LA STRANA SCIENZA DI JACQUES LACAN. Ritorna la psicanalisi scientifica?
Recentemente per la collana Biblioteca di Psicologia, libri Corriere della Sera è stato riedito di Jacques Lacan “Il Seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicanalisi”): sempre a cura del fidato allievo J. A. Miller (come nell’edizione originaria italiana per Einaudi del 1979/2003, sua anche una ampia nota critica), per l’occasione a cura anche di A. Di Ciaccia. Ovvero… l’opera forse omnia in certo senso di Lacan, l’ultimo grande “guru” della psicanalisi. Quella fondamentale, con la parola stessa diversamente live del famoso Maestro, tutt’oggi un poco controverso nella storia della psicanalisi. Non tanto per l’autorevolezza, quasi ovunque poi assimilata, nonostante – a suo tempo- anni ’60 un caso clamoroso di censura ed espulsione dalla Società Psicanalitica ufficiale, da cui la fondazione di Lacan di quella Ecole Freudienne (Parigi), che sempre negli anni ’60 e ’70 fu ai vertici del dibattito generale non solo psicanalitico e postfreudiano ma culturale francese e internazionale, fino a debordazioni anche metapolitiche.
In particolare, persino la psicoanalisi freudiana relativamente ortodossa ha ben innestato nella sua prassi clinica e teorica la celebre cosiddetta fase dello Specchio nell’età evolutiva dell’infanzia, “scoperta” da Lacan e le sue quasi presocratiche (con il senno di poi, quasi un Eraclito 2.0 ante litteram…) complesse teorizzazioni sull’Immaginario, il Reale, l’Altro: soprattutto “l’ancoraggio “ definitivo dopo Lacan della cosiddetta scienza dell’incoscio strutturato come Linguaggio (sulla scia del Freud scienziato).
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http://www.meteoweb.eu/2016/11/la-strana-scienza-jacques-lacan/789892/#ZypxTIKSRWS76wET.99
ARTE E PSICOANALISI VANNO IN TV
Un pittore, i suoi quadri, uno psicoanalista. Sono gli ingredienti de “L’inconscio dell’opera”, il nuovo programma di Sky Arte HD presentato oggi, mercoledì 16 novembre, al MAXXI di Roma. Ogni giovedì, a partire dal 24 novembre, sul lettino (immaginario) di Massimo Recalcati prenderà posto un artista. Sei in tutto: Vincent Van Gogh, Jackson Pollock, Giorgio Morandi, Alberto Burri, Antonio Tàpies e Jannis Kounellis. Personalità di spicco della pittura otto-novecentesca, analizzate e raccontate attraverso la psicoanalisi, nella suggestiva cornice barocca di Palazzo Litta, a Milano. Nel video, un’anticipazione della puntata del 1° dicembre dedicata a Jackson Pollock.
Vai al video col link qui sotto:
http://video.espresso.repubblica.it/tutti-i-video/arte-e-psicoanalisi-vanno-in-tv/9439/9531
PER AVVICINARCI ALL’ESSERE CI RESTA SOLO L’ARTE
Quando la psicoanalisi si avvicina all’arte gli esiti sono raramente felici: la tentazione di scavare nelle psicologie degli autori, di rintracciare ferite biografiche, di leggere l’opera come un sintomo è forte. Massimo Recalcati lo sa e nel suo “Il mistero delle cose” (Feltrinelli) dichiara subito che non correrà questo rischio: «In questo libro l’uso della psicanalisi per leggere l’opera ha rifiutato metodicamente ogni sua applicazione patografica». L’arte non è un paziente, e non va messa sul lettino. Bene. Allora perché parlarne inforcando gli occhiali di Lacan? Perché si muove sullo stesso terreno della psicoanalisi: l’una e l’altra parlano della stessa cosa, sono impegnate nella stessa lotta di Giacobbe con l’angelo sconosciuto. È la battaglia per dare forma a ciò che è «irraffigurabile, all’alterità assoluta che sfugge sempre alla rappresentazione». La missione è avvicinarsi il più possibile al mistero dell’essere, portare l’uomo sulla soglia dell’indicibile. Ungaretti cercava di «popolare di nomi il silenzio». È questo che deve fare l’arte secondo Recalcati.
