tutti difetti che ci si aspetta di rintracciare in opere realizzate dall’interno, scritte più con lo scopo di giustificare e celebrare che con quello di comprendere e problematizzare. E questo è ancora più valido se consideriamo che la psichiatria italiana, per buona parte del suo percorso delle origini, è una disciplina che cerca di accreditarsi come scienza efficiente in grado di proteggere il corpo sociale dalle sue disfunzioni e degenerazioni. Una scienza in cerca di riconoscimenti, che ambisce a farsi garante della profilassi bio-sociale, è per forza di cose facile preda di pulsioni narcisistiche che sono le peggiori alleati dello spirito di critica verso se stessi. E’ forse questa una delle ragioni che hanno reso così celebrativo e poco problematico la costruzione del passato della psichiatria, così come è stato connotato dagli studi iniziali e dall’approccio degli studiosi provenienti dall’interno della disciplina. La situazione è riassunta efficacemente da Guarnieri:
 
 «All’inizio erano esclusivamente gli alienisti che tratteggiavano un loro passato. C’era chi narrava le proprie memorie; ma per lo più si trattava di allievi che commemoravano i maestri diretti o meno e i loro precursori. Addirittura figli e nipoti scrivevano sui padri di cui avevano seguito la professione; […] Ne risultava una visione del passato prossimo provvista di notizie utili, ma agiografica; spesso limitata ad articoli di poche pagine sugli annuari universitari o per i necrologi delle riviste del settore: non una storia tipica della psichiatria, bensì il riflesso di consuetudini accademiche diffuse in ogni disciplina e con esse sopravvissute»[8].
 
Una psichiatria che celebra il proprio vanto iscrivendo la propria storia in un percorso teleologico che culmina nel pieno riconoscimento di una funzione sociale necessaria: quella anti-degenerativa. In tale ottica può essere letta una delle opere di maggior successo del periodo, L’assistenza degli alienati in Italia e nelle altre nazioni[9] di Tamburini, Ferrari e Antonini, che confronta la situazione tra il Bel Paese e le altre nazioni al fine di sostenere la necessità del rafforzamento del ruolo sociale della psichiatria. Si comprende così fin troppo bene anche il tentativo di svalutare o ridimensionare gli studiosi stranieri, al fine di valorizzare, per contrasto, la produzione scientifica nazionale: «Si “scoprivano” i presunti precursori italiani della mitica psichiatria francese: Valsava, Daquin e Chiarugi venivano eletti a eroi nazionali, anteposti anzi contrapposti a Pinel che ne avrebbe sfruttato di nascosto le idee e usurpato il primato»[10]. Questa situazione conosce un ulteriore, decisivo, rafforzamento durante il Ventennio fascista, durante il quale non soltanto si procede con l’idealizzazione del passato greco-romano ma si cerca, attraverso fantasiose genealogie, di affermare la priorità cronologica – e ontologica – della psichiatria italiana. Isolamento e arretratezza contraddistinguono questa prima fase di studi e, alla fine, il risultato più evidente della scarsa comunicazione tra storici e medici, è quello di un campo di indagine poco e soprattutto male battuto. Tutto ciò almeno fino agli anni Settanta del Novecento, quando la storiografia, anche grazie a nuove generazioni di studiosi più aperti verso campi di sapere non canonici, ha avuto il coraggio di affrontare il tema psichiatria, inserendolo in una rete di connessioni molto ampia che spazia dalla biopolitica agli studi sugli esclusi.
 
Storia e biopolitica
 
Quella degli anni Settanta, per ciò che riguarda gli studi di storia della psichiatria, è stata definita, da Matteo Fiorani, una «cesura» contraddistinta da «un vero e proprio boom di pubblicazioni» [11] sul tema. Da allora, a fasi alterne, ma con sempre maggiore incisività, la storiografia sembra aver deciso di varcare le mura dei manicomi o, per meglio dire, di affrontare i suoi archivi superstiti attraverso le lenti del metodo storico-critico. C’è da dire che fin dall’inizio, medici e alienisti studiosi, accanto alle opere apologetiche sui fondatori e sui presunti precursori della disciplina, hanno mostrato un notevole interesse per i frenocomi, un interesse non critico, piuttosto celebrativo, in linea con la postura metodologica già segnalata. D’altra parte quale spazio più idoneo  per onorare «il progressivo sviluppo tecnico scientifico del proprio manicomio»[12]? Da qui un interesse che non è mai venuto meno e che ha fatto dei manicomi «l’oggetto specifico più consueto negli scritti di storia della psichiatria italiana»[13]. Fondare la psichiatria moderna significa per questi medici-studiosi evidenziare come è mutato lo spazio d’esercizio della loro azione, da qui l’interesse per le «storie degli istituti di cui erano o sarebbero diventati i direttori»[14].
