Friedrich W. Nietzsche, Frammenti postumi, 1869/89
Ciò che può compiere un partigiano, indipendentemente da valutazioni di valore personale, è differente da ciò che può compiere un soldato di un reparto regolare. Chi crea è diverso da chi esegue, chi fa volontariamente una cosa è differente da chi vi è costretto, chi persegue un ideale costruttivo non è eguale a chi soddisfa un precetto legale. Nel secondo potrà esistere volontà e determinazione, ma difficilmente entusiasmo.
Giorgio Bocca
Cominciate col fare ciò che è necessario, poi ciò che è possibile. E all'improvviso vi sorprenderete a fare l'impossibile.
San Francesco d'Assisi
che nelle tenebre più oscure hanno tenuto
vivo e acceso il sacro fuoco della speranza.
BREVE STORIA DI VITA
Questa è la storia di un viaggio, un percorso vissuto all’interno della propria intimità, in regioni profonde e sterminate, anfratti paurosi ed angoscianti, laddove l’umanità morigerata e costumata mai si sognerebbe in alcun modo di metter piede. Il viaggio verso il buio, l’oscurità, l’abisso. In realtà un viaggio prestabilito dalla mia storia personale, una storia in cui l’apparentemente pacifico microcosmo di un paesino di provincia mi vedeva sin dalla tenera età sofferente e lancinato, nel corpo e nell’anima. Subito gli occhi della mente, andando a ritroso nel tempo, scorgono un volto, il volto di un bambino piangente, singhiozzante, col capo poggiato al vetro di una vettura e le lacrime che come piccoli torrentelli ne rigano i lineamenti. Sono lacrime per una perdita, la nascita ed i primi passi nel mondo di questa giovane creatura avvengono all’interno di un’atmosfera di perdita. La precoce dipartita del nonno paterno, il mese precedente alla mia nascita, mi aveva fatto venire al mondo all’interno di un pregnante universo di lutto e di malinconia. Una perdita costruita e vissuta, una perdita costantemente presentificata e rinnovata dal ricordo, dai mille ricordi, vari e cangianti, di questa figura maestosa, ed un quadro appeso fra le pieghe della memoria di un uomo d’acciaio, custode di una fiera tradizione paternalistica e maschilista, nel solco di un sistema di valori basato sulla fiera e onorata tradizione contadina del sud.
Ma io, al contrario, venivo su debole e gracile, più volte ammalato e affetto da una terribile diatesi linfatica, seppur sempre affascinato dal mondo ed ammaliato dalle sue meraviglie. Il “perchè” era l’interrogativo dominante nei primi anni di vita, i momenti del vorace adattamento al mondo degli adulti.
Il sogno infantile era quello di diventare archeologo, di scavare fra le pieghe della storia nella comprensione dei vissuti e delle esperienze che avevano fatto i grandi uomini ed i grandi popoli, le vicende dei grandi condottieri, da Alessandro Magno ad Annibale, da Cesare a Napoleone, ed ancora scoprire, insieme allo spirito di Schliemann, la Troia di Omero e insieme a Lord Carnavon e Howard Carter le meraviglie di Tutankhamon, il faraone bambino, e delle “cose meravigliose” racchiuse nella sua tomba. Scavare, andare in profondità, l’amore per gli anfratti, per le grotte, i cunicoli, le caverne, nessuna paura per il buio, la notte, l’oscurità. Il richiamo del Materno junghianamente inteso, l’avvicinamento alla luna, l’attrazione verso la Terra ed il Mare, la fascinazione magica dell’irrazionale. In nuce, già in questo sentire infantile ed adolescenziale, il destino di una vita e il richiamo simil-mistico per una professione ed un contatto nodale con una parte di me, uno scambio di sguardi umbratili, crepuscolari con l’Altro e con l’Alieno, carichi del magma fluente dell’esistenza. Un desiderio quasi fusionale, sicuramente pericoloso e “tecnicamente” deprecabile, ma caldo, vero, diretto, senza barriere, senza filtri.