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http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2016/11/19/per-avvicinarci-allessere-ci-resta-solo-larte44.html?ref=search
RECALCATI: «L’ARTE? ESTRARRE LA FORMA DALL’INFORME»
«Interrogo su quale sia il segreto più profondo di un’opera d’arte. Questo segreto io lo chiamo l’inconscio dell’opera. Ogni opera d’arte degna di questo nome ci appare come un testo inesauribile, intraducibile, come un enigma che non si lascia mai risolvere. È questo che mi interessa quando guardo un quadro: quale segreto vi è custodito?».
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http://messaggeroveneto.gelocal.it/tempo-libero/2016/11/20/news/recalcati-l-arte-estrarre-la-forma-dall-informe-1.14445481
IL MONDO DI DONALD. Il ranocchio ha battuto la Vecchia Papera, convinta (sbagliando) di avere almeno le donne dalla sua
Attendere sul lettino Woody Allen è una pacchia per lui e per il suo psicoanalista, quanti sogni, quanti dubbi, racconti e superbe gag; stendere Donald Trump potrebbe invece risultare pericoloso, un uppercut del presidente, incurante di sapere che la famosa “restituzione analitica” non è un cazzotto ma una parola. L’uomo è tosto, delle parole che non siano le sue fa volentieri a meno: il suo ultratrentennale maggiordomo di fiducia, Tony Senecal, quello che chiede d’impiccare Obama, intervistato nella reggia marina di Trump davanti a un monumentale bar con tanto di ori e argenti, spiega che per un po’ di tempo il suo Padrone possedeva la biblioteca più fornita della Florida ma poi, visto che nessuno dei suoi figli e amici, e lui per primo, ci attingeva, l’ha trasformata in qualcosa di più sana e efficace, l’alcol appunto. Lo capisco, io stesso ho rinchiuso i miei libri in uno sgabuzzino impenetrabile e mi guardo bene dal leggerli tanto meno dal rileggerli, e mia figlia strilla: padre dove sono i libri? E io a dirle che quel che ha letto le basta e avanza, che sono tutte sciocchezze. Casomai li sogno, i libri, come penso faccia Trump nel suoi momenti di abbandono.
Che sogna? Una gloria immortale? Uno stuolo di fanciulle che lo coccolano? Una partita di rugby con gli amici? Un mondo nuovo? Certo non il mondo delicato e poetico di Allen, probabilmente un mondo robusto, dove lui e i suoi fedeli possano misurarsi con gente della loro stazza: subito ha eletto a primi interlocutori i messicani e i cinesi, tipi che in qualche modo gli somigliano, lui che ricorda strani animali tra il coccodrillo e la rana gigante, con un qualcosa di ben pasciuto e sensuale. Se al colmo dell’euforia Madonna prometteva pompini a tutti quelli che votassero Hillary – come a dire che Hillary non potesse offrire altrettanto, e questo certo non le ha giovato – Trump non si è tirato indietro e totalmente si è offerto con quella sua accattivante boccuccia, senza peraltro dare una minchia e tutto prendere, con un compiacimento che Madonna neppure si sogna; strappando così Trump il primato a Nonna Papera, che pure era una dura che te la raccomando, capace di dominare un marito e di salvarlo da una tipetta che in fatto di pompini non scherzava.
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http://www.ilfoglio.it/la-politica-sul-lettino/2016/11/16/news/trump_hillary-clinton-donne–106950/
TRUMP. COLLOQUIO TRA UN NORD-AMERICANO E UN EUROPEO
Pakman – Il trionfo di Trump ha risvegliato molti stereotipi anti-yankee. Per esempio che l’“America” mostra il suo “vero Self” – concetto assai dubbio – la stupidità del suo popolo, la mancanza di cultura dello stesso, il suo razzismo, ecc. Nonostante il momento orribile, credo sia utile ricordare che Trump ha vinto per il consenso della metà dei votanti, che l’altra metà ha votato Hillary Clinton, come di solito accade in democrazia, comunque la si pensi a proposito del sistema democratico. Così vinse anche Obama, così accade quasi sempre, salvo nei paesi dove un candidato vince con maggioranza schiacciante, in generale con la massima frode. La metà che perde non scompare e, si potrebbe aggiungere, è “il nucleo autentico del popolo statunitense”, anche se ciò appartiene al pensiero di chi ha perso. Per molti, benché l’ideologia di Trump sia affine al fascismo, le sue azioni di governo saranno orientate al pragmatismo, alla convenienza, che gli permetterebbe di affermarsi su differenti fronti, contraddicendo le proposte della sua campagna elettorale, sperando che il gioco delle forze interne al governo si esprima intorno a ogni tema da affrontare.