Interessi e moventi diversi hanno dunque prodotto l’attenzione per i frenocomi. Ma per quale ragione a partire dagli anni Settanta si registra quell’incremento di pubblicazioni che fa dire a Fiorani di essere davanti a una cesura? La convinzione di fondo che prende sempre più corpo, più o meno espressa, è che il manicomio, in quanto «istituzione totale»[15], consente di analizzare controluce il funzionamento della società dal punto di vista degli elementi che marginalizza. Più in particolare, analizzare il dispositivo manicomiale
 
«significava fare i conti con un periodo della storia italiana, gli anni sessanta-settanta, nel quale i problemi della psichiatria non furono prerogativa di una ristretta cerchia di specialisti – gli stessi medici che prima della cesura si occupavano della storia della loro disciplina – ma furono posti al centro del dibattito pubblico e politico dal movimento degli studenti e dagli psichiatri riformatori, più o meno radicali. Una fase caratterizzata da “Molta ideologia, forti contraddizioni, semplificazioni e idee confuse che hanno forzato i migliori intendimenti. Ma anche una straordinaria richiesta di sapere – oltreché di interventi immediati sul piano istituzionale […]”»[16]
 
La storia diventa il mezzo d’indagine per validare polemiche e battaglie ideologiche, come quella che riguarda il problema della devianza e degli esclusi. In tale contesto si situano gli studi di Michel Foucault, che ha indagato il «potere psichiatrico» per analizzare la transizione da un regime governamentale[17] «assoluto» a uno di tipo «disciplinare» che – per dirla sempre con lo stesso Foucault – agisce «plasma, modifica e dirige non solo i corpi ma le fibre molli del cervello»[18]. Il classico potere sovrano, quello esercitato attraverso il «divieto» dal re nei confronti dei sudditi, si è trasformato in biopotere, cioè in potere che agisce coinvolgendo il suddito, il suo immaginario, il suo desiderio[19]. Al vecchio esercizio positivo sui sudditi – il potere di vita e di morte –  si sostituisce la pratica di governo indiretta sulla «popolazione» ridotta a entità biologica. Questa politica che si fa carico della vita dei governati prende il nome di «biopolitica». Il tema, per quanto continui ad essere snobbato dagli storici[20], mantiene tutta la potenza suggestiva del problema evocato. Ma di cosa si tratta? Foucault, attraverso la nozione di biopolitica, vuole rendere conto, e problematizzare,  un passaggio epocale nelle procedure governamentali, più precisamente l’azione di politiche disciplinari che agiscono attraverso gli «effetti di verità» [véridiction] prodotti dal gioco dialettico normale/anormale, tra la forma di vita che viene percepita come lecita e il suo contrario. La vita, lungi dall’essere un dato neutro, l’insieme di caratteri distintivi che individuano il soggetto politico – e quindi il modo di governarlo –, è il risultato di politiche di verità artificiali che rappresentano la vera posta in gioco dell’arte di governo: controllare il sapere è la condizione necessaria per esercitare il «governo degli uomini»[21]. La forma di potere paradigmatica della biopolitica è la «psichiatria» che – sempre secondo Foucault – esercita la propria funzione normalizzatrice attraverso la pratica regolatrice delle forme di esistenza. Il potere psichiatrico agisce al contempo su scala individuale, attraverso la cura, e su scala collettiva, disciplinando le condotte pubbliche mediante la sanzione dei comportamenti «anormali»[22]. Per questo si configura come dispositivo di igiene pubblica e principio di intellegibilità delle condotte e delle forme di vita. Analizzarne le vicende significa poter ricostruire un segmento importante di quella storia dell’assistenza psichiatrica, delle istituzioni attraverso le quali si è concretizzata e dell’esclusione sociale che ha prodotto, su cui da tempo la storiografia si interroga. Questi elementi, lungi dall’escludersi l’uno nei confronti dell’altro, contraddistinguono, nel loro intrecciarsi polimorfo, l’ambigua ontologia storica dell’istituzione manicomiale nella sua parabola otto-novecentesca.
Ed è proprio la consapevolezza della intrinseca ambiguità delle politiche di igiene pubblica attuate su scala locale, delle strategie di cura e di reclusione attraverso le quali si è ritenuto di dover curare la follia, a rappresentare alcune delle acquisizioni più recenti della storiografia che si interessa dei dispositivi manicomiali e, più in generale dell’assistenza psichiatrica. Dopo un periodo di ricerca, «nella seconda metà degli anni Settanta, fortemente condizionata dallo scontro ideologico e incentrata sulla lettura classista e repressiva»[23] e una fase operata dal “di dentro”, soprattutto da psichiatri con interessi storici[24], ci troviamo in una nuova e – forse – più interessante fase, contraddistinta dalla consapevolezza del valore e del peso storico-sociale dell’istituzione manicomiale e delle pratiche d’internamento in essa realizzate. Come afferma Matteo Fiorani: «La nuova generazione di storici si è accostata alla storia della psichiatria non soltanto attraverso la militanza politica e il clima movimentista, ma anche per iniziare a confrontarsi con temi, proposte, metodologie storiografiche avanzate»[25]. La scoperta dell’importanza della documentazione clinica per la ricostruzione dei nessi sapere-potere attraverso cui si è si delineata la pratica sociale dell’esclusione, il ruolo svolto dalle famiglie, dall’autorità giudiziaria e, sovente, da quella religiosa, consentono di gettare una luce nuova sull’universo manicomiale e sul suo posto all’interno delle dinamiche sociali più ampie entro cui si colloca.
Analizzare i “manicomi”, nella loro interezza di strutture storico-sociali, consente di rendere conto della gestione amministrativa, medica e sociale del più importante dispositivo attraverso cui si sono attuate le politiche di profilassi e igiene pubblica di un determinato territorio; strategie, queste, realizzate regolando le esistenze di una porzione rilevante di popolazione, precisamente quella identificata e sanzionata come  tarata mentalmente e per questo improduttiva, secondo una logica che individua nell’homo oeconomicus il soggetto normale. Ciò è valido almeno fino alla data di chiusura del dispositivo stesso, successiva alla Legge 180 che nel 1978 ha disposto la dismissione di tutte le strutture manicomiali italiane, ad esclusione di quelle giudiziarie[26]. Un approccio storiograficamente attento, dunque, non si può ridurre soltanto alla sottolineatura della forma repressiva[27] costituita dall’istituzione manicomiale, ma deve cercare di indagare sul piano micro-fisico la realtà asilare nella sua multiforme e ricca esistenza, come punto di intersezione di una serie di relazioni di potere fondamentali per comprendere il contesto locale ma, più in generale, le dinamiche sociali entro cui si situa. In questa prospettiva assume un’importanza, a nostro parere non sopravvalutabile, l’analisi del processo attraverso cui si è realizzato il manicomio, quali vicende lo hanno posto in essere, quali le cause della sua costruzione, quali le istanze che ne hanno contraddistinto la fisionomia e quali i dibattiti entro cui prende posto la sua origine. E’ ciò di cui vogliamo rendere conto in questo contributo, attraverso la segnalazione di alcuni recenti studi storiografici.