E già in età infantile ed adolescenziale venivo nutrito da questo “pane quotidiano”, con una passione per gli eventi del passato che diventava sempre più crescente: ed era allora che i miei genitori organizzavano viaggi dal pregnante ed esclusivo portato culturale, formativi e pedagogici. Da allora imparavo e vivevo intimamente la fruizione olistica dell’opera d’arte e del monumento storico, fatta insieme delle facoltà dell’intelletto e del sentimento, una fusione quasi totalizzante col tempo del divenire ed un’immersione carica di meraviglia nel torrente della storia e del mito.
E nella scia di questa formazione scolastica e da autodidatta furono le esperienze storico-archeologiche fatte all’età di 16 anni in Valcamonica per la rilevazione delle incisioni rupestri del popolo pre-romano dei Camuni, sottomessi alla potenza di Roma a partire dal I sec. a.C. e successivamente nel 2003 e nel 2004 lungo l’antica via Amerina che collegava Veio con Ameria in Umbria, passando per i comuni di Nepet, Falerii, Fescennium, Gallese, Fasanello e Hortae. Si scavava allora appassionatamente nelle vicinanze dell’antica necropoli del popolo dei Falisci che costeggiava la strada, popolo anch’esso sottomesso a Roma dopo una strenua resistenza nel 241 a.C.
La curiosità conoscitiva andava di pari passo con la formazione umana del giovane virgulto, una formazione con i piedi ed il corpo tutto nella terra, nel fango, nella melma, di preparazione alle sabbie mobili dell’esistente e, metaforicamente, alla strenua battaglia contro le forze oscure della sofferenza mentale, della psicosi e, non ultima, della psicopatia. L’ingenuità e la semplicità contadina, mani e braccia tenaci e callose; pelli indurite e scurite dall’arsura e dalle afe estive. Ed i ricordi che vagano alla comunitaria cerimonia della “salsa”, ovvero alla preparazione della passata di pomodoro fatta in casa durante i mesi estivi con la catena di montaggio a conduzione familiare in un clima di festosa e gioiosa compartecipazione. Le cerimonie familiari si nutrivano giornalmente delle narrazioni dei nonni, quelle narrazioni antiche e sacre della tradizione, in particolare del nonno paterno, con i suoi vissuti di giovane adolescente costretto ad abbandonare la famiglia per andare al fronte in una scellerata guerra voluta per deliri di onnipotenza di scellerati fanatici. Un racconto colmo di avventure, paure, angosce, timori, incertezze. Viaggia la memoria, viaggia follemente nel tempo, ed arriva a posarsi sui fastosi e luculliani pranzi della domenica o dei giorni di festa, quando la nonna si dilettava a preparare le sue orecchiette fatte di sua mano con un prelibato e genuino sugo di carne. Il galateo ed ogni noblesse oblige erano lontani anni luce da una condizione di purezza e di incontaminazione che rousseauianamente rimandava all’immanente bellezza dello stato di natura.