Barbetta – Qui in Europa, in giro per le città, quando ascolti i discorsi da bar, senti la signora che dice: “Son contenta che abbia vinto Trump! Mica la Clinton che imbroglia e mente!”. L’astrazione teorica è moralistica e menzognera, su questo la signora del bar ha ragione. L’idea che la sinistra abbia una superiorità morale è elitaria e falsa. Un tempo erano i benpensanti di destra a considerarsi superiori sul piano morale. La sinistra decostruiva la dimensione oscena di questa supposta superiorità: La classe dirigente, di Peter Medak, Indagine su di un cittadino al di sopra di ogni sospetto, di Elio Petri, sono solo due esempi, tratti dal cinema, di questa critica radicale al moralismo di destra. Dobbiamo prendere atto che oggi la prospettiva si è ribaltata.
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http://www.doppiozero.com/materiali/trump-colloquio-tra-un-nord-americano-e-un-europeo
LA FERITA DEL GIOVANE PAPA POTRÀ DIVENTARE POESIA. Il segreto di Lenny Belardo, “The Young Pope”, è di essere stato un figlio abbandonato, tema sorrentiniano della perdita
«Chi è Dio?», «Dov’è Dio?», «Cos’è Dio?». Sono le domande incalzanti che risuonano insistenti in The Young Pope, l’ultimo grande film di Paolo Sorrentino trasmesso per Sky nella forma del serial televisivo che oggi si conclude. Domande che il giovane papa, Pio XIII, interpretato da un intensissimo Jude Law, non cessa di porsi sebbene sia stato nominato inaspettatamente dal Conclave erede di San Pietro. Domande che costituiscono uno dei centri più forti della narrazione di Sorrentino sullo sfondo della triste fenomenologia della degradazione morale del clero e delle sue gerarchie vaticane, dei giochi di potere, del cinismo e del carrierismo narcisistico. Nel suo sembiante Pio XIII si presenta come un papa che non conosce la subdola minaccia del dubbio. Il suo magistero viene impostato come anti-illuminista e anti-conciliare. Il suo programma restauratore è quello di rovesciare ogni forma patetica di evangelizzazione per ripristinare la verticalità assoluta di Dio in totale controtendenza rispetto al nostro tempo. Appare spietato, persino sadico, coi suoi nemici cardinali e un abile stratega nel rapporto col potere temporale. In contrasto con la sua giovane età si presenta come il difensore implacabile e severo dei principi più dogmatici della dottrina, antagonista al multiculturalismo ipermoderno, contrario ad ogni forma di liberalizzazione, integralista, sostenitore della fede senza incertezze e dell’infallibilità assoluta del pontefice.
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http://www.psychiatryonline.it/node/6505
NOSTALGIE PREGRESSE NELL’INCONTRO CON L’ALTRO. L’altro lo si incontra nella perdita dell’equilibrio, cui siamo spinti dal presentimento della sua presenza: questa la tesi di “Il desiderio che ama il lutto”, di Sarantis Thanopulos per Quodlibet
La nostalgia, dolore della lontananza e del ritorno, non confonde e sfuma i contorni dell’oggetto desiderato, li rende, al contrario, nitidi, stagliandolo come una miniatura sullo sfondo. Lo aveva compreso con straordinaria limpidezza Bachelard, quando scriveva: «La lontananza non disperde nulla, al contrario raduna in una miniatura un paese in cui piacerebbe vivere. Nella miniatura della lontananza, le cose disperse giungono a comporsi e si offrono allora al nostro possesso, negando la lontananza che le ha create». L’ambiguità del desiderio si riassume in una dolorosa combutta tra appartenenza e distanza, tra possesso e imminenza della diversità. Questo è il tema che Sarantis Thanopulos isola con forza fin dalle prime pagine del suo ultimo libro, Il desiderio che ama il lutto (Quodlibet, pp. 96, euro 14,00) e che pedina con fedeltà fino alla fine.
Contrariamente a quanto emerge da un rapido sorvolo sulla storia della psicoanalisi, affezionata al topos della mancanza e del vuoto, Thanopulos concepisce il desiderio come una dimensione psichica fittamente popolata, abitata dai suoi oggetti. Esso si presenta non tanto come luogo instabile di una spinta sostenuta dalle nostre rappresentazioni e immaginazioni – come vuole Freud –, o come dinamismo ostinato del senso, messo in moto da una privazione originaria e guidato dai nostri fantasmi – secondo quanto scrive Lacan – piuttosto interpella, al pari del godimento, la corporeità e le sue pulsioni. È proprio la pervasiva sensualità del desiderio ciò che lo rende aperto al mondo, disponibile al contatto con l’alterità. A parlarci del desiderio è il volto della persona amata; proprio quel volto lì, nella sua assoluta individualità e autonomia, sentito nella sua imminenza da quando abbiamo imparato a staccarlo da noi, pur continuando ad avvertirlo come il luogo ardente della nostra passione. Presentimento, imminenza, inquietudine dell’aspettativa, degustazione dell’attesa sono le anime del desiderio, conteso tra l’essere e l’avere, tra l’intimità e la distanza. Potremmo dire che l’ontologia del desiderio è l’ontologia del presentimento inaugurato dal lutto e dalla nostalgia.