 
Tre ambiti di interesse: storia, Grande Guerra e Fascismo.
Tre sono gli ambiti che ci appaiono maggiormente battuti, negli ultimi tempi, dalla storiografia italiana interessata agli studi sui dispositivi manicomiali[28]. Per questo hanno assunto quasi il valore di paradigmi attraverso cui analizzare il nesso manicomio-società entro un cosmo e una congiuntura ben precisa. E proprio la funzione e il ruolo sociale del manicomio in un dato contesto sono da indagare per cogliere la dinamicità di un’istituzione che, nel corso della sua storia, si relaziona non soltanto con gli internati, ma anche con le loro famiglie, con le autorità religiose, sociali e politiche. Insomma una realtà al contempo chiusa e aperta, soggetta a persistenze e mutamenti.
Il primo ambito di studi riguarda la storia del manicomio oggetto d’indagine. L’arco di tempo di queste analisi è variabile, in diversi casi la soglia è costituita dal Secondo Conflitto mondiale, in altri termina con la Grande Guerra, un altro gruppo ancora si concentra sul segmento compreso tra il Dopoguerra e la chiusura dei manicomi post-Legge 180. Il case study consente di gettare luce proprio sulla realtà sociale e sulle dinamiche che interessano il manicomio, mostrando quanto sia da superare il paradigma della struttura chiusa e autoreferenziale. E’ quanto emerge, ad esempio, dalla lettura di Ammalò di testa. Storie dal manicomio di Teramo (1880-1931)[29] [Donzelli ed. 2014] di Annacarla Valeriano. L’Autrice, assegnista di ricerca di Storia Contemporanea presso l’Università di Teramo, nel volume affronta la nascita e la storia del Sant’Antonio Abate, appunto il frenocomio della città abruzzese, in un arco di tempo che dall’origine arriva fino agli anni Trenta del Novecento. Attraverso la ricostruzione storica emergono non soltanto i frequenti rapporti tra il manicomio e la società nelle sue diverse articolazioni, ma anche il ruolo sociale di recupero di larghe fasce della popolazione fino ad allora emarginate ed escluse da qualunque intervento finalizzato alla gestione e alla medicalizzazione della follia. Nel volume viene inoltre sottolineato il ruolo di volano economico di una istituzione i cui introiti, derivanti dalle rette dei mentecatti, venivano reinvestiti per sostenere i bilanci di altri enti assistenziali presenti nel territorio. Il punto d’osservazione adottato consente di gettare uno sguardo su un’Italia sofferente, che per sopravvivere deve appoggiarsi a strutture di carità che, per la quasi totalità, sono di origine religiosa e che quindi, insieme all’assistenza materiale, forniscono anche appoggio e supporto ideologico. Ciò non è sottovalutabile sul piano del processo di costruzione di un certo tipo di identità nazionale, in particolare quello che ha interessato le fasce più emarginate e socialmente escluse. Entro questo perimetro dell’esclusione emerge poi una sorta di ulteriore confino, a cui il libro di Valeriano offre giusto spazio, quello costituito dalle donne impazzite. Figure queste ultime che rappresentano una forma di tragica esclusione nell’esclusione, storie disperate a cui «sono dedicate alcune fra le pagine più intense del libro» [p. VIII], come sostiene nella sua prefazione Guido Crainz. Forse proprio nella resurrezione di esistenze altrimenti destinate all’oblio sta uno dei meriti di questo genere di studi, che non indugiano tanto sulla storia politica e istituzionale del dispositivo asilare (certo c’è anche quella), ma spingono il lettore ad interrogarsi non soltanto sul topos del confine tra la normalità e la devianza, così come si configura in manicomio, ma che, più in profondità, mettono in questione ogni confine continuamente ri-stipulato all’interno del perimetro sociale. Il percorso tra le cartelle cliniche diventa così un modo per affrontare alcuni dei nodi irrisolti della storia italiana degli ultimi due secoli, quali il ruolo e il peso del patriarcato nella definizione di cosa significa essere folli in una realtà centro-meridionale e cosa voglia dire essere donne o bambini pazzi; ancora, cosa comporta  nel quotidiano far parte della “classe disagiata” in un momento in cui la sensibilità collettiva individua in tale insieme soprattutto un pericolo e una minaccia. Per comprendere e situare la questione l’Autrice decide di non slegare l’esperienza teramana dalla cornice più ampia dell’assistenza ai “mentecatti”, così, nel primo capitolo, il ruolo del Sant’Antonio Abate viene inquadrato, in continuità con l’esperienza di altri frenocomi, nella duplice funzione di istituto di assistenza e di controllo. La follia viene così letta alla luce dei problemi della società contadina dell’epoca, dei suoi rituali e codici simbolici. E, muovendo dalle polizze e dai questionari medici, si scopre tutto un mondo fatto di migrazioni, di obblighi imposti dallo Stato, di famiglie sconvolte dalla follia, di stagioni troppo povere e di figli troppo numerosi. Insomma, la documentazione esaminata nel testo evoca un mondo che è molto più ampio di quello circondato dalle mura del frenocomio, e ciò evidenzia quanto il perimetro dell’esclusione altro non sia che il riflesso di quello spazio che si vuol preservare allontanando i “mentecatti”. Ciò è palese quando nel libro viene affrontato il tema della Grande Guerra, con gli sconvolgimenti causati dagli eventi bellici sulla mente dei 260 soldati che fanno il loro ingresso nel Sant’Antonio Abate, ma anche con i riflessi tragici sulle esistenze dei civili mobilitati dalla leva obbligatoria o affamati dalla mancanza sempre più marcata delle risorse. Scenari ampi che coinvolgono anche la classe medica, impegnata a gestire il duplice aspetto della sorveglianza e della cura degli internati. E in questa dialettica sempre precaria che si gioca il tentativo di guadagnare quella credibilità scientifica e quella rilevanza sociale tanto desiderate. Ci sono poi loro, gli “alienati”, i veri protagonisti del libro. Le loro storie, dimenticate e sepolte tra le pagine mute di cartelle, lettere e documenti, narrano esistenze piagate dalla sofferenza, dal dolore, dall’esclusione. La prospettiva microstorica utilizzata dall’Autrice diventa dunque il grimaldello utile a forzare la barriera che si frappone tra questi individui e il loro riconoscimento sociale. Particolarmente felice appare, in tal senso, lo spazio riconosciuto alle storie di vita dei ricoverati, l’esperienza da loro fatta della malattia e il lento adattamento a ciò che comporta vivere in uno spazio chiuso, rigidamente sottoposto ad una politica di controlli e gestione dei tempi. L’arco di tempo analizzato termina nel 1931 quando il cambio di nome, da “manicomio” a ospedale psichiatrico” sottolinea non soltanto un mutamento di forma ma un più generale ingresso in una storia diversa che coincide con l’affermazione del Fascismo.