“Come sarebbe dolce vivere tra noi, se l’atteggiamento esteriore fosse
sempre l’immagine delle disposizioni del cuore. […] Prima che l’arte avesse
modellato le nostre maniere e insegnato alle nostre passioni un linguaggio controllato,
i nostri costumi erano rozzi, ma naturali. […] la natura umana, in fondo, non era
migliore; ma gli uomini trovavano la base della loro sicurezza nella facile penetrazione
reciproca.” (Rousseau, 1750)
Quanto di quella genuinità e purezza è rimasta a tutt’oggi nel mio cuore e nei miei atteggiamenti, seppur la naturale perversificazione degli eventi del mondo me l’abbiano progressivamente nascosta, velata ed occultata da un manto di cupezza, di dubbiosità e di paura! Un contatto con un mondo sempre più difficile, aspro, controverso in cui spesso mi sono sentito come “costretto a viaggiar in compagnia di molti vasi di ferro”, essendo portatore di un’ intrinseca libertà, spregiudicatezza ed indipendenza di atti e parole di cui avrei pagato caramente il fio negli anni della tarda adolescenza e prima maturità. Ed il ricordo onnipresente di un bambino ed un giovane solo, spesso immerso nei suoi sogni e nelle sue fantasie, bizzarro, eccentrico, dal sorriso e dalla battuta facile, con un difetto non permesso al genere umano: l’essere vero, schietto, sincero, sin dall’età della fanciullezza. Un giovane abituato a dire en plein air le sue verità, a non velare la realtà dell’esistente con alcunché di ipocrita ed artifiziato, insomma ad essere se stesso e a credere nei valori più alti e nobili indipendentemente da dettami di alcun tipo, a maggior ragione se imposti con forza e violenza e dittatoriali.
“Anche sogliono essere odiatissimi i buoni e i generosi perché ordinariamente
sono sinceri, e chiamano le cose con i loro nomi. Colpa non perdonata dal genere
umano, il quale non odia mai tanto chi fa male, né il male stesso, quanto chi lo nomina.
In modo che più volte chi fa male ottiene ricchezze, onori e potenza, chi lo nomina è
strascinato in sui patiboli; essendo gli uomini prontissimi a sofferire o dagli altri o dal
cielo qualunque cosa, purchè in parole ne sieno salvi”. (Leopardi).
E questo carattere emergeva già nella sua pienezza durante gli anni delle scuole medie quando al professore di lettere, fortemente credente ed ex-diacono che pontificava sull’esistenza di Dio, dal temperamento alquanto rigoroso ed intransigente, io dicevo candidamente e serenamente: “Professore, ma Dio non esiste!”, non pensando, come sempre, alle reazioni che avrei innescato, che consistevano in paternali terribili e distruttive.
Una coscienza iniziava sin da piccolo a svilupparsi, una coscienza critica e polemica nei confronti di ogni ipse dixit, coscienza che evidentemente aveva le sue radici importanti, oltre che nell’indole ribelle e contestataria, in un’importante educazione “anale” ricevuta che non aveva favorito totalmente, anzi aveva coartato, l’esplicarsi delle mie istanze e delle mie intime inclinazioni.
“La coscienza è un essere per il quale, nel suo essere, c’è coscienza del
nulla del suo essere”. Nella proibizione o veto, per esempio, l’essere umano
nega una trascendenza futura. Ma questa negazione non è pura constatazione.
La mia coscienza non si limita a guardare in faccia una negatività. Si costituisce
essa stessa, nella sua carne, come annientamento di una possibilità che un’altra
realtà umana proietta come la sua possibilità. Perciò essa deve presentarsi nel mondo
come un No ed è proprio come un No che lo schiavo coglie, a prima vista, il padrone,
o che il prigioniero che cerca di evadere sente la sentinella che lo sorveglia”. (J.P.Sartre)
Abbandonato il tetto domestico per le prime amicizie ed i primi rapporti sociali all’età di 16 anni, quando già l’età era alquanto avanzata, mi rendevo sin da subito protagonista di modalità circensi ed esibizionistiche di occupazione dello spazio intersoggettivo, con tendenza alla buffoneria e alla giocosità incontrollata sia per attirare l’attenzione che per perdere, nell’immanenza del quotidiano, quel contatto sempre così presente avuto con le sfere della trascendenza, non tanto con il divino quanto con lo zeitgeist in senso generale, un comportamento fatto di risate spesse volte anche sguaiate, comportamenti clownistici, vario divertentismo, soprattutto nei primi anni di uscita nel mondo della società. Maturavano contemporaneamente negli anni delle passioni adolescenziali e degli studi liceali gli alti ideali di progressismo racchiusi nei valori socialisti di libertà, uguaglianza, fraternità di cui grandemente i licei e le scuole della maturità superiore sono nutriti. E contemporaneamente a questi maturava la militanza, con la frequentazione, ortodossa e fanatica, di centri sociali e di formazioni della sinistra extraparlamentare, con la volontà di cambiare, quasi in maniera onnipotente, lo status quo in nome di ideali d’avanguardia ideologica e politica. Il confronto serrato delle discussioni comunitarie, la perdita nell’orgiastica comunione d’intenti e di fratellanza anche durante i concerti di gruppi tipicamente protestatari si intervallava sempre e comunque già da allora ad importanti momenti di depersonalizzazione e derealizzazione, di assenza da me stesso, di estraniamento rispetto alla realtà in cui mi trovavo immerso, sensazioni ineffabili, indescrivibili, sempre onnipresenti quasi dalla mia nascita, in cui avevo la sensazione di contemplare gli avvenimenti da una dimensione altra, soprattutto in situazioni di sovraffollamento o di pericolo.