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http://ilmanifesto.info/nostalgie-pregresse-nellincontro-con-laltro/
NON È PIÙ IL LAVORO MA LA SUA ASSENZA A GENERARE MOSTRI
In Marx la critica allo sfruttamento del lavoro proprio del regime capitalista si è sempre accompagnata ad una valorizzazione del lavoro in quanto tale. Anzi, nei Manoscritti economico- filosofici del 1844 l’umanizzazione della vita non può che compiersi attraverso il lavoro che è innanzitutto il modo col quale si manifesta l’“essenza” dell’uomo in quanto tale. Se, infatti, il capitalismo deruba l’uomo della sua umanità, rendendolo simile ad una bestia da soma, è perché si è indebitamente appropriato del prodotto del suo lavoro. In questo modo ha reso impossibile quel riconoscimento del valore della vita umana che dovrebbe realizzarsi quando il lavoratore può specchiarsi nel prodotto del suo lavoro. È questo, in estrema sintesi, il carattere alienante dell’espropriazione capitalista del lavoro operaio: il lavoratore perde contatto con l’oggetto del proprio lavoro e con il senso stesso della sua prassi. Esiste però una tendenza interna al marxismo dove questa valorizzazione del lavoro viene negata identificando l’attività stessa del lavoro – e non la sua forma alienata prodotta dal capitalismo – come una attività di mortificazione e di sfruttamento dell’uomo. Questa tendenza ha avuto diversi interpreti (da Andrè Gorz ad Herbert Marcuse, per lo più travisato, sino ai più recenti contributi di Robert Kurz, filosofo marxista tra gli autori di un eloquente Manifesto contro il lavoro redatto nel 2003) ed è quella risultata culturalmente dominante nelle contestazioni del ’68 e del ’77.
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http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2016/11/20/non-e-piu-il-lavoro-ma-la-sua-assenza-a-generare-mostri56.html?ref=search
«OGNI GIORNO E' UN BUON GIORNO PER INDIGNARSI!». Lo psicanalista: «Dedicare una sola giornata ai diritti del fanciullo è inutile se non proviamo a riflettere quanto i bambini siano ancora vittime giorno per giorno»
«Ogni giorno è un buon giorno per indignarsi!» È lo slogan dell’Unicef per la Giornata mondiale dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza che si celebra il 20 novembre. Credo si debba condividere. Anzi anch’io, come tanti altri che si occupano di abusi sui minori e di prevenzione, lo penso da anni. Perché fa indignare moltissimo la storia triste di una madre alla quale, dopo 5 anni di allontanamento dal figlio perché ritenuta maltrattante, viene riconosciuto che il «fatto non sussiste», mentre suo figlio ha dovuto crescere senza il suo supporto. Celebrare la giornata dei diritti del fanciullo è inutile se non proviamo a riflettere quanto i bambini siano ancora vittime che pagano direttamente alti costi derivanti dalla violenza degli adulti.