Un periodo molto più lungo, coincidente con la storia novecentesca dell’istituto, fino al 1978, è quello contemplato da Vinzia Fiorino nella sua storia del frenocomio di Volterra. L’Autrice, docente di Storia Contemporanea presso l’Università di Pisa, è una delle fautrici del rinnovamento degli studi sui manicomi, nonché di uno degli studi più interessanti apparsi negli ultimi anni: Matti, indemoniate e vagabondi. Dinamiche di internamento manicomiale tra Otto e Novecento [Marsilio 2002][30]. In esso Fiorino ha indagato le pratiche di internamento manicomiali attraverso la documentazione del Santa Maria della pietà di Roma, concentrandosi soprattutto sul processo di medicalizzazione della follia e sul ruolo svolto dai diversi attori che lo organizzano. In tale ottica uno spazio rilevante viene riconosciuto alle famiglie, agli scambi epistolari intrattenuti con i reclusi e con la direzione Sanitaria. Questa di riconoscere importanza alle figure che di solito vengono lasciate sullo sfondo è una delle soluzioni metodologiche che rendono lo studio innovativo. La trattazione ne esce arricchita e la gestione della follia appare in tutta la sua complessità come un problema in grado di mobilitare attori diversi. Questa prospettiva non viene abbandonata neanche nello studio che Fiorino dedica al manicomio di Volterra: Le officine della follia. Il frenocomio di Volterra (1888-1978)[31] [ETS 2011]. Il San Girolamo di Volterra viene indagato attraverso un punto di vista particolare: l’ergoterapia, cioè la pratica di lavoro coatto cui erano sottoposti gli internati e attraverso la quale si manteneva in vita un fiorente, e per certi versi inaspettato, mercato del lavoro. Il titolo stesso dell’opera fa riferimento proprio a questa realtà di fatica e di operosità, in cui si fabbrica e si produce, si coltiva e si produce, ma soprattutto si sfrutta l’opera di chi è costretto ad offrire suo malgrado la propria forza lavoro. Nello studio l’ergoterapia viene analizzata non soltanto come una strategia “curativa” strumentale, in grado di mettere a disposizione forza lavoro a costi bassissimi, ma più in profondità viene indagata alla luce dei modelli culturali e dei codici che la sostengono e legittimano, facendola apparire quasi innovativa, benefica e per certi versi nobile. L’offerta di lavoro garantita dagli internati, però, come si evince anche dalla pagine di Fiorino, non deve essere letta soltanto a partire dallo schema dello sfruttamento, infatti, a sostegno dell’ergoterapia c’è un modello culturale e un sapere potente che fa leva su una certa idea di uomo e di follia. Per questo possiamo adeguatamente parlare di un’economia antropologica che si garantisce la produzione di beni attraverso una precisa idea di soggettività malata, di cosa ciò implichi sul piano delle autonomie e delle garanzie giuridiche da riconoscere al malato. In altre parole i mentecatti sono ritenuti delle soggettività dotate di garanzie limitate e, per questo, potenzialmente sfruttabili.
Anche in questo lavoro emerge tutta la centralità della Direzione Sanitaria in relazione all’organizzazione della vita all’interno del manicomio. Stabilire gli internamenti, trattare con le autorità provinciali e locali, avere a che fare con le famiglie, significa porre in essere una serie di dinamiche e di relazioni sociali che aprono il manicomio verso l’esterno, anche se attraverso la mediazione necessaria della figura del direttore. Indagare cosa significhi ciò per i rapporti tra politica e psichiatria e, più in generale, tra salute mentale, democrazia e società, vuol dire porre sotto esame un capitolo fondamentale delle politiche di igiene pubblica in Italia. In tale ottica ampio spazio viene dedicato al direttore Luigi Scabia, figura fondamentale per il frenocomio di Volterra e medico inviato da Giolitti in Libia per “curare” gli alienati della colonia. Sempre nel medesimo segmento temporale, anche Fiorino dedica un’analisi serrata al “trauma” costituito dal Primo conflitto Mondiale. Non sono soltanto le presenze a raggiungere picchi di guardia, ma anche le patologie presentate dai ricoverati a rappresentare una novità per la struttura di Volterra, come già per le altre disseminate sul territorio nazionale. Altra novità, introdotta da Scabia, è il cosiddetto esame di pericolosità, «una sorta di autocoscienza indotta dai medici – in cui i malati criminali esprimono la consapevolezza dei reati commessi, l’impegno a non ripeterli e l’intenzione di aderire al modello normativo di maschilità» (p. 6). Una sorta di confessione attraverso la quale l’alienato criminale rinnega il passato e si avvia sul percorso di recupero. Quanto questa pratica evochi le analisi e il clima del celebre Corso di Lovanio di Foucault nel 1981[32], può essere accertato dal lettore. La confessione si palesa qui come la chiave d’accesso per una storia della verità di cui la prigione e il manicomio rappresentano le condizioni di possibilità, almeno dal punto di vista  delle pratiche del far-vero. Ed è particolarmente indicativo che ciò sia stato attuato a Volterra nei confronti dei pazzi criminali.