Il pericolo, la violenza, la prevaricazione, la sopraffazione sono sempre stati elementi con cui ho dovuto avere a che fare sin dai primi anni, ad esempio quando, vedendomi sempre quale preda o agnello sacrificale di un sistema bullistico o di personalità particolarmente violente, mi chiudevo a riccio in una condizione molto simile alla “tanatosi” dei mammiferi, stato che mi ha permesso la sopravvivenza in molte situazioni facendomi passare per psichicamente morto o assolutamente inetto e permettendomi di essere qui più o meno integro a scrivere queste pagine.
La brillantezza e l’eccellenza raggiunta in ambito scolastico pertanto si mischiava indissolubilmente ad un ingaggio quotidiano con le sfere della vita, all’interno di comitive molto numerose e fortemente intrise di disagio adolescenziale, volontà di protesta, bracci di ferro con la Legge-del-Padre. Ed il contatto con l’Ombra, un contatto costante, affascinante ma pericoloso al contempo, cui mi sono spesse volte lasciato andare per curiosità morbosa, voglia di esperire e di esperirmi, nonostante i miei timori e le mie intrinseche debolezze, per carpirne i segreti ed imparare attraverso i misteri della Notte le modalità per fronteggiare il duro agone quotidiano. E all’interno di questi gruppi molto numerosi, il ruolo assunto era sempre marginale, si stava in silenzio ed in disparte, piccolo e debole nel timore delle ingiurie e delle prevaricazioni che puntualmente arrivavano, racchiuso in un guscio sospeso, ma con la costante tendenza allo studio prezioso delle dinamiche messe in essere dai singoli e dal gruppo in toto, studio rivelatosi fondamentale per le mie consapevolezze e acquisizioni successive anche e soprattutto in termini professionali e prassici.
Durante gli anni dell’adolescenza la sfera amorosa era totalmente scotomizzata e sostituita dall’ardore conoscitivo in termini di studio scolastico ed approfondimenti solitari. Vivevo allora uno stato di ingenuità e purezza simil-infantile nella sfera della sessualità, con il gioco con i coetanei e gli ideali di mutamento dell’esistente che avevano il sopravvento sulla ricerca dell’esperienza sessuale e sull’avvicinamento all’altro sesso. La parte fanciullesca è sempre stata lì, e lo è ancora adesso, onnipresente nella sua dolcezza e sensibilità, giocosa, leggera, sostanzialmente pura perché all’oscuro, allora assolutamente più di ora, della durezza della vita. Tuttavia questa parte si è sempre sposata con elementi di insicurezza e sfiducia caratteriali, determinati da una sensibilità sempre eccessiva e sempre prona alla sofferenza e al disagio altrui. Mentre, quindi i miei compagni di classe vivevano i primi amori adolescenziali, con tutto il loro portato di novità, romanticismo, spensieratezza, io trascorrevo le giornate assolutamente ignaro di questa sfera, ingaggiato com’ero nello studio e nel lasciarmi andare al fluire di un’adolescenza dolcemente ribelle.
