Freud’s paper Das Unheimliche has always been a source of inspiration for film studies, but its interpretation is sometimes inaccurate and doesn’t pay too much attention to the crucial issue of the ambivalence of the other and the split identity. This paper thus intends to highlight the proper apllication of the uncanny in David Lynch’s filmography, by identifying in his movies the “intermediate spaces” between reality and phantasmatic which generate in the viewers those feelings of disorientation, confusion and ambiguity described by Freud in Das Unheimliche.
Il saggio di Freud Das Unheimliche è da sempre fonte di grande ispirazione per gli studi sul cinema, ma la sua interpretazione è a volte imprecisa e meno attenta di quanto dovrebbe al tema cruciale dell’ambivalenza dell’altro e dell’identità divisa. Il saggio si propone, dunque, di evidenziare nella filmografia di David Lynch, l’autore che più di tutti ha saputo trasporre nel cinema il concetto di perturbante, le corrette declinazioni dell’Unheimlich, individuando nei suoi film degli “spazi intermedi” tra la dimensione del reale e quella del fantasmatico che generano nello spettatore quei sentimenti di spaesamento, confusione e ambiguità descritti da Freud in Das Unheimliche.
Se c’è un tema freudiano che grande fortuna ha avuto negli studi sul cinema, quello è sicuramente Das Unheimliche, “il perturbante” nella più comune traduzione italiana. E tra i registi contemporanei è indubbiamente David Lynch colui che con più successo ha saputo trasporre al cinema il complesso sentimento di paura e angoscia descritto da Freud, o perlomeno quello a proposito di cui più spesso il perturbante viene tirato in ballo da chi vuole descrivere le atmosfere dei suoi film. Ma le sottili sfumature della definizione di Unheimlich fanno sì che nell’analisi del film spesso il termine perturbante sia ingiustamente confuso con un più generico terrore o senso di repulsione che proverebbe lo spettatore davanti a una certa immagine, idea che non rende del tutto giustizia a un concetto che risulta fondamentale nello sviluppo teorico di Freud. Oggi sappiamo che l’Unheimlich è in Freud la fondamentale scoperta dell’ambivalenza dell’altro; il perturbante è ciò che ci è familiare e che al contempo ci spaventa perché ci risulta estraneo. Il tema è dunque strettamente legato a quello dell’identità divisa e della coincidenza e non-coincidenza con sé stessi. E difatti Freud riprende, completa e pubblica il suo vecchio saggio mai terminato Das Unheimliche nel 1919, proprio mentre si dedica alla scrittura di Al di là del principio di piacere (pubblicato poi l’anno successivo, nel 1920), giacché i temi dell’ambivalenza dell’altro e del soggetto diviso anticipano, o meglio rendono più comprensibile, la seconda topica e il dualismo tra la pulsione di vita e la pulsione di morte.
Dove Lynch riesce straordinariamente a trasporre il sentimento del perturbante nell’arte cinematografica, pertanto, è nella sua capacità di cogliere e quindi di riportare proprio tale corretta interpretazione dell’Unheimlich, in particolare nella rappresentazione di quelli che già Žižek, senza che però lo collegasse specificamente al perturbante, ha chiamato “spazi intermedi”, cioè dei momenti, o dei veri e propri luoghi in cui la dimensione del reale e quella del fantasmatico si intrecciano, si sovrappongono, in uno spazio che il filosofo sloveno chiama di “violenza primordiale”, generando appunto nello spettatore una sensazione di confusione, di spaesamento che coincide esattamente con quella che Freud indica in Das Unheimliche. Spaesamento, d’altronde, è in un recente adattamento, proprio il termine scelto da Graziella Berto per tradurre Unheimlich.
