L'imperativo si dice così: non cedere su ciò che contraria il tuo desiderio
A. Badiou
Il rischio della filosofia/Una chance all’orrore dell’atto
Trovo molto significativo che Alain Badiou nel suo splendido Seminario interamente dedicato a Lacan, sul finire della sua argomentazione – ci troviamo in effetti nella penultima lezione – arrivi ad affermare, ripetutamente e con convinzione, che Lacan non ci dice niente riguardo a che fare nella direzione della cura: «I suoi discepoli lo sapevano bene, poiché non sapevano che fare. Sapevano organizzarsi, sapevano leggere, sapevano studiare, probabilmente sapevano anche analizzare, evidentemente – non sto accusando gli analisti – sapevano tutto questo. Ma, che fare?, in senso lacaniano, questo non lo sa nessuno»1.
Badiou è un raffinato lettore di Lacan. Per tutto il Seminario mette a fuoco con rigore la disposizione antifilosofica di Lacan, ossia l'avere dato vita a un pensiero, cioè a una congiunzione di teoria a pratica, del reale e dell'atto e non della verità e del senso. (A scanso di equivoci va detto che per Badiou fare veramente filosofia implica sempre fare antifilosofia, questo per varie ragioni, tra cui l'origine scissa della filosofia. Si tratta di un passaggio delicato che però esula completamente dalla nostra riflessione).
Con molta chiarezza Badiou sostiene che la teoria psicoanalitica ha valore unicamente in quanto capace di far fronte all'atto: «Il discorso analitico è la liberazione di una possibilità di far fronte all’atto analitico, di assumerne l’orrore, forse più precisamente, di portarne l’orrore, di portare e sopportare l’orrore dell’atto. Ecco a che cosa offre una chance la teoria analitica. Se essa non fosse questa chance offerta di far fronte all’atto, non sarebbe che un chiacchiericcio. Non sarebbe, in fondo, che filosofia truccata» (BL, p. 130). Allo stesso tempo sostiene che la pratica analitica messa a punto da Lacan – che in questo è a suo dire “propriamente rivoluzionario” – è la messa a punto di una prassi rivolta unicamente a determinare l'atto e a costringere il soggetto all'atto, cioè a congiungere il soggetto con il reale: «la posta in gioco della cura analitica sta nel rendere effettivo l'atto» (BL, p. 156), cioè nel permettere all’analizzante di decidersi per la congiunzione con il proprio reale.
Dopo aver tracciato questa traiettoria Badiou, come detto, e un po' a sorpresa rispetto alla traiettoria da lui stesso delineata, afferma che Lacan «non dice cosa bisogna fare!» (BL, p. 169) nella direzione della cura.
Badiou ha un'idea molto precisa sulla ragione che induce Lacan a non dire che fare.
Prima di entrare nel merito della spiegazione di Badiou non si può non notare una “strana” convergenza tra la sua affermazione e quella di tanti psicoanalisti lacaniani – direi soprattutto tra i più giovani, tra quelli così detti “in formazione”, tra quelli un po' grossolanamente detti “alle prime armi”. Ogni analista lacaniano avrà detto e sentito dire più volte: “perché Lacan non ci dice chiaramente che cosa fare nella direzione della cura, che fare nella direzione della cura?”.
Veniamo alla spiegazione di Badiou. A suo dire Lacan non ci dice che fare nella direzione della cura perché teme di diventare, così facendo, un filosofo, cioè di disporre nel sapere una verità sul reale. Lacan teme, secondo Badiou, che dicendo che fare articolerebbe un sapere nel quale è contenuta l'ipotesi di una verità sul reale della cura analitica. Ma che cosa significa per Badiou dire che fare nella direzione della cura? Significa spiegare quali sono le regole del luogo dell'atto, significa definire il sito nel quale fare accadere l'atto – questo perché, lo abbiamo detto, per il filosofo francese la cura analitica consiste nella produzione dell'atto con cui affermare il reale: «la cura è lo spazio dove un reale viene a dimostrarsi, con l'aggiunta che l'atto produce una rottura in questa dimostrazione» (BL, p. 149). Il problema di Lacan, il suo non dire che fare, consiste allora nel non definire il luogo dell'atto, nel non costruire un sapere come sito dove far avvenire l'atto analitico. Lacan non lo fa in quanto farlo sarebbe per lui far regredire la postura psicoanalitica alla postura filosofica: «L'antifilosofia [dunque la posizione di Lacan] si sostiene sempre sulla proclamazione dell'irriducibilità dell'atto, e, in nome dell'atto, stigmatizza la filosofia nella sua pretesa fondatrice a dispensare ovunque la colla del senso. Ebbene, ho la sensazione che tutto questo si accompagni sempre a una relativa indeterminazione, nel pensiero, del luogo dell'atto. E questo, per una ragione fondamentale, che è la convinzione, in tutti gli antifilosofi, che se si procede nella determinazione teorica del luogo dell'atto, si finisce per ritornare alla filosofia. […] “Che fare?” vuol dire: quale determinazione nel pensiero devo sostenere rispetto al luogo dell'atto? Che fare se sono un analista lacaniano? Ma determinare questo è troppo per un antifilosofo. E' troppo filosofico. E' il punto in cui riapparirebbe il pericolo della filosofia» (BL, p. 165-166).