La fascinazione profonda esercitata dalle lezioni “pindariche” dei miei professori di Lettere al ginnasio e di Greco, di Storia dell’arte e di Filosofia al liceo lasciavano segni indelebili nella mia sfera immaginativa. I salti diacronici e metatemporali fra gli autori classici e la contemporaneità, i collegamenti suggestivi fra l’arte, la letteratura, la filosofia, la storia nutrivano all’interno del mio universo interiore una dimensione onirica e trascendente e permettevano la costruzione di collegamenti fra l’attualità e gli eventi del passato, qualità che così tanto attualmente s’è rivelata essere fondamentale per la mia professione, potendo affermare insieme a Vico che effettivamente la storia, a ben vederla, è fatta di “corsi e ricorsi”.
LA TRAPPOLA PSICOPATICA
L’incontro con la psicopatia, ovvero con la violenza, l’odio, l’aggressività, la cosiddetta hybris è un incontro antico, che, per quanto mi riguarda, risale ai primi anni di formazione e di studio. Da piccolo, amavo sfogliare e leggere le vicende storiche e mitologiche dalla “Storia d’Italia a Fumetti” di Enzo Biagi. Era il periodo in cui frequentavo le scuole elementari e medie e, oltre allo studio scolastico, mi piaceva integrare le conoscenze acquisite a lezione con queste letture leggere e spensierate che riempivano enormemente il mio bagaglio immaginifico. Già allora ho bene in mente che non riuscivo in alcun modo a fermarmi su determinate pagine per il senso di orrore e di sgomento che inducevano nella mia persona, in particolare su un paio in cui c’era Polifemo che divorava dei compagni di Odisseo dopo averli trovati all’interno del suo antro e un altro in cui c’era il Minotauro che combatteva con Teseo all’interno del labirinto di Creta. Il primo contatto con la hybris e tutto ciò che essa porta con sé è stato sicuramente visivo, ma in nuce sento di poter dire che è stato fondamentale nel darmi a posteriori la consapevolezza di farmi intuire e sentire intimamente dov’è la presenza di questa caratteristica ontica negli oggetti del mondo.
Sono venuto a contatto varie volte con la violenza nel corso dei miei eventi vitali, e le forme con cui questa si è manifestata sono varie e plurime per cui ho avuto modo di studiarle e di comprenderle nel profondo. Ho ricevuto un’educazione “anale”, perché sin da piccolo avevo dei tratti di irrequietezza, inquietudine e soprattutto perché “parlavo troppo” in presenza di amici di famiglia dicendo le verità ingenue che può dire un bambino. L’educazione ricevuta in questi termini in realtà era una trasmissione di violenza in senso transgenerazionale, laddove il mio nonno paterno ed anche il mio nonno materno avevano un modello maschilista e violento di imposizione della lex familiare che in qualche modo avevano trasmesso ai miei genitori.
Ma il tempo e le strade della vita mi riservavano degli incontri ben più duri ed aspri: innanzitutto all’interno del mio gruppo dei pari, la classica “comitiva”, in cui molto spesso ero motteggiato e deriso per il mio essere debole, riservato e timoroso.
Per anni, all’interno di questo gruppo, che era variopinto ed in cui non vi erano dei franchi leader, ma era composto da tante personalità cangianti, predominavano le classiche dinamiche goliardiche adolescenziali di sfottò e prevaricazioni nei confronti dell’elemento debole e indifeso di turno eletto a capro espiatorio. Sono stati anni molto difficili, in cui tuttavia non ho mai smesso di credere nella bellezza del mondo, di aver fiducia nel prossimo e di continuare a coltivarmi, capendo poi a posteriori come le dinamiche gruppali, soprattutto in quella fase d’età, esacerbino e slatentizzino le peggiori qualità di ognuno.