Il Dopoguerra viene affrontato nel testo alla luce di quel «movimento che a partire da Gorizia ha portato alla chiusura delle istituzioni manicomiali in Italia» (p.7). Diversa rispetto al passato appare essere la concezione del malato, il suo valore sociale e, quindi, da qui, il tentativo di recuperarlo ad una qualche forma di vita comunitaria. Proprio alla luce di ciò ancora più importanza assume il ruolo della città di Volterra, il suo essere coinvolta in questo processo di democratizzazione della cura dei malati di mente. L’aver sottolineato questo aspetto che, una volta ancora, stabilisce un ponte tra il dentro e il fuori è solo uno dei meriti di questo volume. Tra gli altri c’è quello di aver dato ampio spazio, oltre che alla documentazione clinica, agli incartamenti amministrativi che, forse meglio di altre fonti, riescono a rendere conto della complessità della macchina manicomiale, non più riducibile, come rappresentato negli studi più marcatamente ideologici, a semplice prigione per matti ma a vera e propria istituzione totale immersa in una fitta trama di relazioni sociali, economiche e politiche.
Se gli studi menzionati sono indicativi di un rinnovato, e per certi versi originale, interesse verso l’istituzione manicomiale, non sono gli unici ad essere stati prodotti recentemente[33]. Tra gli altri segnaliamo Urla e silenzi. Storia dell'ospedale psichiatrico di Verona 1880-1945 [Villaggio Maori 2016] di Gabriele Licciardi, insegnante e ricercatore presso il Centro Studi Luccini di Padova. Anche questo volume muove dall’analisi incrociata delle fonti amministrative e di quelle cliniche, nonché dalla stampa dell’epoca, in particolare quei quotidiani che più spesso si sono occupati delle condizioni di vita degli internati veronesi. Quella tratteggiata dall’Autore è una storia clinica che al contempo è storia di esclusione economica, sociale e politica, raccontata a partire da fenomeni decisivi come l’affermazione della borghesia e il ridefinirsi di un quadro di relazioni locali, specchio di movimenti più generali. Anche questo studio riconosce la fitta trama di relazioni sociali in cui si inserisce l’opera del frenocomio veronese, ennesima testimonianza del valore di chiusura e di necessaria apertura nei confronti della realtà circostante. Da sottolineare è il capitolo che tratta il periodo fascista, segnato non soltanto dall’internamento di quelle figure scomode per il regime, prassi che sottolinea  il controllo capillare del tessuto sociale, ma anche dalla rigida supervisione sull’attività amministrativa e sanitaria del frenocomio, ottenuta attraverso l’assunzione di personale selezionato su base politica.
Interessante anche il caso trattato da Matteo Banzola nel volume Il manicomio modello. Il caso imolese. Storie dell'ospedale psichiatrico (1804-1904) [Editrice la Mandragora 2015], concentrato sulla nascita e il primo sviluppo delle strutture deputate a Imola al ricovero dei malati di mente. L’opera si segnala per l’arco di tempo esaminato, cioè l’Ottocento, periodo di formazione e sperimentazione dell’alienismo e delle istituzioni manicomiali. Dall’epoca napoleonica alla legge Giolitti sui “manicomi e gli alienati”, il percorso si snoda tra innovazioni tecniche, scientifiche e fissazioni di paradigmi, come quello che stabilisce definitivamente il valore “curativo” della reclusione manicomiale. Proprio l’arco di tempo esaminato, che in parte è pre-manicomiale, rappresenta non soltanto la novità rispetto ad altri studi del genere, ma anche l’elemento di principale interesse. Infatti la storia dell’Ospedale psichiatrico provinciale di Imola viene colta archeologicamente nei suoi primi passi, segnati dall’evoluzione attraverso diverse strutture e dalla figura di Cassiano Tozzoli (Imola, 1785-Imola, 1863), medico nominato direttore amministrativo e sanitario dell'ospedale di Imola che, resosi conto delle pessime condizioni del reparto deputato alla cura dei mentecatti, decide di impegnarsi per la realizzazione di un nuovo stabile capace di ospitare 80 pazienti, in sostituzione del vecchio comparto capace solo di 14 letti. Il nuovo stabilimento venne inaugurato nel 1844 ma ben presto risulta sottodimensionato e il nuovo direttore,  Luigi Lolli (Riolo Terme, 1819-Imola, 1896), si mette in moto per edificare una nuova struttura i cui lavori incominciano nel 1869 e terminano nel 1880. Il manicomio viene intitolato “Santa Maria della Scaletta”, può ospitare 800 internati ma, presto, risulta essere insufficiente per le esigenze del territorio, così si decide di costruire un nuovo frenocomio, il “Manicomio dell'Osservanza di Imola”, la cui realizzazione termina nel 1890. Intanto il precedente Manicomio “Santa Maria della Scaletta” viene veduto alla Provincia di Bologna che vi ricovera i mentecatti del proprio territorio. Il volume di Banzola è dunque non la storia del Manicomio ma delle successive evoluzioni che nel corso del XIX secolo determinano la realtà asilare sul territorio di Imola. Un’operazione interessante, archeologica, che ha il merito di osservare una pagina ancora troppo poco studiata, cioè quella delle diverse condizioni, sollecitazioni e congiunture che determinano, sui diversi piani locali, la realizzazione dei grandi manicomi novecenteschi.
 
Il Primo Conflitto Mondiale, le sue nevrosi e il Fascismo.