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http://www.ladigetto.it/permalink/59886.html
PADRI E FIGLIE. La mondanità raffinata di Marina Ripa di Meana, così diversa da quella di Ivanka la saggia
di Umberto Silva, ilfoglio.it, 22 novembre 2016
Curiosità, terrore, speranza, paura, riso… Sono i sentimenti che fanno da ambigua corona – spine o alloro? – all’ascesa al potere di Donald Trump e della sua corte. Attendo i primi passi dell’esecutivo per potere stendere Trump sul lettino avendo a disposizione del materiale adeguato, originato da un concreto fare e non da supposizioni. Subito però mi va di segnalare un qualcosa che ho il coraggio di chiamare positivo, Ivanka Trump, moglie di un ricchissimo ebreo e madre di tre figli. E’ una bella ragazza anche se non precisamente il mio tipo, ha una luce negli occhi nei quali si legge una forte determinazione e fin quasi una lotta con quel padre che amatissima ama, al punto che Donald le concede un’attenzione che a nessuno si sogna di dare. E’ figlia di quell’Ivana che senza tregua si esibì sul grande palcoscenico della mondanità più sgangherata, ma Ivana con la “k” le dista chilometri, c’è in lei un qualcosa di nobile, pare abbia ordinato al padre di non infierire sul cadavere di Hillary, madre della sua amica Chelsea; e quando la si vede accanto al padre Donald è come se si scorgesse nel suo volto un’apprensione, che genera un pensiero più acuto di quello paterno. Sembra insomma che la figlia stia preordinando il modo con cui moderare la repubblicana irruenza. Donald d’altronde non aspetta altro: incestuoso e folle come il celebre Père Goriot che nel romanzo di Balzac insegue le figlie per donar loro l’ultima briciola dell’immenso patrimonio dilapidato per i loro capricci, altrettanto Trump è pronto a fare, ma non ce ne sarà bisogno: Ivanka è saggia.
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http://www.ilfoglio.it/la-politica-sul-lettino/2016/11/22/news/donald-trump-ivanka-marina-ripa-di-meana-107370/
C’È POCO DA RIDERE?
Mi capita spesso in questi giorni di sghignazzare. Eppure non c’è veramente niente da ridere in quel che sta succedendo nel nostro mondo, vicino e lontano, né tanto meno di noi stessi. La causa delle mie risate è che mi è capitato tra le mani un libretto fantastico, appena pubblicato: Tempi Felici (1972; traduzione italiana di Adelphi), dello scrittore ungherese Ferenc Karinthy (1921-1922), autore del già straordinario Epepe (1999; trad. it. Adelphi, Milano 2015). Il protagonista, Józsi Beregi, un giovane ebreo appassionato di calcio, in fuga dai tedeschi e dalle famigerate Croci Frecciate, nella Budapest del dicembre 1944, con le truppe sovietiche ormai alle porte, passa da un’avventura sessuale all’altra con donne che lo nascondono, proteggono e, soprattutto, sfamano. Così la tragedia (che vide il massacro di 600.000 ebrei ungheresi) passa sullo sfondo della Storia, e ciò che ha il sopravvento è la risata, che raggiunge il culmine quando Józsi si salverà seducendo la popputa crocefrecciata che lo ha arrestato e lo sta conducendo al Danubio (dove gli ebrei venivano legati due e due e, per non sprecare colpi, gettati assieme nelle acque ghiacciate): suadente e maliardo, le dice che la immagina in sottoveste nera, annusa da esperto il suo profumo, e così finisce a letto nella calda e ben approvvigionata casa di lei…
Mentre leggevo Tempi felici un po’ mi vergognavo delle mie risate, perché il contesto nel quale si svolgeva la vicenda era decisamente tragico. Ma la spensieratezza sessuale del protagonista è talmente forte da suscitare un’ammirata ilarità. Questo libro mi ha fatto tornare in mente un romanzo della letteratura italiana parecchio trascurato: Una donna al giorno di Giovanni Comisso (pubblicato nel 1949; oggi: Neri Pozza editore, Vicenza 1996). Tralascio la questione filologica, ormai risolta, se l’autore, che compariva nella copertina della prima e censurata edizione, fosse Gigetto Fugallo, alias Gigetto Pavanello, oppure veramente Giovanni Comisso. Il giovane soldato italiano, protagonista del romanzo, attraversa la mattanza della Seconda guerra mondiale prima in Grecia, poi a Budapest (di nuovo Budapest! che, tra le due guerre, era in effetti considerata, grazie ai suoi romanzi e alle operette, la capitale di una certa “leggerezza del vivere”), fino a Danzica e infine in un campo di prigionia tedesco di Bromberg… Non c’è donna che questo italico militare, degno erede del buon soldato Sc’vèik, non si porti a letto. La girandola di focosi amori, nelle situazioni più improbabili, sortisce un sorprendente effetto comico. Dopo un po’, è come se la guerra con i suoi drammi scorresse accanto, quasi inoffensiva.