Possiamo facilmente individuare tali “spazi intermedi” in diverse opere di Lynch, da I segreti di Twin Peaks (Twin Peaks, 1990), al dittico Strade perdute (Lost Highway, 1997) e Mulholland Drive (2001), al suo ultimo lavoro Inland Empire (2006). Nella nota serie TV, ad esempio, questo spazio coincide con un luogo, la loggia nera, in cui si sovrappongono realtà, fantasia, superstizione e magia, un luogo “altro” abitato da spiriti maligni che si impossessano delle persone, creandone in un certo senso un Doppelgänger malvagio che vive nella realtà, e sfruttando dunque nella maniera forse più tradizionale il tema del doppio e del familiare che risulta estraneo (basti pensare a chi è il colpevole dell’omicidio di Laura Palmer). Inland Empire, invece, è interamente giocato su questa ambiguità tra reale, finzione scenica, sogno, allucinazione, portando in un certo senso all’estremo un’idea che già caratterizzava parzialmente le opere precedenti. Il film, abbandonando apparentemente la logicità e la narrazione tradizionale, è interamente ambientato in questo “spazio intermedio” interdimensionale, in cui ogni personaggio presenta quell’ambiguità, quella coincidenza e non coincidenza con sé stesso che trasmette allo spettatore la sensazione del perturbante. Su tutti va citato il personaggio della anziana vicina di casa di Nikki, interpretato da un habitué del cinema di Lynch, Grace Zabriskie, che rappresenta in fondo un personaggio tipico in Lynch, la donna veggente, e che perfettamente incarna quell’ambiguità di chi è percepito come familiare (una gentile vicina) ed estranea (è pazza? ha poteri sovrannaturali?) allo stesso tempo.
Proprio per la particolarità di Inland Empire, più interessante è il lavoro che Lynch compie invece nei due film precedenti, Strade Perdute e Mulholland Drive, poiché qui le due dimensioni sono narrativamente nettamente separate a metà film, ma convivono comunque orizzontalmente in quelle sequenze in cui la dimensione onirica si inizia a sfaldare, ma la realtà non è ancora tornata. In Mulholland Drive, per esempio, che oggi interpretiamo comunemente come diviso in due parti, un sogno nella prima metà e la realtà nella seconda, quello che Paolo Bertetto chiama “punto di vibrazione”, cioè il mutamento di identità delle due protagoniste a mezz’ora dalla fine del film, è anticipato dalla progressiva sovrapposizione identitaria delle due donne (che omaggia Persona di Bergman) e dalla successiva scena del Club Silencio, che rappresenta perfettamente quel concetto di “spazio intermedio”, che potremmo meglio chiamare spazio dell’ambiguità perturbante. Non si tratta in realtà del primo momento di sovrapposizione, o meglio di affiancamento orizzontale, di realtà e immaginario; il film ne è pieno sin dai primi fotogrammi, in un continuo lavoro che Lynch fa con il doppio fine di giocare con lo spettatore, e al contempo di offrirgli delle chiavi interpretative. Unheimlich sono ad esempio i personaggi dei due anziani, a cavallo tra l’essere rassicuranti figure genitoriali e i peggiori fantasmi di Diane Selwyn; e perturbante è soprattutto la sequenza forse più terrificante del film, ambientata nella casa che si crede essere di Rita. L’indagine sull’identità della donna porta infatti alla scoperta di un cadavere disteso sul letto, che non è altro che un’anticipazione della fine della vera Diane. Naturalmente è il Club Silencio il vero e proprio “spazio intermedio” tra realtà e immaginario, in cui il processo di “risveglio” di Diane si fa più evidente e in cui gli indizi offerti da Lynch sulla finzione di ciò a cui abbiamo assistito fin ora si fanno palesi. «No hay Banda, è solo un’illusione» dice l’uomo sul palco, durante lo spettacolo a cui assistono sconvolte le due donne, e la voce della cantante, che continua anche