Ciao, sono Marilyn, Marilyn Monroe, vi ricordate ancora di me? …i miei capelli biondi, i miei vestiti aderenti, avete presente? Ah sì, ecco, come questo, questo che ho addosso… Ma che sciocca, certo che si ricordano di te, baby, sei Marilyn Monroe! Voglio farvi sentire qualcosa di diverso, oggi, che so, parlarvi di quello che meno conoscete di me: una Marilyn diversa, Marilyn scrittrice, anzi no, poetessa, ecco. Insomma, eccovi qua, no? Io vi adoro, ma non so i vostri nomi, ma voi, voi tutti, sapete il mio. Perché il mio nome è Marilyn Monroe! Appunto… eppure… scommetto che la maggior parte di voi non ha mai sentito una mia poesia!
Di tanto in tanto
faccio delle rime
ma non prendetevela
con me.
All'inferno, so benissimo
che non si vende;
quel che voglio dire
è quel che ho in testa.
Dipingere i piatti
dipingere i desideri
con i pensieri
che volano via
prima che muoia
e pensare
con l'inchiostro.[1]
Che ne dite? Ho qualcosa dentro? Arthur direbbe che l’ha scritta una bambina di undici anni. Forse ha ragione, ma certo non una qualunque bambina di undici anni!
Poi, in fondo, quando ho scritto questa poesia avevo anche meno di undici anni, nel senso che avevo poca pratica. Ho, poca pratica. Ho scritto poche poesie. E, ragazzi, ci vuole il lavoro, per far bene le cose. Non c’è un’altra strada, io su questo non mi sono mai ingannata. Su altre cose forse sì, e più di altri. Ma su questo no. Voglio dire, sul lavoro. Ho sempre preso lezioni di recitazione. Per fare bene qualcosa bisogna lavorare.
Che poi io sia pazza, non lo so, mi sono sempre sentita sull’orlo della pazzia. Ma, per un’artista è normale, no? Io mi sono anche spinta sull’orlo della pazzia, per la mia arte. Per recitare. … O forse no… Forse è il contrario. Forse è stata la recitazione a tenermi… Sicuramente sono drogata. Prendo troppi sonniferi. Questo non mi piace, non mi è mai piaciuto. Se fossi più lucida, credo potrei recitare meglio. Questo non lo so. Sicuramente soffro anche per colpa loro. Ma se stai girando un film, la mattina devi avere un bell’aspetto. Devi dormire. Per questo prendo sonniferi.
Vabbè, non voglio farvi sentire tristi, vi leggo un’altra poesia:
Quel che ho dentro nessuno lo vede
ho pensieri bellissimi che pesano
come una lapide.
Vi supplico, fatemi parlare!
Ops, forse non era la poesia più adatta a tirarvi su. Vabbè ci sono sempre io. Però sono stufa di mostrarvi solo e sempre Marilyn. Non riuscite a capirmi vero? Bè allora vi dico molto di peggio, so che queste cose non volete sentirvele dire, ma Quella lapide è indispensabile perché tanto quella pesa, tanto Marilyn brilla. So bene che questo non volete sentirvelo dire, allora, ancora una poesia, è triste, ma è l’ultima, coraggio! Poi canteremo, balleremo, faremo l’amore!
Trentacinque anni vissuti con un corpo estraneo
trentacinque anni
con i capelli tinti
trentacinque anni
con un fantoccio.
Ma io non sono Marylin
io sono Norma Jean Baker
perché la mia anima
vi fa orrore
come gli occhi delle rane
sull' orlo dei fossi?
Io non capisco che cosa devo essere. Sii te stessa… ma me stessa chi? No, guardate adesso io non sto recitando Marilyn Monroe. Io adesso sono me stessa, non seduco, sono una pietra, non ho vita, nessuno mi guarda, io non esisto.
E’ qui che cade l’asino. Strasberg mi diceva continuamente di guardarmi dentro, voglio dire, io non lo sapevo cosa avevo dentro, secondo lui. Lee Strasberg è il mio insegnante di recitazione. Perché io voglio sempre migliorarmi ed essere divina, una divina vera attrice.
Il metodo di Strasberg all’actors studio consisteva essenzialmente nello sfruttare ogni ricordo e ogni esperienza di vita dell’attore, scavare nel proprio inconscio, tutto questo per creare il personaggio.