Antifilosofia
A scanso di equivoci va detto che per Badiou questo timore di Lacan per la regressione alla filosofia è essenziale, è uno dei suoi grandi meriti. Si tratta di uno snodo essenziale, riporto a tal proposito tre passaggi molto esplicativi. Il primo: «Lacan ritiene sempre che, in definitiva, non bisogna fidarsi degli analisti. Bisogna sempre ricondurli a forza all’atto analitico. Sarebbe straordinario poter comporre un’antologia degli insulti rivolti da Lacan agli analisti. Sarebbe affascinate, non è vero? Nessun avversario della psicoanalisi oserebbe dire che un quarto della metà di ciò che Lacan dice agli analisti, soprattutto a quelli che vanno comodamente ad ascoltare il suo seminario. […] Vi sono innumerevoli testi in cui Lacan spiega che, ovviamente, gli analisti, specialmente gli analisti, e quasi esclusivamente loro, non hanno compreso nulla di ciò che egli va dicendo da vent’anni. Ma questo non gli impedisce che sia comunque a loro che egli parla con una pazienza angelica. […] Gli assai rari appelli ai filosofi che si trovano in Lacan sono evidentemente l’appello perduto, l’appello che dice, nello stesso tempo, che non ha nessuna possibilità di essere inteso […]. Per contro, Lacan non dirà mai di non avere nessuna possibilità di venire inteso dagli analisti, ma constaterà, prendendoli a frustate e a zampate, che non hanno compreso, che non comprendono, che sarà bene comprendano, che forse, un giorno, comprenderanno, che tra cent'anni comprenderanno, ecc…» (BL, p. 71-72).
Il secondo passaggio: «Per Lacan, proprio l’analista è minacciato dalla filosofia. Ma perché l’analista corre questa minaccia filosofica? Tra le altre cose, perché gli psicoanalisti sono troppo ignoranti di filosofia per misurare il pericolo che essa rappresenta. Paradossalmente, l'antifilosofo Lacan non smette di insultare gli analisti perché non conoscono la filosofia […]. E, tuttavia, si tratta comunque di sottrarli alla filosofia. Gli analisti devono leggere la filosofia, ma per metterla alla prova della legge definitiva del discorso analitico, e quindi non per entrare nella filosofia, ma per sapersene sottrarre. Ora, io credo che, di questa ingiunzione, si dia una ragione fondamentale: la psicoanalisi rischia costantemente di diventare un'ermeneutica del senso. Ecco perché si può dire che il suo pericolo più proprio è rappresentato dalla filosofia: dalla tentazione di dimenticare l'atto psicoanalitico a favore della posizione ermeneutica del filosofo. Trasformare la cura in una chiacchiera altezzosa» (BL, p.73)
Il terzo passaggio: «C'è una formulazione volgare della psicoanalisi – volgare ma straordinariamente tenace, e tenace tanto da essere una tentazione perpetua e immanente alla presentazione psicoanalitica – secondo la quale l'inconscio prodigherebbe la verità del conscio. Qui, coloro che sono di formazione lacaniana protestano vivacemente, dicendo: non si tratta affatto di questo! Ora, non è così evidente. Tenere fermo il punto che non si tratta di questo è, secondo me, uno dei grandi meriti dell'insegnamento di Lacan. In fondo, questa formula secondo la quale l'inconscio prodiga la verità del conscio è esattamente l'appropriazione filosofica della psicoanalisi. […]. Se si suppone che l'inconscio è il luogo di verità del conscio, allora la psicoanalisi non dà in nessun modo fastidio alla filosofia, proprio al contrario, essa le passa la staffetta o un rilancio. La liberazione della psicoanalisi da questa tentazione immanente, al punto della verità, di soccombere all'appropriazione filosofica, esige una determinazione antifilosofica. E questa determinazione filosofica, questa insurrezione antifilosofica indica, vi insisto, una minaccia immanente alla psicoanalisi, che è immediatamente la sovversione del suo atto, sovversione segnalata altrettanto immediatamente dal fatto che si è soddisfatti del proprio atto invece di provarne orrore [per Badiou si è analisti se e solo se si ha orrore del proprio atto]. In fondo, ogni uomo soddisfatto è un filosofo che s'ignora» (BL, p. 131-132).