Ma il peggio doveva ancora arrivare e le prove più importanti sono state quelle a diretto a contatto con la psicopatia criminale, col “predatore puro”, la bestia, l’essere senz’anima. Sono entrato in specializzazione già carico di traumi, i traumi di una vita che fino ad allora mi aveva visto fondamentalmente passivo ed inerte nei confronti degli accadimenti esterni, il tutto aggravato da un episodio di malessere psichico di una certa gravità avvenuto in seguito alla fine della mia prima importante storia d’amore. Ed ecco che mi vedo entrare in specializzazione con l’immenso carico di aspettative e di volontà di conoscere meglio attraverso la psichiatria sia me che il mondo che mi circondava. Una passione che ha slatentizzato quel portato di incontinenza affettiva che mi caratterizza negli stati di gaiezza e di contentezza, la ricerca spasmodica di maestri e di insegnanti, di punti di riferimento. E’ solo l’inizio di un massacro psichico di proporzioni vergognose, attuato sotto gli sguardi di tutti ma nel silenzio partecipe di colleghi specializzandi e dell’intera classe dei medici strutturati. L’agnello era stato portato all’interno della tana del lupo, e le varie e numerose richieste d’aiuto finivano inascoltate in ogni dove. Demansionamenti, esami psichici e lettere di dimissione quotidianamente distrutti più e più volte, posto più volte al pubblico ludibrio. Si era all’interno di un gulag sovietico. E cosa rimaneva da fare in questa condizione se non porsi in una condizione molto simile alla “tanatosi” dei mammiferi, ovvero in uno stato di apparente morte psichica che simulava grandemente e totalmente le grandi psicosi? Ma mentre si subiva questo bombardamento quotidiano in reparto e si respirava un generale clima asfittico, povero, deumanizzato, in cui le facoltà encefaliche più alte erano sospese in nome dell’ubbidienza, della disciplina, del rigore, di un lavoro per l’appunto basato su una “pragmaticità” ed “elementarietà” dell’agire clinico da far impallidire chiunque ed in cui il burn-out spadroneggiava fra medici ed infermieri, a casa si tornava a sognare, a credere, a lavorare intensamente a diretto contatto con la speranza e la voglia indomita e mai sopita di conoscere e di toccare con mano i vissuti.
Lo “psicopatico” ha naso, ha assolutamente un fiuto animalesco per il pericolo che in genere per lui è quasi sempre l’oggetto buono verso cui prova un’invidia feroce. Il naso era rivolto nei confronti di un soggetto libero, sostanzialmente libero, senza peli sulla lingua, generoso e aperto, spesso strafottente e caoticamente indisciplinato, e con l’unica volontà di apprendere quanto più possibile e di curare le sofferenze delle persone. E con un unico sempiterno difetto, l’ingenuità di un fanciullo imberbe: il patto col diavolo era pertanto stretto. Le richieste di aiuto al persecutore, costanti, i chiarimenti, le incomprensioni; le proposte più volte paventate di andare via e le continue rassicurazioni nonostante i periodici scompensi da sovraccarico d’angosce e malessere.
Poi gli incontri, quelli fondamentali, quelli con la filosofia e la fenomenologia. Da persona sostanzialmente ammutolita, sono riuscito a crearmi un varco nel buio, studiando e producendo idee per me, per i colleghi e per i pazienti. Ho visto crescere attorno a me tante idee, tanti fiori, seppur spesso sovraccaricati e appesantiti, talvolta un po’ caotici (“spirito del tempo” e “spirito del profondo” in C.G.Jung). Ma tale è il carico dell’arte, della cultura, della psicopatologia. Ho ammirato vari quadri personologici, diversi stili lavorativi e approcci, stretto feconde collaborazioni nonostante le difficoltà e incontri non del tutto piacevoli. Ma ritengo che si sia data un’anima, degli spunti meditativi più ampi per un confronto plurivocale fra scienza psichiatrica, filosofia, arte in senso generale, psicoterapia cercando di oltrepassare il paradigma griesingeriano che afferma che “le malattie della mente sono malattie del cervello”, riverberatosi parimenti sulle neuroscienze attuali con poche piacevoli eccezioni (mi riferisco al lavoro di Rizzolatti e Gallese sui neuroni specchio e sulle loro stimabilissime contaminazioni).