 
Un altro degli ambiti trattati dalla recente storiografia che si è occupata dei manicomi è quello della Grande Guerra. Momento di cesura, soglia di affermazione sociale per la psichiatria, in particolare per quella militare, il Primo Conflitto Mondiale ha rappresentato un momento decisivo per l’alienismo desideroso di affrancarsi socialmente e per le istituzioni manicomiali chiamate a confrontarsi con un problema inedito, quale le “nevrosi di guerra”. Su quest’ultimo tema la storiografia internazionale ha prodotto numerosi testi e monografie che muovono dal concetto di “Shell Shock”, elaborato da C. S. Myers con un contributo su “The Lancet” del 13 Febbraio 1915[34]. In Italia, gli studi più rilevanti sulle “nevrosi di guerra” sono quelli realizzati da Bruna Bianchi, docente di “Storia delle Dottrine Politiche” presso l’Università di Venezia”, che li ha raccolti (e in parte riadattati) nella prima parte del suo corposo La follia e la fuga. Nevrosi di guerra, diserzioni e disobbedienza nell’esercito italiano (1915-1918) [Bulzoni editore 2001]. Diversi altri contributi affrontano il tema nella forma di saggi per riviste specializzate, dalla loro lettura si evince come i manicomi furono letteralmente investiti da un enorme moltitudine di soldati ammalati di guerra, cioè piagati da una serie di sintomi diversi – che vanno dalla “lipemania” al “trauma stuporoso” -, non facilmente riconducibili a cause scatenanti di natura organica. Il fenomeno comportò l’apertura o il riutilizzo di padiglioni appositamente destinati al ricovero dei pazzi militari e, più in generale, la congestione degli spazi a disposizione, spesso già gravati da problemi di sovraffollamento. Ciò determinò una serie di novità nella prassi e tra le dinamiche manicomiali; innanzitutto il periodo di ricovero divenne sempre più breve, la documentazione sempre più scarna e spesso si riscontra l’assenza di diagnosi definitive, come se le direzioni sanitarie non volessero compromettersi troppo sbilanciandosi sui sintomi lamentati dai soldati. Spinti dal clima e dalle esigenze di guerra, ma soprattutto dalla pressione delle autorità militari, gli alienisti cercarono quanto più possibile di rispedire i soldati al fronte restituendoli ai loro doveri. La terapia si ridusse ancor di più a brutale pratica ortopedica basata perlopiù sul sistema più economico e veloce: la scarica elettrica.
Di questa situazione d’emergenza, che coinvolse tutti i manicomi diffusi sul territorio nazionale, trattano i volumi sopra citati di Valeriano, Fiorino e Licciardi. In ognuno di essi, sotto forma di capitolo, sezione o paragrafo, è presente una parte dedicata alla Grande Guerra e alle sue nevrosi”. Del tema, si è anche occupato Andrea Scartabellati, storico con PhD conseguito a Venezia, nel volume a sua cura: Dalle trincee al manicomio. Esperienza bellica e destino di matti e psichiatri nella Grande guerra [Marco Valerio Editore 2008][35]. E’ questa una raccolta di saggi in cui sono presenti anche diversi casi studio dedicati al manicomio di Cremona, al S. Artemio di Treviso, al San Giacomo di Tomba di Verona, al Manicomio Provinciale di Como. Limitandoci, come già fatto, a indicare in maniera più estesa i volumi successivi al 2010, sul tema  c’è da segnalare lo studio che Ilaria La Fata, ricercatrice presso il Centro Studi Movimenti Parma, ha dedicato al Manicomio di Colorno, la struttura che accoglie i “mentecatti” della Provincia di Parma. Il libro in cui La Fata presenta la propria ricerca ha come titolo Follie di guerra. Medici e soldati in un manicomio lontano dal fronte (1915-1918)[36] [Unicopli, 2014]. E’ un articolato percorso che, muovendo dal manicomio di Colorno, offre una rappresentazione della realtà parmigiana durante la Grande Guerra. Lo studio si inserisce nel dibattito storiografico sulle nevrosi di guerra e sulla psichiatria italiana nei primi decenni del Novecento, e si prefigge di verificare in sede locale dinamiche  più  generali  riguardo  al  rapporto  tra  guerra  e  follia. Il materiale utilizzato per la ricerca si basa principalmente sulle cartelle cliniche degli internati, queste non soltanto consentono di verificare le condizioni di vita all’interno della struttura, le terapie praticate, le risposte offerte dagli internati, ma anche di valutare la risposta che la società parmigiana ha offerto all’esperienza della guerra, il tutto attraverso la prospettiva del frenocomio. In tale ottica uno degli interrogativi cui il testo risponde è: come la società si è relazionata al problema della follia in un momento particolarmente duro quale quello del conflitto mondiale? Emergono così i punti di vista della famiglia dei ricoverati, della Direzione Sanitaria, dei medici, degli infermieri e del personale salariato. Un caleidoscopio di prospettive, problemi, istanze, che declinano singolarmente il trauma del conflitto e i suoi effetti sulla comunità parmense. Colorno appare, come già altre realtà manicomiali, al contempo, isolato dal mondo esterno, tendenzialmente autosufficiente ed autarchico, e costretto ad aprirsi e a porsi in relazione con la società da cui provengono sempre più ricoverati. Anche quest’ultimo dato, l’aumento degli ingressi, conferma il trend registrato in altre realtà e consente di inquadrare la realtà parmense alla luce delle più ampie dinamiche sugli sconvolgimenti psichici collettivi causati dalla guerra. Parma e il suo manicomio si configurano dunque come momenti di una storia più ampia che è quella della follia in relazione alla guerra di certo ma, più in generale, delle risposte che la collettività ha offerto in relazione al dramma della malattia mentale come problema sociale e politico. Alla luce di ciò è molto interessante il capitolo in cui l’Autrice analizza le relazioni presentate dal direttore per rappresentare i problemi della struttura derivanti dalle privazioni e dall’epidemia di ingressi e il carteggio con i dirigenti della Provincia di Parma, con le risposte di questi ultimi improntate a rigidi criteri di sostenibilità del bilancio e, quindi, di necessaria razionalizzazione delle risorse disponibili. Reciproche diffidenze, difficoltà economiche, ingiunzioni sociali legate al clima di guerra e ai doveri verso la Patria, rendono complicata la gestione del manicomio e oltremodo problematica la gestione medica del direttore Ugolotti. Quest’ultimo, se sembra essere consapevole del legame tra lo stress di guerra e le patologie lamentate dai soldati internati, si trova d’altra parte pressato dalle direttive governative centrali che impongono la rapida dimissione dei militari e il loro ritorno al fronte. Segno di questa tensione sono le diagnosi che da una parte cercano di rendere conto della complessità dei casi esaminati, dall’altra provano a rientrare nel perimetro stabilito dagli psichiatri militari e dalle disposizioni dei vertici. Individuare i simulatori, snidare i disonesti, rimandare in trincea quanto più gente possibile, queste le indicazioni cui neanche a Parma ci si può sottrarre. Emerge così anche il tema della “disobbedienza”, su cui già Giovanna Procacci e Bruna Bianchi si sono espresse, evidenziando la natura quasi collettiva delle reazioni di insofferenza alla vita di guerra. Anche in questo caso le considerazioni generali trovano nel contesto locale una concreta determinazione, mostrando quanto le letture d’insieme si giovino degli studi micro-fisici delle realtà particolari a conferma o confutazione di quanto sostenuto.
