LACAN E LE SEDUTE A TEMPO VARIABILE. Intervista a Silvia Lippi

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22 luglio, 2017 - 20:14
NDR: Sul tema della variabilità del tempo delle sedute analitiche si è consumato, a suo tempo, lo strappo tra IPA e Jacques Lacan. Si tratta quindi di un tema clinico e teorico di grande rilievo su cui varrebbe la pena fare chiarezza anche perché nel tempo sono sorte ulteriori polemiche attorno alla durata intesa come BREVITA’ da alcuni ritenuta eccessiva delle sedute di analisi lacaniana. E’ un tema spinoso ma proprio come tale adatto ad una rivista libera  e polifonica quale è Psychiatry on line Italia ed è con questo spirito che proponiamo questa intervista.
Intervistando un lacaniano non si può pretendere che non usi un linguaggio lacaniano ma si può pretendere, e noi lo abbiamo fatto, che, per spirito di chiarezza e per uscire da veri o presunti esoterismi, ogni temine sia spiegato in maniera chiara per consentire anche a chi non conosce il pensiero di Lacan di comprendere pienamente il senso delle risposte. Non si tratta di semplificare o fare della divulgazione si tratta di permettere la comprensione e l’eventuale apertura di un dibattito attorno a questo testo.
 
Silvia Lippi, vive e lavora a Parigi, dove opera come psicoanalista nel pubblico e nel privato

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FRANCESCO BOLLORINO: Su quali basi teoriche e su quali presupposti clinici si basa, storicamente e contenutisticamente, la proposta tecnica di Lacan di istituire un setting in cui il tempo diventi variabile anziché con una durata prefissata e classicamente compresa tra i 45 e i 60 minuti come è nella psicoanalisi freudiana classica?
 
SILVIA LIPPI: Ciò che interessa à Lacan è la possibilità di un’apertura dell’inconscio in seduta. L’inconscio non conosce il tempo, e tuttavia si elabora nel tempo. Un tempo non lineare certo, che conosce delle sequenze di apertura-chiusura, dei tempi fecondi e dei tempi morti, e che ha un ritmo che gli è proprio. Come far coincidere il tempo cronologico (quello della seduta) con il tempo logico (dell’inconscio)? Impossibile. E se, eventualmente, il paziente ha bisogno di un “cadre” (setting) temporale, non è sicuramente il caso dell’inconscio, che se ne infischia delle nostre regoline, dei nostri principi stabiliti e rassicuranti per tutti (analista, scuola e paziente).
Il problema è complesso, lo psicoanalista ha a che fare con tre tempi distinti:
 
Il tempo della seduta
Il tempo dell’inconscio
Il tempo del soggetto
 
Ho lasciato volutamente da parte un eventuale quarto tempo, quello dell’analista, perché l’etica gli “impone” di avere un tempo che corrisponda a quello dell’inconscio, o per lo meno, è necessario che l’analista sia nelle migliori condizioni per adattarsi al tempo dell’inconscio, per favorire il tempo dell’inconscio. Così che nasce l’idea della seduta variabile, che è, effettivamente il tempo dell’analista in quanto denominatore comune degli altri tempi, quello della seduta, quello dell’inconscio, e quello del soggetto. La seduta variabile è un tempo “etico”, potremmo dire, che permette ai tre tempi distinti di tenersi assieme.
 
 
FRANCESCO BOLLORINO: Per tempo variabile si dovrebbe intendere un tempo che varia a seconda del momento analitico (per capirci da 1 minuto a molte ore per dire) ma nella vulgata e credo anche nella pratica questo si è trasformato, spesso, in sedute della durata molto breve e ancora si può paventare il rischio che tale durata breve, istituzionalizzata, diventi l’equivalente dei 45 minuti classici con il sospetto che alla fine significhi semplicemente poter ricevere più pazienti nell’unita di tempo. Che ne pensi?
 