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http://www.ilpost.it/francescocataluccio/2016/11/23/ce-poco-da-ridere/
FEMMINICIDIO, DA FRIDA KAHLO A STIEG LARSSON I CONTI CHE NON TORNANO
Piaccia o no, la parola “femminicidio” è entrata nella lingua italiana. Oggi fa sorridere la garbata polemica cui hanno dato vita sulle pagine del Corriere della Sera e del blog la 27esima ora Isabella Bossi Fedrigotti e Barbara Spinelli a proposito della sua cacofonia e dell’opportunità (o meno) della sua adozione. La parola ha fatto capolino nel vocabolario italiano sospinta dai lavori dellaConvenzione di Istanbul 2011 sulla prevenzione e la lotta contro la violenza sulle donne e la violenza domestica, firmata dall’Italia nel 2012. Le posizioni delle due intellettuali, bene espresse dai titoli dei loro articoli: “Ma non chiamatelo più femminicidio” (Bossi Fedrigotti, 2012) e “Perché si chiama femminicidio” (Spinelli, 2016), sono rimaste emblematiche anche rispetto al dibattito successivo e ai tanti articoli che si sono susseguiti in occasione dei tragici eventi di cui la cronaca, con implacabile costanza, ci informa.
Tra le ragioni di Isabella Bossi Fedrigotti — scrittrice affermata e presidente di Plan International Italia, l’associazione internazionale impegnata per la difesa dei diritte delle bambine — c’era il timore che il femminicidio finisse con l’indicare una sottospecie di omicidio, in qualche misura meno importante dell’omicidio tout court, assieme a un certo (condivisibile) fastidio nel vedersi scalzata dal posto di donna — un al di là della natura che non deve attendere l’altra vita — in (s)favore dell’al di qua del mero dato naturale femminile. Per rassicurarla, Barbara Spinelli le snocciolava le ragioni (storiche) della parola femminicidio già raccolte nel suo libro dall’omonimo titolo (Feltrinelli, 2011). Il manifesto delle donne che con forza hanno voluto il conio di questa nuova parola lavorando di concerto sul piano politico e giuridico per la prevenzione di questi fenomeni, è il famoso quadro del 1935 intitolato Unos cuantos piquetitos (solo qualche piccola punzecchiatura) della pittrice messicana e militante comunista Frida Kahlo. L’opera raffigura una donna uccisa per gelosia a coltellate e il suo assassino, includendo nella rappresentazione, sul modello degli ex voto, una frase di quest’ultimo riportata dai giornali. Un’opera decisamente avanguardistica non solo per l’inconfondibile stile dell’artista, oscillante tra l’onirico e il naïf, ma per la potente capacità di anticipare una sensibilità allora pressoché assente e in grado di riconoscere nella stessa frase dell’assassino, che dà il titolo al quadro, la volontà di svilire la donna anche nel corso del dibattimento processuale.
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http://www.ilsussidiario.net/News/Cultura/2016/11/25/LETTURE-Femminicidio-da-Frida-Kahlo-a-Stieg-Larsson-i-conti-che-non-tornano/734749
Ma perché le donne restano?
Vorrei mettere in luce un aspetto trascurato che riguarda la violenza sulle donne, proprio in questi giorni che possiamo avere un ascolto più attento grazie alla istituzione della Giornata mondiale contro la violenza sulla donna. Nei dibattiti che ascoltiamo, nei discorsi degli esperti, nei libri che leggiamo troviamo molte riflessioni sul fenomeno, ma abbiamo anche la sensazione che non si tocchi il punto, sembra che non abbiamo ancora trovato un grimaldello abbastanza potente da modificare non dico il corso delle cose, ma almeno la posizione soggettiva della vittima. Fornire alle donne decaloghi di comportamento degli uomini violenti ha una sua utilità, ma occorre tener conto che una donna che si è legata a un uomo ammaliatore può non riconoscere, in lui, queste condotte pericolose. Una donna deve senz’altro sapere che il partner violento è quello che definisce unilateralmente le regole della relazione, che è geloso oltremisura ed esercita uno stretto controllo, che la ricatta e la svaluta psicologicamente, che vuole farla sentire sempre in colpa per poterla dominare e che tenta di isolarla dal mondo: si tratta di elenchi che non toccano, però, il punto nodale. Sono decaloghi che si continuano a ripetere come un mantra, ma che non sembrano promuovere un risveglio nelle vittime.