dopo lo svenimento sul palco della donna, rappresenta senza dubbio quel “meccanismo semovente” (Melanie Klein lo chiamerebbe un “oggetto parziale”) che lo stesso Freud indicava come un esempio di elemento che genera la percezione del perturbante. Il tremore di Betty, inoltre, può essere letto anche come una metafora del suo risveglio da un sogno in cui sta irrompendo l’orrore della realtà, manifestato, appunto, dalla sovrapposizione delle identità delle due donne, le cui condizioni, scopriremo, essere state difatti rovesciate nel fantasmatico di Diane. Nella sequenza successiva, infatti, tornate a casa, in una scena a dir poco cruciale, Betty sparisce e, attraverso la celebre dissolvenza dentro la misteriosa scatola blu, si passa da quello che finalmente lo spettatore capisce essere un sogno, alla realtà, provocando naturalmente lo spaesamento dello spettatore voluto da Lynch. Sulla dinamica sogno/realtà è particolarmente interessante un spunto che ci offre ancora Žižek parlando proprio di Lynch e del suo Strade perdute, film per certi versi gemello di Mulholland Drive; secondo una logica strettamente freudiana, infatti, si rifugge nel sogno per scappare a una realtà che ci spaventa, che non ci piace, esattamente come fa Diane, e come, attraverso forse un’allucinazione, fa Fred Madison in Strade perdute. Riprendendo l’analisi che Lacan fa del sogno di Freud del figlio che brucia, è il sogno però che si tramuta in qualcosa di ancor più perturbante (il Club Silencio, il fallimento sessuale di Fred), e dunque ci si risveglia per sfuggire al sogno stesso. «La realtà – conclude Žižek – è per chi non è abbastanza forte per sostenere e affrontare i propri sogni[i]».
Veniamo dunque a Strade Perdute, dove il tema dell’Unheimliche è strettamente connesso al tema più generale del film, cioè quello della frustrazione della libido del protagonista. Fred Madison, infatti, è un mediocre esponente della classe media losangelina, che nella scena cruciale del film è incapace di soddisfare sessualmente la moglie, che difatti con molta probabilità lo tradisce. Quando dunque Madison la uccide, secondo la comune interpretazioni del film, assistiamo a una proiezione fantasmatica dello stesso protagonista, un’allucinazione in cui egli diviene Pete, e in cui tutta la logica che reggeva la prima parte del film viene rovesciata. Il giovane Pete è sessualmente straripante, Alice, reincarnazione di Renee, è una femme fatale che non può resistere al fascino dell’uomo, eccetera. Un’analisi più completa del film dovrebbe naturalmente soffermarsi a lungo sul personaggio di Mr. Eddy, una delle tante figure paterne che popolano l’universo lynchiano, ma qui ci interessano esclusivamente gli aspetti legati al perturbante. E prima di analizzare la scena chiave del film, quella dell’ultimo rapporto sessuale tra Pete e Alice, che precede la ri-trasformazione del giovane in Fred, è necessario citare brevemente la scena della festa a casa di Andy, in cui incontriamo per la prima volta Mistery Man. L’uomo rappresenta difatti un personaggio simile a quelli che popolavano la loggia nera in Twin Peaks, è al contempo un umano, come Madison e gli altri, che partecipa a una festa ed è amico di Dick Laurent, e un personaggio afferente al sovrannaturale, capace di essere in più posti contemporaneamente e di muoversi nello spazio-tempo. L’uomo del mistero è dunque la personificazione del male, ancora un altro esempio di soggetto che causa un effetto perturbante a causa della sua ambiguità, e che abita degli spazi, casa di Andy, casa di Fred e Renee, la casa nel deserto, in cui convivono reale e immaginario. La casa nel deserto è appunto lo sfondo della sequenza che, facendo il paio con il fallito rapporto sessuale tra Fred e Renee all’inizio del film, permette questo tipo