SILVIA LIPPI: Lacan ha sempre fatto attenzione a quella che Colette Soler chiama “Una pratica senza chiacchere” (vedi il testo eponimo “Une pratique sans bavardage” in Travailler avec Lacan, Aubier, 2007). Inutile insistere, anche i “freudiani” lo sanno: l’associazione libera è un’arma a doppio taglio. Se da un lato libera il soggetto da un discorso sensato e sistematico, e ostacola il discorso intenzionale dell’io, dall’altro può diventare uno sproloquio infinito. L’associazione libera può diventare una “clinica delle ragioni”, quando il paziente, vuole “liberamente” spiegare, analizzare, dire tutto. L’associazione libera non assicura la formazione di lapsus, moti di spirito, neologismi, errori vari del discorso in seduta. Nessuna garanzia. Non è la strada sicura che ci conduce all’inconscio. Ma non ne abbiamo altre, di strade, che aprano all’inconscio.
Però abbiamo il tempo, tempo che può rivelarsi per noi un alleato. Quando ovviamente non lo prendiamo dal lato “cronologico”.
Da questo punto di vista, imporsi come un Es muss sein la “seduta lunga” o la “seduta breve” non cambia; le due hanno lo stesso valore, perché si rifanno ad una durata stabilita, imposta (dall’analista, dalla scuola o dal soggetto in analisi). Né l’una né l’altra sono una garanzia, anche se teoricamente, la seduta lunga come la seduta corta, possono dimostrare la loro efficacia. Ogni tipo di seduta, se istituzionalizzata, si equivale.
Detto questo, è vero che le sedute brevi — lo dico per averle sperimentate come analizzante e non solo come analista —, sono più “piene” (nel senso che Lacan dà all’espressione “parola piena”), più forti, più sorprendenti, più efficaci (sì diciamolo!), perché aiutano a vivere — nel corpo — l’instabilità, la variazione, e tolgono una certa pesantezza alla parola sotto transfert. Ed è più difficile, dopo una seduta breve (di cinque, sette, massimo dieci minuti), uscire dallo studio dell’analista aggrappati ad una nuova evidenza, a del “già-detto-che-ci-sembra-nuovo”: no, questo tipo di gratificazione post-seduta non funziona quando il tempo della parola è corto.
Detto questo, le sedute brevi che ho vissuto erano sempre inattese, sorprendenti, per l’appunto. Non era la regola. Nessuna abitudine: la fine della seduta — ogni tanto —arrivava come in un baleno. Tutto ciò era un po’ destabilizzante, ma sicuramente intenso. E mai, dico mai, mi sono sentita abbandonata o trascurata dall’analista.
Alcune volte uscivo dalla seduta e non mi ricordavo niente. Il vuoto completo nella testa. Altre volte una parola si fissava, e restava fissata nella mia mente per giorni: per forza era — quasi — la sola parola che avevo potuto dire!
Ho anche avuto molte sedute più lunghe, dove mi perdevo nei meandri delle costruzioni immaginarie, che non mi portavano a niente. Altre volte le stesse costruzioni mi davano l’impressione di aver scoperto delle verità inaudite.
Ogni tanto la seduta si riempie di senso, e ogni tanto si svuota. Tutto ciò non è regolare, cadenzato, ovvio. Una analisi ha bisogno di ritmo, ritmo che implica delle variazioni e delle costanti. In questo senso, nessuno standard da seguire, praticamente e ideologicamente, ma solo un ritmo, ritmo che si può creare con ogni paziente, indipendentemente dalla struttura. E indipendentemente da un tempo prefissato.
Praticare come analista delle sedute a tempo variabile, significa trovare un ritmo proprio ad ogni appuntamento. Ogni seduta ha un ritmo singolare, al di fuori dal volere dell’analista o del soggetto. Dico volutamente seduta e non soggetto. Perché se ci si basa sul soggetto, sul tempo del soggetto, su quello che il soggetto reclama e di cui crede aver bisogno, si finisce per rispondere alla domanda, domanda che, come dice Lacan, è sempre una domanda di amore. E così l’analista, dietro alla maschera della deontologia professionale, entra suo malgrado nella compiacenza, vedi nella seduzione, nel consolidamento narcisistico del paziente.
Detto questo, bisogna fare attenzione al “gioco” del soggetto [nota bene: in francese “jouer” significa “suonare” e “giocare”], perché non si può giocare da soli. Il gioco dell’analista non è assoluto.
Il jazz è stato una grande scuola per me. Coltrane non suona nello stesso modo nel quintetto di Miles Davis che con il suo proprio quartetto. E come il musicista che improvvisa, l’analista interviene a partire da una situazione precisa. Prendere rischi non serve: se si rompe il transfert siamo fottuti, tutto il nostro lavoro è buttato all’aria. Inutile voler “tagliare” se non ci sono le condizioni, ma quando queste ci sono, bisogna farlo assolutamente, eticamente, oserei dire.
Nel jazz più creativo, come il free jazz, il problema della fine di un pezzo non è mai stato risolto. E’ una questione di swing, di orecchio, di tono. E per noi analisti, è lo stesso. Per questo dobbiamo essere liberi — almeno — sul tempo della seduta.
Come analista mi concedo questa libertà, mi concedo di “improvvisare” sulla durata delle sedute che pratico. È il ritmo che mi guida, ritmo che si installa a partire dal gioco del paziente.
Credo che la mia pratica della psicoanalisi in istituzione psichiatrica, in particolare con soggetti psicotici, abbia profondamente influenzato il mio modo di lavorare, anche quando sono di fronte a soggetti nevrotici, in studio privato. Con gli psicotici bisogna, di volta in volta, reinventarsi il setting, e ricreare il tempo, che non sarà mai quello degli orologi, il tempo cronologico. Lungo, corto, che importa? L’importante è di non fare del tempo una legge, per evitare, secondo la famosa tesi freudiana della Verwerfung, che il simbolico, in quanto legge, e non iscritto “dentro”, faccia ritorno “da fuori” come reale persecutorio.
Non fare del tempo una legge, mai: è il punto di partenza per ogni cura.
 