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http://www.doppiozero.com/materiali/ma-perche-le-donne-restano
LA DOPPIA UCCISIONE DELLA VITA. Pubblichiamo un estratto dalla relazione tenuta al convegno «Violenza contro le donne, violenza contro i minori: una legge non basta» (25 novembre 2016, presso la sede Fnsi). Gli orfani di madri assassinate dai padri sono bambini e adolescenti che non possono fidarsi più di nessuno. Devono essere accompagnati nel loro percorso di crescita per far fronte a un evento così tragico
La cifra «delle vittime delle vittime» del femminicidio è impressionante, una doppia uccisione della vita. In Italia, ci sono 1628 orfani. Figli che si ritrovano all’improvviso senza i genitori: perdono la madre, uccisa nella maggior parte dei casi dal marito o dal partner, e anche il padre, che finisce in carcere oppure si toglie la vita. I figli affrontano tutto ciò che segue travolti da uno tsunami, profondamente soli. L’onda ha reso tutti attorno protagonisti del «si salvi chi può»: i figli delle vittime sono per lo più abbandonati, spesso anche dalle istituzioni (che dovrebbero essere preposte a creare circuiti di aiuto), quando non immessi in percorsi di aiuto sterili se non dannosi.
PER QUANTO RIGUARDA i femminicidi, l’Italian Journal of Pediatrics ha documentato che dal gennaio 2012 fino al mese di ottobre 2014 sono morte 319 donne e ben 209 su 319 sono state uccise dal marito o ex compagno. In meno di tre anni, gli orfani ammontano a 417, di cui 180 minori all’epoca dei fatti. 52 di loro, di cui 30 minorenni, hanno assistito direttamente al terribile omicidio. Si può sopravvivere alla violenza, intendendo con questo l’atto che arreca morte, come pure il profondo malessere che lo precede e che è impastato di storia dolorosa, a volte abusante, altre di trascuratezza estrema?
Per molti bambini o adolescenti con lutti, la morte fa parte della vita, ma è difficile da tollerare e direziona passaggi complessi e perdite. L’uccisione in sé – e in modo particolare della madre da parte del padre – è qualcosa che segna violentemente (senza possibilità di agganci interni e, purtroppo, neanche esterni) l’essere al mondo di un bambino, un ragazzo, un adulto. Tutto è senza senso e, nello stesso tempo, assume un senso terribile. La persona che nella realtà – così come nell’immaginario – dovrebbe costituirsi assieme alla madre a protezione della crescita, dell’accoglimento dei disagi, delle paure e co-creatore di belle esperienze, si fa assassina. Invece di operare per la vita, quella vita la toglie. Ognuno di noi, di fronte a questo, rimane senza fiato, senza risposte, ma chi lo vive sulla propria pelle quale fiato per sopravvivere può trovare in sé? Come può funzionare la mente di fronte a simile ferocia? Quali stati dissociativi bisogna attivare per poter rimanere in vita e nel tempo fare integrazioni per ripristinare una speranza? Di chi ci si potrà mai davvero fidare?
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http://ilmanifesto.info/la-doppia-uccisione-della-vita/
La resurrezione e l’ibernazione della morte
Una quattordicenne inglese, malata terminale, ha chiesto di essere ibernata dopo la morte. Nella speranza di una sua resurrezione futura, affidata al progresso della scienza. La giustizia britannica ha risolto il conflitto tra i genitori divorziati della ragazza – la madre favorevole alla richiesta, il padre contrario – decidendo per l’ibernazione. Morire a 14 anni è troppo duro. Il desiderio di sconfiggere un destino implacabile è molto umano. Questo è il punto di partenza necessario per ogni considerazione ulteriore.
Il fantasma della resurrezione ha due declinazioni. La prima è il figlio messianico: muore simbolicamente (come figura reale) nelle difficoltà del presente, per far avvenire miracolosamente (come figura ideale) un futuro avulso da esse. La seconda mette in scena l’araba fenice: la donna-uccello che risorge sempre dalle ceneri della sua passione, che da esse trae la sua invulnerabilità, la sua forza.
In una prospettiva psicoanalitica, le due declinazioni si integrano tra di loro nella configurazione unica di una madre che si innalza al di sopra del suo infelice destino di donna, grazie a un figlio redentore. Il fantasma della resurrezione ha le sue radici nell’identificazione della donna con un’erezione dissociata dalla congiunzione erotica. Un movimento di elevazione che contrasta lo scioglimento in profondità del corpo femminile, sia nel senso di una sua contrazione, irrigidimento sia nel senso di una sua smaterializzazione.