di analisi psicoanalitica di Strade Perdute a proposito di cui, per motivi di interesse, non andrò ulteriormente nel dettaglio, rimandando alla letteratura dedicata. Scappati con i soldi di Andy, Pete e Alice arrivano nel deserto e si abbandonano a un appassionato rapporto sessuale; all’apice del rapporto, però, Alice sussurra all’orecchio dell’amante le parole “non mi avrai mai”, ristabilendo dunque l’ordine della coppia Fred-Renee, e rimarcando il fallimento della fuga fantasmatica dell’uomo, che quando si rialza è tornato appunto ad essere Fred. Da qui in poi entriamo esattamente in un altro degli “spazi intermedi” del cinema di Lynch; in una serie di scene non necessariamente lineari, in cui realtà e immaginario convivono, Fred incontra Mr. Eddy con cui parte una colluttazione che termina con l’assassinio di quest’ultimo (con l’aiuto di Mistery Man). Fred dunque fugge, va a casa sua, suona il citofono e pronuncia la frase “Dick Laurent è morto”, con cui lo stesso film iniziava (completando la torsione del nastro di Möbius che ben descrive la struttura narrativa del film), prima di rimettersi in auto e scappare inseguito dalla polizia. È ancora dunque il passaggio in questo spazio-tempo in cui reale e fantasmatico si sovrappongono a causare nello spettatore lo spaesamento, la confusione che genera il sentimento del perturbante. Lo stesso Freud non sarebbe forse riuscito a trovare un esempio così convincente di cosa possa essere il perturbante in un’espressione artistica come il cinema.
A completamento di questa analisi, va detto che già in film come Velluto Blu (Blue Velvet, 1986) e Cuore Selvaggio (Wild at Heart, 1990) dominano personaggi grotteschi, che la critica di ispirazione freudiana o lacaniana riconduce generalmente a figure paterne, e luoghi come la casa di Frank Booth in cui, citando ancora Žižek, “ogni inibizione sociale o morale sembra sospesa, dove tutto è possibile”. Ma a differenza della loggia nera di Twin Peaks, del Club Silencio, degli “spazi intermedi” di Strade Perdute e di Inland Empire, si tratta di personaggi e luoghi afferenti alla dimensione del reale, da collegare ad altri importanti temi tipici della psicoanalisi come il masochismo, il ridicolo, le istanze del super-Io. Una corretta interpretazione di Das Unheimliche, che passa anche dalle letture di Lacan e Derrida, e che ben è riassunta nel la lettura che Giovanni Bottiroli fa di Der Sandmann, il principale esempio artistico di perturbante segnalato da Freud, deve, a mio avviso, necessariamente abbandonare le tesi che lo pongono in relazione (specialmente negli studi artistici) solo all’angoscia di castrazione o al ritorno del rimosso, in direzione invece dell’identità divisa, dell’ambiguo, del doppio. Ed è proprio in questo senso che si indirizza il lavoro di Lynch, abile come pochi altri a trasporre nel cinema le sottili forme del perturbante, che ci riportano, fondamentalmente, alle divisioni che fanno essere noi stessi, prima di tutto dei soggetti divisi.
Bibliografia
- Paolo Bertetto, L’analisi interpretativa. «Mulholland Drive» e «Une Femme Marriée», in Metodologie di analisi del film, a cura di Id., Roma-Bari, Laterza, 2006.
- Giovanni Bottiroli, “Il perturbante è l’identità divisa. Un’interpretazione di Der Sandmann”, Enthymema, n. 12, 2015.
- Sigmund Freud, Al di là del principio di piacere, in Opere di Sigmund Freud vol. 9. L'Io e l'Es e altri scritti 1917-1923, Torino, Bollati Boringhieri, 1986.
- Sigmund Freud, Il perturbante, a cura di Cesare L. Musatti, Roma-Napoli, Edizioni Theoria, 1984.
- Jacques Lacan, Seminario X. L’angoscia, Torino, Einaudi, 2007.
- Slavoj Žižek, Lynch: il ridicolo sublime, Milano-Udine, Mimesis, 2011.
Marco Andronaco
email: marcoandronaco89@gmail.com
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