Se la Grande Guerra è un momento fondamentale della storia dell’assistenza psichiatrica italiana e, quindi, anche dell’evoluzione manicomiale, il Fascismo rappresenta la grande ferita della storia Nazionale, per questo indagarne i risvolti psicopatologici appare ancora più interessante. E’ quanto fatto da Matteo Petracci, PhD in “Storia, politica e istituzioni dell’area euro-mediterranea nell’età contemporanea” presso l’Università di Macerata, con lo studio sviluppato nel volume I matti del Duce. Manicomi e repressione politica nell’Italia fascista [Donzelli 2014][37].  In esso viene analizzato l’uso politico del manicomio durante il Fascismo, cioè la pratica di internare gli oppositori al regime per toglierli dall’agone politico. A differenza degli studi menzionati, quello di Petracci non è uno studio concentrato su una singola realtà manicomiale ma prende in esame diversi frenocomi: Ancona, Volterra, Mombello, Macerata, Perugia, Roma, Sassari, Bologna, Ancona, solo per citarne alcuni. Il percorso vuole quindi rendere conto di una prassi generalizzata e attuata a macchia di leopardo secondo le esigenze e le problematiche delle diverse realtà. Escludere attraverso l’internamento significa dichiarare la morte civile di quei soggetti che le denunce anonime, le veline degli organi d’informazione e le delazioni dei confidenti indicano come pericolosi per il Regime e quindi degni di essere attenzionati e, eventualmente, internati. Dal 1904, la legge sui manicomi  affidava al Ministero dell’Intero la “vigilanza” sui manicomi, per questo motivo, il Casellario – che teneva traccia di tutti gli oppositori considerati, a torto o ragione, particolarmente pericolosi – conteneva l’indicazione di un eventuale ricovero. Su questa base Petracci ha costituito la propria indagine portando alla luce ben 475 casi di antifascisti schedati dal regime che vennero sottoposti a internamento psichiatrico. Di loro 122 morirono tra le mura del manicomio. Il merito dell’Autore è quello di aver rintracciato nel più generale incremento dei dati sui ricoveri nel periodo fascista – tra il 1927 e il 1941 gli internati aumentano da 62 mila a 95 mila-  il ricorso al trattamento psichiatrico per scopi di repressione politica. Tante le storie raccontate, alcune molto celebri come quella dell’ex sindaco socialista di Molinella (Bologna), Giuseppe Massarenti, che venne recluso in manicomio con diagnosi di «delirio paranoico». Diversi anche i casi di internati che a seguito della reclusione diventano pazzi e restano segnati per tutta l’esistenza.
I dati raccolti da Petracci provengono perlopiù dall’archivio del Casellario Politico Centrale, l’ufficio della direzione generale della Pubblica Sicurezza incaricato, dal 1894, di tenere il “Servizio dello schedario biografico degli affiliati ai partiti sovversivi maggiormente pericolosi nei rapporti dell’ordine e della Pubblica sicurezza”. I nomi emersi hanno rappresentato il punto di inizio di una ricerca sulle biografie, i luoghi, le ragioni che hanno determinato l’internamento. Ne è scaturita una ricerca originale, in grado di evidenziare il volto oscuro di un regime che tende al controllo totale della società e, seppur in maniera imperfetta, vi riesce, almeno per frangenti, situazioni e contesti. L’interesse del tema si affianca ad una scrittura felice, narrativa, che riesce a presentare il tema senza scadere nelle asperità retoriche dei tecnicismi. La struttura del libro si articola in una prima parte dedicata agli internati negli ospedali psichiatrici provinciali, una seconda a quelli rinchiusi nei manicomi giudiziari, mentre il terzo gruppo è costituito da chi in manicomio vi giunge dopo aver trascorso già un periodo di reclusione, in carcere o al confino. Al di là dell’indubbio merito di aver riportato alla luce tante vicende sconosciute, o quasi, il volume di Petracci si segnala perché restituisce un panorama di interessi, figure, circostanze che ruotano intorno alle dinamiche manicomiali nel periodo fascista. E ciò si lega a quanto emerso anche negli studi sopra presentati. La gestione polifonica dell’internamento manicomiale e, quindi, del trattamento della follia si afferma anche in questa circostanza come il dato più evidente, quello in grado di palesare perché lo studio degli archivi manicomiali non è importante solo ai fini della storia della psichiatria o delle politiche di igiene pubblica. In quanto istituzione totale deputata all’amministrazione delle forme di esclusione dei soggetti anormali, il manicomio rappresenta il dispositivo in grado di portare alla luce le logiche di funzionamento della società in una certa epoca, con le contraddizioni, le ambiguità, i paradossi che naturalmente la costituiscono. E in ciò, forse, risiede la ragione principale di una corrente di studi che non può essere identificata, né ridotta, al riflesso dei gusti e degli interessi transeunti delle mode accademiche ma che, più in generale, può rendere conto delle forme e delle pratiche attraverso cui la società continua ad affrontare il problema della salute mentale.   