Segue qui:
http://www.psychiatryonline.it/node/6521
REFERENDUM COSTITUZIONALE, MATTEO E L’ABBRACCIO DELLO PSICANALISTA
Massimo Recalcati è una gag. Patrimonio dell’Umanità sull’Unitàtv, il suo video leopoldino ci rammenta che questa stagione referendaria ha donato anche momenti di liberatoria comicità. Gli encomi per Renzi e la Costituzione pasticciata sono gioielli da museo. Rinomato psicanalista e saggista, Recalcati preso dalla sua attività professionale e conferenziera non si è accorto che il suo pupillo Matteo-Matteo è sfuggito al suo occhio benevolente. Il Renzocchio, che dovrebbe spalancare a noi tutti le porte del Futuro, si diverte come un discolo a fare ruba-bandiera. Un giorno il vessillo dell’Europa c’è, poi sparisce, poi ricompare, la volta prossima forse recherà nel cerchio delle stelle dorate una mano nell’italico segno delle corna. Ah quei “conservatori della sinistra massimalista” che non capiscono nulla! Non sanno cogliere il delicato balletto delle Smart esibite all’inizio dell’avventura governativa, quando Matteo-Matteo voleva fare vedere che si muoveva da cittadino qualunque. Smart rapidamente sparite e sostituite dall’imperiosa rivendicazione di un aereo presidenziale perché gli italiani sapessero che il nostro premier non è secondo a nessuno sull’orbe terrestre.
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http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/11/29/referendum-costituzionale-matteo-e-labbraccio-dello-psicanalista/3224194/
IL (DIFFICILE) MESTIERE DI GENITORE, ECCO COME È CAMBIATO IL RAPPORTO CON I FIGLI. Pubblichiamo l’introduzione al libro di Massimo Ammaniti e Paolo Conti sulle madri e i padri di oggi «Il mestiere più difficile del mondo (genitori)» (edito dal Corriere della Sera)
«Il mestiere più difficile del mondo (genitori)»: questo è il titolo del libro che nasce da una collaborazione fra me e il giornalista Paolo Conti. Fare il genitore è senz’altro complicato. Lo stesso Freud, in uno scritto del 1937, lo riteneva un mestiere impossibile, perché i risultati dell’educazione sono imprevedibili e i figli possono prendere strade inaspettate. Può succedere che un bambino proveniente da un ambiente colto e ricco di risorse prenda una direzione profondamente diversa, come capita alle piante che crescono in una serra. Ma può anche avvenire che il figlio di una famiglia senza molte risorse culturali ed educative raggiunga grandi risultati. Quando si ha un bambino non si può ipotecare il suo futuro, come scriveva lo stesso Freud, e forse proprio per questo è difficile fare il genitore, perché non si riesce a determinare il futuro dei figli. Oppure è un lavoro impossibile perché i genitori, inconsapevolmente, vorrebbero figli uguali a loro stessi, una specie di prolungamento narcisistico, ma alla fine sono costretti a riconoscerne l’individualità.
Segue:
http://www.corriere.it/cronache/16_novembre_30/difficile-mestiere-genitore-ecco-come-cambiato-rapporto-figli-a12c3d0e-b675-11e6-9fa1-de32925f0429.shtml
PATRIA E FAMIGLIA. Fidel Castro è stato un leader malvagio e dimenticabile. Ecco perché servirebbe fidarsi di più
Fidel è morto tanti anni fa, ora cerca di fare il vivo, suscita applausi e esecrazioni, stanchi entrambi, dimentichiamolo, non è mai nato, niente d’interessante, vecchia roba, pronta a nausearci fino all’ultimo; che Trump restituisca Cuba a Batista è l’invocazione di tutti i cubani. Più vivo, più nobile, il Che morto nella foresta, così che la musicale pasionaria Nathalie Cardone da anni, per un suo voto, possa cantare: “Aqui se queda la clara, la entrenable trasparenzia, de tu querida presencia, comandante Che Guevara”, alzando la gonna in omaggio alla bella muerte dell’eroe. Così come pudicamente la gonna trattiene Joan Baez ricordando due martiri assolti dopo anni di cimitero; “Here’s to you Nicola and Bart, rest forever within our heart…”, ci fai piangere Joan. Confesso di amare queste due canzoni, le ascolto la notte, qualcosa mi rapisce; sento fratelli maggiori Nicola e Bart, così umani, lavoratori; sento fratello minore e spaesato il Che, che va a morire per capire perché. Dall’altra parte del mondo sempre vivo è il lampo esotico ed esoterico della coraggiosa Gandhi che si fa sparare nel fiabesco giardino dai suoi guardiani, due eleganti sikh cari a Salgari, lui stesso nella misteriosa Torino uccisore di sé con affilata lama.
Segue qui:
http://www.ilfoglio.it/la-politica-sul-lettino/2016/11/29/news/patria-e-famiglia-108418/
(Fonte dei pezzi della rubrica: http://rassegnaflp.wordpress.com)
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