 
FRANCESCO BOLLORINO: Connesso con la durata variabile vi è il concetto di “taglio sulla parola”. Puoi spiegare tecnicamente e teoricamente il significato clinico di tale comportamento dell’analista lacaniano?
 
SILVIA LIPPI: Vorrei precisare che Lacan non ha mai “teorizzato” la seduta breve. La praticava certo, lo sappiamo. Non poteva teorizzarla come non si può teorizzare un intervento specifico con un soggetto isterico, o perverso, o psicotico, del tipo “Con un isterico bisogna fare così, con uno psicotico colà…,  etc.” Non so perché, certi psicoanalisti si fissano delle regole a partire da una teoria sommaria che rileva più del buon senso che dell’etica, e così si tramandano (me ne rendo conto soprattutto facendo supervisioni), una serie di stereotipi — come quello che non si deve mettere sul lettino uno psicotico, per esempio —, che servono solo a dare delle false sicurezze all’analista, a bloccare la sua invenzione, e soprattutto gli impediscono di essere nell’immanenza della seduta.
Quindi Lacan non teorizza la seduta breve, ma ci propone degli ampi sviluppi sul “taglio”, che alla fine del suo insegnamento diventa un quasi-concetto.
In termini generali direi che il taglio è una modificazione del godimento che si opera in analisi. Godimento all’interno del fantasma e godimento nella parola (lalangue). Nei due casi, quello che opera è la sorpresa del reale: un reale che non è più trauma o godimento mortifero, ma “evento” inatteso, perché, come dice Deleuze, il possibile è iscritto nell’evento stesso.
In questo senso, il taglio è una variazione, più che una barriera al godimento. Deleuze direbbe che è una differenza non oppositiva, non dialettica, ma una differenza resa possibile solo perché vi è continuità fra i termini. Nel nostro caso, continuità nel godimento che, grazie al taglio, si modifica.
Le operazioni in seduta che operano sul godimento sono di due tipi. Praticamente, si tratta di estrarre certi elementi dell’inconscio dal flusso della parola analizzante. In che modo? Attraverso:
1) la scansione. In questo caso, gli elementi che vengono estratti sono delle unità semantiche, cioè delle frasi o delle sequenze di frasi che si chiudono e si interrompono su una data significazione. La significazione fa punto di capitone, ed otteniamo così un’unità “conclusiva”.
2) il taglio. In quest’altro caso, gli elementi estratti sono delle unità asemantiche. Attraverso il taglio, si isola un significante, lo si stacca dal contesto, oppure si interrompe la frase prima della fine, sospendendo così il senso. In questo caso otteniamo un’unità non “conclusiva” ma “sospensiva”.
 