Questi tre passaggi evidenziano l’importanza assoluta che Badiou riconosce all’ostinata e irriducibile antifilosofia di Lacan. Allo stesso tempo è proprio tale radicale antifilosofia a costringere Lacan – forse anche per troppo timore di scivolare nella colla del senso della filosofia e dunque perdere così di vista il reale della psicoanalisi, che è il reale dell'atto – a qualcosa di troppo mistico, o meglio di troppo mistico per Badiou, cioè a non definire il sito dell’atto, dunque a non dire che fare.
Fare/Atto
Mi pare sia possibile rispondere in tre modi, non necessariamente compatibili tra loro, alla tesi di Badiou.
Il primo. Badiou si sbaglia. Lacan dice spesso che fare. Tale obbiezione viene fatta anche da uno dei partecipanti al Seminario, che ad esempio ricorda l’esistenza di un testo di Lacan interamente dedicato alla direzione della cura, ma con convinzione Badiou continua a ribadire che: «non c’è nulla sulla direzione della cura nel testo La direzione della cura!» (BL, p. 170).
Con altrettanta convinzione si può dire a Badiou che Lacan dissemina i suoi Seminari e i suoi Scritti di che fare. Ma Badiou, come detto, è un lettore raffinato di Lacan, pertanto questa nostra risposta è legittima ma non del tutto convincente.
Il secondo. Badiou ha ragione – ha ragione in parte. Lacan non determina un sapere sul luogo dell'atto. Si muove in questo modo perché teme troppo di regredire in una postura filosofica – o forse possiamo dire noi in una postura psicologica: «un’ortopedia psichica che si accanisce con un’ostinazione ebete a voler rafforzare l’io, trascurando il fatto che ciò significa andare nel senso del sintomo, della formazione di difesa, dell’alibi nevrotico»2.
Allo stesso tempo occorre dire che Lacan non definisce il luogo dell’atto, ossia non dice che fare, perché per Lacan non c’è luogo dell’atto. Si tratta di un passaggio molto delicato, provo ad articolarlo con calma.
Badiou con molta precisione colloca il reale di Lacan nel sapere, come buco nel sapere, impasse della simbolizzazione, pertanto trova fondamentale predisporre un sapere nel quale produrre il suo buco e dunque liberare il reale come atto. Questo è per Badiou «il carattere arciscientifico della concezione lacaniana dell’atto» (BL, p. 81). Così facendo Badiou trascura l’ultima parte dell’insegnamento di Lacan – dalla quale a mio avviso è auspicabile rileggere tutto il suo insegnamento, o quanto meno è opportuno tenerne conto. Dico questo perché Lacan nell’ultima parte del suo insegnamento determina un altro reale, un reale staccato dal sapere, un reale che è un buco in sé e non solo un buco nel sapere. Rispetto a questo reale, che occorre fare accadere nell’analisi, ‘accadere’ in cui consiste l’atto analitico, non solo non è possibile la determinazione di un sapere che ne definisca il luogo in cui accadere, ma non deve esserci una tale determinazione del luogo, in quanto questa farebbe sì che si possa far accedere il reale nel sapere ma non il reale come tale – cioè l’altro reale su cui si orienta l’ultimissimo insegnamento di Lacan. Per questo Lacan non dice che fare, cioè non determina il luogo dell’atto.
Il terzo. Badiou ha ragione per sbaglio. Badiou dice che il modo in cui Lacan si rivolge agli analisti è volto a evitare che diventino dei filosofi. Allo stesso tempo a volte Lacan si rivolge agli analisti in quanto analisti, convinto che alcune cose che sta dicendo possano risuonare in loro solo ed esclusivamente in relazione alla loro pratica. Si tratta forse delle cose più semplici. All’interno di questo ragionamento la cosa più semplice infine è questa: Lacan non dice mai che fare nella direzione della cura perché nella direzione della cura non si tratta di fare, il fare è a carico dell’analizzante, a carico dell’analista c’è l’atto3, atto che non è mai dell’ordine del fare ma che esige una separazione secca dal fare. In quest’ottica l’analista, che è ciò attraverso cui c’è atto, è un «fannullone»
1 A. Badiou, Lacan, Orthotes, Napoli-Salerno, 2016, p. 164. Da qui in avanti le citazioni di questo testo saranno seguite dalla sigla BL tra parentesi con riferimento del numero di pagina.
2 J. Lacan, La psicoanalisi vera, e la falsa, in: Altri Scritti, Einaudi, Torino, 2013, p. 168.
3 J. Lacan, Le Séminaire. Livre XV. L’acte psychanalytique, (inedito).
4 J.-A. Miller, Il segno d’amore, in: «La Psicoanalisi» n. 24, Astrolabio, Roma, 1998, p. 30.
0 commenti