Dovevo dunque andare in terapia, così mi disse Lee: mi avrebbero aiutato a scoprire cosa avevo dentro. Eccomi, ecco cosa ho dentro, quello che ho dentro è quello che c’è fuori: pietra. Eccomi involucro senza vita, involucro che brilla solo se io divento Marilyn… nessuno mi vorrebbe così. Una pietra.
Sono orribile
ma datemi tempo
mi truccherò la faccia
ci metterò sopra
qualcosa di splendente
e sarò di nuovo
Marilyn Monroe.
Oppure:
Il mio involucro invecchia
ma io devo ancora nascere.
Margaret Hohenberg è stata la mia prima terapeuta. Appena quindici giorni dopo che Lee Strasberg mi disse di iniziare la terapia, cominciai ad andare nello studio della dottoressa, tre, quattro, anche cinque volte alla settimana. La Hohenberg era la terapeuta di Milton Greene, che allora era il mio socio in affari. Era un’ungherese di cinquantasette anni, grande e grossa, con i capelli bianchi legati stretti stretti a treccia intorno alla testa.
Io credo che Strasberg avesse ragione, che dovevo effettivamente andare in terapia, io mi fido di lui, è il mio insegnante di arte drammatica, prendo lezioni da lui perché non voglio essere solo una bambola sexy, ma anche una brava attrice. Ma Strasberg mi dice di guardarmi dentro, anche la mia psicoanalista diceva di guardarmi dentro. Dentro per lui vuol dire dentro al corpo, per lei dentro vuol dire dietro. Indietro nel tempo. Ho rovistato dentro e dietro, a quando ero piccola, per anni, ho speso una cifra irragionevole e… non viene fuori niente… niente che faccia la differenza.
La mia psicoanalista ha analizzato, interpretato ogni angolo del mio fottutissimo passato, soprattutto la mia in-fan-zia, da lì diceva lei, arrivava tutta la mia voglia-bisogno-amore per i fans. Davvero? No, affatto, lei non era per nulla simpatica, credo, da un certo punto di vista. Era una vecchia strega con quella sua treccia grigia sempre tiratissima, oh io soffro conciata così, soffro, con questo abitino strettissimo. Compro sempre gli abiti di due taglie più piccoli. Fanno tutto un altro effetto. Ma se cerco di prendere la stoffa con le punte delle dita, naturalmente non ci riesco, mi pizzico, Ahi! Mi sono presa la carne. Insomma tu nel tuo abitino che non ti lascia respirare e lei con la treccia stretta stretta. Lei, la tua fantastica dottoressa, quella che dovrebbe portarti non dico chissà dove, ma almeno a nascere… Come dice la poesia.
Forse avevamo bisogno di tempo. Tutti. Strasberg, Milton Greene, la Hohenberg. C’era bisogno di tempo, di millenni. Tempo perché la sua treccia lentamente si ammorbidisse, per cominciare a sentire i capelli tirare dietro alla nuca, tempo per amare il proprio corpo tanto da accettare di avere una treccia meno stretta, un abitino meno stretto, che lasci respirare. Qualcuno mi ha detto che in oriente credono che un ciclo di vita sia ben più di un’ottantina d’anni. Un ciclo di vita dura almeno millenni. Loro sì hanno tempo. Ma noi abbiamo così tante cose da fare in una vita sola.
“Il mio unico desiderio è fare del mio meglio, il meglio che posso dall’istante in cui la macchina da presa inizia a filmare sino alla fine. In quell’attimo io voglio essere perfetta, più perfetta possibile… Lee dice che devo partire da me stessa. Da me? Ma non sono così importante! Chi pensa che io sia, Marilyn Monroe o cosa?”[2]
Io ho bisogno di qualcuno… qualcuno che mi aiuti a trovare un personaggio più maturo, più semplice, più capace di riposarsi… Ora mi prendo un paio di pillole… Io ho bisogno di qualcuno che mi aiuti a nascere, non si può guardare dentro né dietro a qualcuno che deve ancora nascere. La Hohenberg questo non l’ha fatto: aiutarmi a nascere, intendo.
Essere Marilyn è faticoso, sì il mio corpo non ce la fa più, ma io non ce la faccio più. Ho detto io, io non ce la faccio più…
Ahhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhh!
(continua, forse)
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