Altresì ho imparato ad ammirare le pose e le movenze dei Maestri, il loro discorrere e la loro loquela, i loro insegnamenti. Ammirare la grazia del professor Borgna, la potente ruvidezza di Gilberto Di Petta, l’ordine socratico del professor Stanghellini, la chiarezza espositiva del professor Ferro, la lucentezza neoplatonica del professor Calvi, la classe del dottor Dalle Luche, la favolosa e pungente ironia “toscana” del professor Del Pistoia con il suo articolo “magico” sulla paranoia sensitiva (Beziehungswahn) da differenziarsi dalla paranoia di combattimento (Kampfparanoia). Ed ho pertanto unito le acquisizioni e le conoscenze giovanili dei miei autori musicali preferiti (Battiato, De Andrè, Branduardi, Csi) con le conoscenze psicopatologiche, artistiche e culturali.
Penso che il nostro lavoro comunitario sia appena cominciato e tutto sia in fieri. Come Eraclito saggiamente insegna, non ci si può bagnare per due volte nello stesso fiume.
Carissimo Nicola, ti
Carissimo Nicola, ti ringrazio molto per questo scritto autentico, sofferto, intriso di verità. Conoscevo la tua sensibilità e la sua venatura di dolore, ma il modo in cui sei riuscito a dipanarla in questo linguaggio, le consente di travalicare la tua storia individuale, e di farla risonare come la nota di fondo, il leit-motiv di ciascuno di noi “psi”. Ciò che forse neppure nei nostri arzigologati percorsi di terapia personale riesce a venire fuori : il vincolo irriducibile ad una umanità di cui cerchiamo di prenderci cura nella vicenda clinica e terapeutica con i nostri pazienti, ma di una umanità che ci concerne profondamente, che è sfuggita alle maglie di una educazione familiare pur benevola e lungimirante, ma sorda, inevitabilmente sorda al nostro grido di dolore e di vita. Una umanità che è sfuggita ai nostri percorsi formativi medico-biologici e, peccato non veniale, anche alle nostre formazioni specialistiche. Una umanità, infine, tradita e giocata ogni giorno nella vita istituzionale, schiacciata dalla prassi e dalle regole del sistema. Tu ne ritrovi il filo e la fai emergere dalle acque melmose. Ed è un filo rosso, lucente, un filo guida. Un qualcosa che viene dal passato ma che non è un lamento melanconico; un qualcosa che passa per il presente ma che non si impenna in una effimera adesione borderline o maniacale, un qualcosa che si aggetta nel futuro ma che non si brucia nell’attesa messianica di sapore schizofrenico. Un qualcosa, dunque, questa umanità che tu disseppellisci non senza dolore, che ha a che fare con un’anima che ci innerva, che ci fa da endoscheletro, e che ci consente di sopravvivere e di ritrovare la rotta ogni qualvolta la smarriamo. Credo che questo tuo scritto dovrebbe costituire il viatico umano di ognuno che ardisce (come Ardito e come ardescit…) ad incontrare l’altro, dentro e fuori le maglie della rassicurante nosografia, con la convinzione accettata una volta per tutte che non si può volare sull’inferno senza bruciarsi le ali. Ci vuole molta cultura e molta disciplina interiore per poter fare questo. Tu, con la tua quotidiana lotta contro il demone, ci stai mostrando che farlo è possibile, come è possibile, nonostante tutto, vivere, desiderare, pacificarsi, amare e sperare. Te ne ringrazio profondamente, a nome di quanti sentono di condividere questa presa di posizione, e sono orgoglioso di esserti amico. Mai come oggi c’è bisogno di uomini come te.