[1] Cfr. F.Giacanelli, Psichiatria e storiografia in «Psicoterapie e Scienze Umane», Fae Riviste srl, Anno XX, n.3, 1986. pp.80-93
[2] Ivi, p.81.
[3] Ivi, p.82.
[4] Cfr. P.Guarnieri, La storia della psichiatria. Un secolo di studi in Italia, L. Olschki, Firenze 1991, p.9.
[5] Ibidem.
[6] Ivi, p.10.
[7] Ivi, p.12.
[8] Ivi, p.14.
[9] Cfr. A.Tamburini, G.C.Ferrari, G.Antonini, L’assistenza degli alienati in Italia e nelle altre nazioni, Utet, Torino 1918.
[10] Cfr. P.Guarnieri, La storia della psichiatria. Un secolo di studi in Italia…cit., p.17.
[11] Cfr. M.Fiorani, Bibliografia di storia della psichiatria italiana 1991-2010, firenze University Press, Firenze 2010, p.12.
[12] Cfr. P.Guarnieri, La storia della psichiatria. Un secolo di studi in Italia…cit., p.15.
[13] Ibidem.
[14] Ibidem.
[15] Cfr. E. Goffman, Asylums, trad.it. di F.Basaglia, Einaudi, Torino 2003
[16] Cfr. M.Fiorani, Bibliografia di storia della psichiatria italiana 1991-2010…cit., p.12.
[17] Gli studi «governamentali» nascono e si sviluppano a partire dalle sollecitazioni concettuali di Michel Foucault, elaborate in particolare in Sorvegliare e punire: la nascita della prigione (1975), trad. it. di A. Tarchetti, Einaudi, Torino 1993, La volontà di sapere, trad.it. di P. Pasquino e G. Procacci, Feltrinelli, Milano 1978 e nei due corsi al College de France: Nascita della biopolitica Corso al Collège de France (1978-1979), a cura di F. Ewald, A. Fontana e M. Senellart, trad. it. di M. Bertani e V. Zini, Feltrinelli, Milano 2005 e Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977-1978), a cura di F. Ewald, A. Fontana e M. Senellart, trad.it. di P.Napoli, Feltrinelli, Milano 2005.
[18] Cfr. A. Cutro, (a cura di) Biopolitica. Storia e attualità di un concetto, Ombre Corte Verona,2005, p.10.
[19] Abbiamo affrontato l’argomento, in relazione ai dispositivi educativi nel seguente contributo: F.Milazzo, Bisogna difendere la scuola! Biopolitica e istruzione in Italia in C.Boscolo (a cura di) NON FATE I BRAVI. Educare e normalizzare in Italia oggi, EBOOK 2014- ISSN 1591-0598.
[20] Cfr. Il saggio «Biopotere. Sugli usi storiografici di Foucault e Agamben» in E.Traverso, Il secolo armato. Interpretare le violenze del Novecento, Feltrinelli, Milano 2012.
[21] Cfr. M.Foucault, La politica della salute nel XVIII secolo (1976) in Archivio Foucault. Poteri, saperi strategie (1971-1977), trad. it. di A. Dal Lago, Feltrinelli, Milano 1997.
[22] Cfr. M. Foucault, Gli anormali. Corso al Collège de France (1974-1975), trad.it. di V. Marchetti e A. Salomoni, Feltrinelli, Milano 2000.
[23] Cfr. F.Cassata, M.Moraglio (a cura di), Manicomio, società e politica. Storia, memoria e cultura della devianza mentale dal Piemonte all’Italia, BFS ed., Pisa 2005, p.7.
[24] Cfr. P.Guarnieri, La storia della Psichiatria. Un secolo di studi in Italia, Olshki, Firenze 1991, p. 15.
[25] Cfr. M. Fiorani, Bibliografia di storia della psichiatria italiana 1991-2010, Firenze University Press, Firenze 2010, p.22.
[26] Per un recente lavoro sulla questione si veda: J.Foot, La «Repubblica dei matti». Franco Basaglia e la psichiatria radicale in Italia, 1961-1978, Feltrinelli, Milano 2014.
[27] Sulla «società disciplinare» vedi l’introduzione di A. Cutro (a cura di), Biopolitica. Storia e attualità di un concetto, Ombre Corte, Verona 2005, pp. 7-45;
[28] Abbiamo preso in esame alcuni studi successivi al 2010, termine entro il quale vengono comprese le opere della Bibliografia di storia della psichiatria italiana 1991-2010 di Matteo Fiorani, e che noi abbiamo adottato come riferimento di massima per gli studi citati in queste pagine.
[29] Cfr. A.Valeriano, Ammalò di testa. Storie dal manicomio di Teramo (1880-1931), Donzelli ed., Roma 2014.
[30] Cfr. V. Fiorino, Matti, indemoniate e vagabondi. Dinamiche di internamento manicomiale tra Otto e Novecento, , Marsilio, Venezia 2002.
[31] Cfr. V.Fiorino, Le officine della follia. Il frenocomio di Volterra (1888-1978), ETS Pisa 2011.
[32] Cfr. M.Foucault, Mal fare, dir vero. Funzione della confessione nella giustizia. Corso di Lovanio (1981), trad.it. di V.Zini, Einaudi, Torino 2013.
[33] In particolare dopo il 2010.
[34]  C S Myers, Contribution to the Study of Shell Shock  in “The Lancet”, Volume 185, Issue 4772, 13 Feb 1915, pp 316-330.
[35] Cfr. A.Scartabellati (a cura di), Dalle trincee al manicomio. Esperienza bellica e destino di matti e psichiatri nella Grande guerra, Marco Valerio Editore, Torino 2008.
[36] Cfr. I. La Fata, Follie di guerra. Medici e soldati in un manicomio lontano dal fronte (1915-1918), Milano, Unicopli, 2014
 
[37] Cfr. M. Petracci, I matti del Duce. Manicomi e repressione politica nell’Italia fascista, Donzelli, Roma 2014.

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