Le due pratiche sono fattibili indipendentemente dalla durata della seduta. Quando azionare una scansione o un taglio rileva, come abbiamo già detto, del ritmo e non per forza del senso.
L’avrete capito, si tratta di ricreare un certo stato musicale all’interno della cura. Scansione e taglio sono i nostri due strumenti, insieme all’amore e al tempo, ovviamente.
 
 
FRANCESCO BOLLORINO: Mi sembra che vi sia una dicotomia tra dominio del tempo (proprio della tecnica lacaniana) e dominio del timing (proprio della tecnica freudiana classica) accomunati dalla necessità o dal tentativo da parte dell’analista di intervenire nel momento migliore per creare consapevolezza nel paziente. Che ne pensi?
 
SILVIA LIPPI: La differenza tra la tecnica lacaniana e quella freudiana classica si colloca a livello dell’analista come oggetto del transfert. I freudiani classici analizzano il transfert (e il contro-transfert): “Dimmi quello che io sono per te”, o ancora, “Se io sono questo per te, allora tu sei…”. L’oggetto, in maniera previsibile, sarà quindi legato alla saga edipica o in connessione coi significanti degli oggetti parziali della pulsione. L’oggetto, a partire da questa tecnica, è preso interamente nell’involucro simbolico-immaginario.
Invece, l’oggetto che interessa a Lacan, è l’oggetto reale, quello che non si può dire insomma: è verso questo oggetto che tende l’analisi lacaniana. In altri termini, l’oggetto del transfert non è l’analista, ma questo oggetto reale. Attenzione: non si tratta di una ripetizione, di una riviviscenza del trauma, ma di un oggetto di cui le coordinate non sono situabili da nessuna parte.
Vi ricordate lo sciamano di Lévi-Strauss? E del confronto strutturale tra la psicanalisi e lo sciamanismo? Dietro alle due strutture, che operano grazie alla funzione simbolica, vi è qualcos’altro che le accomuna: un indicibile, che nessuna operazione scientifica potrà mai ridurre o spiegare. Se si vuole serrare la struttura, si perde l’operazione analitica. Non c’è niente da fare. Quindi non vi è nessun miglior momento per comprendere: la posta in gioco dell’analisi è un’altra.
Non so esattamente cosa voglia dire “dominio del tempo”: direi piuttosto che Lacan si iscrive in una corrente filosofica, di cui fanno parte Heidegger e Bergson solo per citarne alcuni, in cui il tempo prende una dimensione ontologica ed esistenziale, e non semplicemente cronologica. Il tempo non è neanche una “condizione dell’esperienza”, secondo la teoria kantiana del tempo come forma a priori della sensibilità.
A dire il vero, anche per Freud, sostenendo che l’inconscio è Zeitlos, “senza tempo”, contribuisce a creare finalmente à un’altra concezione del tempo. Ciò è evidente nel sogno, dove il tempo si esprime attraverso lo spazio: stiamo parlando ovviamente dell’ “altra scena” (che non è un teatro nel vero senso della parola, perché tutta cronologia è abolita), “altra scena” in cui il desiderio si esprime nel fulmine dell’istante.
Per Lacan, il tempo cronologico è, nella cura, sovvertito dalla logica dell’inconscio, che ha una temporalità propria. Il soggetto in analisi è tributario del tempo de suo inconscio: vi è un tempo per vedere, un tempo per comprendere e un tempo per concludere. La logica di questi tempi è quella dell’inconscio che non segue la cronologia ordinaria. Per questo non si può prevedere il tempo della seduta, né il tempo della durata della cura.
 
