A San Giovanni a Teduccio, periferia napoletana degradata, è in scena Il sindaco del rione Sanità di Eduardo De Filippo. Frutto della collaborazione tra Mario Martone e il gruppo del teatro Nest, coordinato da Francesco Di Leva, lo spettacolo è di un’intensità rara. La regia di Martone esalta la limpidezza del testo e tende al massimo i conflitti che lo attraversano e lo sorreggono. La scelta di fare di Antonio Barracano (anziano nel testo) un uomo giovane, rende lo svolgersi degli eventi più lacerante e il finale più luttuoso, allontanando la fine violenta del protagonista dall’età del naturale trapasso.
La collocazione della situazione scenica nell’attualità, con chiaro, seppure discreto, riferimento alla serie televisiva Gomorra, non elimina i conflitti del passato, come qualcosa di anacronistico, datato, ma evidenzia il loro persistere come nodi irrisolti. Rimette in movimento il desueto -la loro carica destabilizzante sospesa- e riapre i giochi. La ferita di Napoli non è totalmente nel presente, perché una parte del dolore è stata anestetizzata, né nel passato, perché nel suo accadere non era stato possibile significarla adeguatamente (nel pieno delle sue conseguenze catastrofiche). La capacità di attualizzare un testo rendendolo inattuale, né presente né passato, non “alla moda” ma a noi “contemporaneo” (Agamben), rigenera le opere tragiche. Non aggiunge un significato nuovo, ma restituisce loro per intero un’assoluta e trasformativa dilemmaticità. Ne riattiva l’effetto catartico.
Gomorra rende il confine tra bene e male confuso e ambiguo, smarrisce la loro tensione. Mette in scena un al di là del bene e del male che produce fascinazione. Martone alloggia l’opera di Edoardo nell’al di qua del bene e del male, luogo in cui sorge il senso di responsabilità nei confronti di sé e dell’altro: il rispetto dell’oggetto desiderato come condizione di permanenza del desiderio. Senza di esso la distinzione tra bene e male, tra giusto e ingiusto, tra uguaglianza e sfruttamento diventa convenzionale, morale.
Antonio Barracano interpreta il suo ruolo di giudice improvvisato attingendo a una profonda conoscenza delle miserie della condizione umana, a partire dalla sua. Resta, tuttavia, prigioniero della prevaricazione e della violenza che, iscritta nella carne della sua vita, l’ha destinato all’autorefetenzialità. Il suo antagonista, Santaniello, un fornaio benestante, fatto da sé e rispettoso delle leggi, è un personaggio arroccato in un codice d’onore impersonale, che lo difende dai propri sentimenti. Dietro la sua adesione formale alle regole, è ugualmente autoreferenziale, ma non ha la tenuta etica di Antonio: è un uomo irresponsabile. Antonio sente che la responsabilità gli sfugge dalle mani, fino alla sconfitta finale, ma la insegue.
Cadono entrambi sul conflitto tra Santaniello e figlio. L’impossibilità di un riconoscimento reciproco tra padre e figlio preclude la differenza dei figli dalla madre, il fondamento del nostro legame responsabile con l’altro desiderato e con la legalità. Antonio non riesce a dirimere il conflitto perché è internamente impigliato in esso.
Per scelta della regia la rappresentazione finisce con una domanda di responsabilità di cui nessuno sulla scena può farsi carico. È diventata questione interiore degli spettatori, l’unico sbocco di una trasformazione finale possibile. Martone porta il teatro nel cuore di una Napoli tragica. Le emozioni coinvolgono, sconvolgono e respirano. Piacere di una vita che non si chiude nel suo degrado, né si imprigiona nell’ordine rassicurante di soggettività ripulite dai desideri.
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