 
FRANCESCO BOLLORINO: Nella tecnica tradizionale per certi versi tutto si conclude all’interno della seduta mentre con la tecnica lacaniana sembra che il working through sia volutamente ed espressamente portato “fuori della stanza di analisi” con un lavoro affidato al paziente e alla sua introspezione. Che ne pensi?
 
SILVIA LIPPI: Non sono sicura che tutto, nell’analisi freudiana classica, si risolva nella seduta, dal momento che tutto è orientato dall’oggetto “analista”. Come lo scrive giustamente Colette Soler, l’analista è un oggetto ubiquitario, che segue il paziente dappertutto. Tutta la vita libidinale del soggetto in analisi è riorientata da questo nuovo oggetto.
Quello che avviene invece nell’analisi lacaniana, è una avventura “topologica”. Il “dentro” e il “fuori” (della seduta) non sono in opposizione tra loro, ma in continuità, o ancora, in contiguità. Detto questo, la differenza sussiste. La differenza è dell’ordine del taglio, di cui abbiamo già parlato.
 
 
FRANCESCO BOLLORINO: Ritieni possibile esportare il tempo variabile dentro setting non lacaniani ovvero utilizzare il tempo variabile come uno strumento di miglioramento della qualità clinica dell’intervento psicoanalitico?
 
SILVIA LIPPI: Assolutamente no. Quando facevo degli studi di psicologia, mi ricordo di certi insegnanti che proponevano una tecnica particolare di analisi a seconda del paziente che avevano davanti. L’analisi lacaniana va bene per i nevrotici, quella di Klein con i bambini, quella di Winnicott o Bion con gli psicotici, e via dicendo. Tra l’altro gli argomenti che venivano utilizzati per spiegare che una tecnica era meglio di un’altra erano tutt’altro che convincenti. E il risultato era una gran confusione, confusione che vediamo anche in alcuni approcci teorici, come quello del border-line, che mischiano la concezione strutturale di Lacan, con quella degli stadi kleiniana, e con la nosografia psichiatrica, classica o del DSM.
In ogni modo, mi sembra difficile praticare le sedute brevi quando non se ne ha fatto l’esperienza nella propria analisi. Non dico che sia impossibile, ma è sicuramente complicato. Me ne sono resa conto io stessa in una supervisione con un’analista che aveva fatto un’analisi classica freudiana. Le avevo suggerito di “scandire” in un determinato modo la seduta con una certa paziente. L’operazione era parsa all’analista che supervisionavo brusca, quasi violenta, o allora astratta, come manovrata da fuori. La questione della pertinenza della scansione o del taglio non si pone nella stessa maniera con gli analisti che sono stati abituati a questa pratica.
In generale, trovo aberrante mischiare le tecniche (kleiniana, bioniana, winnicottiana, lacaniana…), per il supporto teorico della nostra pratica.
In effetti, la teoria non è mai il supporto della pratica: se fosse così la psicoanalisi sarebbe un processo deduttivo. Non è vero neanche il contrario: la psicanalisi non è un’induzione. La teoria non è né un sostegno né una verificazione della clinica, ma il punto di raccordo fra l’etica e la pratica, come lo precisa Lacan nel suo “Atto di fondazione” del 1964.
Ogni metodo analitico ha il suo stile, che si crea a partire dal nodo specifico fra etica, teoria e pratica. E lo stile dovrebbe, a mio avviso, essere mantenuto.
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