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Alla ricerca del senso perduto

9 Ott 17

A cura di Antonello Sciacchitano

 
Puoi anche dichiararti ateo, ma se ti ostini a cercare nella vita, nel mondo, nella storia il senso delle cose, sei non tanto cripticamente uomo religioso, anche se non lo sai (o non vuoi saperlo). In versione ontologica il senso delle cose è dato dalla trascendenza: sta nel principio primo di tutto, almeno in Occidente paradigmaticamente in Dio; una versione solo leggermente più debole suppone un Disegno Intelligente nell’evoluzione biologica che ha portato all’uomo. Il filosofo si dedica prevalentemente a una versione epistemica nella ricerca del senso delle parole. Una famosa rubrica curata da Enzo Paci nella rivista “aut aut” era intitolata proprio così: Il senso delle parole.

È questione di fede, che precede ogni filosofare. Il senso è sempre religioso; già negli anni Cinquanta del secolo scorso, ce lo insegnava il professore di religione al Liceo “Giovanni Berchet” di Milano, don Luigi Giussani. Da allora non ho cambiato parere; diventato ateo ma con solida cultura religiosa, ho potuto solo confermarlo. La religione, intesa come ricerca di senso, è la malattia infantile dell’umanità; è per il soggetto collettivo come il morbillo per l’individuale; Einstein lo diceva del nazionalismo, naturale figlio collettivo del senso religioso. Predispone alla paranoia individuale e alle guerre di religione, che ne sono il modello collettivo.

Per fissare le idee, la mia definizione di “senso” è, se non proprio presa dalla matematica, mutuata dall’algebra: il senso inserisce eventi locali in un contesto globale. Il senso emerge dall’immersione di una struttura minore in una maggiore, fatta salva la struttura della minore, per esempio immergendo un sottogruppo in un gruppo.[1] Nell’adeguamento “omomorfo” della minore alla maggiore e nella capacità della maggiore di ospitare la minore sta la potenzialità religiosa della pratica di senso. “E il naufragar m’è dolce in questo mare”. Non è lì la radice del “sentimento oceanico” di cui anche Freud parla nel Disagio nella civiltà a proposito del prodursi del sentimento religioso?

Dice più filosoficamente Deleuze: “Il senso è dunque espresso come problema a cui le proposizioni corrispondono in quanto indicano risposte particolari, significano i casi di una soluzione generale, manifestano atti soggettivi di risoluzione”.[2] Il filosofo adombra l’innesto del soggetto individuale nel collettivo come matrice di ogni senso. La tematica è ampiamente sviluppata da Luhmann nei suoi Sistemi sociali (1984) in termini di “interpenetrazione” di sistemi.
Nel senso matematico del termine “interpretare il senso” significa, allora, procedere a rovescio, cioè scomponendo (zerlegen, come si fa in psicanalisi, dice Freud) una struttura complessa nelle sottostrutture più semplici che la compongono. In realtà questo non avviene quasi mai in modo completo perché in generale zerlegen è un’operazione non facile e zeppa di imprevisti. L’ermeneutica scolastica si limita, infatti, a riportare la struttura complessa ad alcuni (pochi) schemi prestabiliti che devono comunque presentarsi nella struttura in esame. È il caso dell’interpretazione psicanalitica freudiana che in ogni produzione inconscia ritrova sistematicamente il complesso d’Edipo o la castrazione.
A questo proposito, fu uomo di fede, nel senso di appassionato del senso, quindi religioso, sebbene negasse di esserlo, quel grande mitologo e creatore di senso psicologico che fu Sigmund Freud. I suoi miti di Edipo e di castrazione sono narrazioni che intendevano dar senso alla vita psichica individuale, stabilendone le cause; purtroppo trascurarono l’altra metà del cielo: la vita psichica collettiva. Pertanto sottovalutarono la fonte primaria da cui scaturisce il senso della vita: l’interazione tra l’io e gli altri, tra soggetto individuale e collettivo, in primis l’interazione sessuale. In un certo senso i miti freudiani falliscono nella loro funzione di dare senso compiuto alle cose “psi”.[3] Se il senso non è mitico, che cos’è?
Scriveva Hofmannstahl per gli amici: “Mitica è ogni invenzione cui tu partecipi quale vivente. Nel mito ogni cosa è sorretta da un doppio senso che è il suo contro-senso: morte = vita, lotta di serpi = abbraccio d’amore. Perciò nel mito si equilibra ogni cosa”,[4] cioè ogni cosa acquista senso. La narrazione, in particolare quella mitologica, cioè la diacronia, ha una funzione imprescindibile nel generare senso; essa opera a scapito della sincronia, che descrive (non narra!) le interazioni tra componenti della struttura. Il libro per antonomasia della civiltà occidentale, la Bibbia, è una biblioteca di romanzi che narrano il senso dell’universo, addirittura prefigurandone l’evoluzione. Nella primavera del 1633 il processo a Galilei fu il luogo simbolico dove si scontrarono i due modi di accedere alla verità: quello narrativo, o diacronico, dalla parte dell’autorità costituita, e quello sperimentale-osservativo, o sincronico, dalla parte del libero pensiero scientifico.

Il principale obbiettivo pratico della ricerca di senso è lo studio delle cause degli eventi fondamentali dell’esistenza: vita, morte e miracoli, compresa la caduta della mela dal melo sul naso di Newton. Seppure illusoria ai limiti della superstizione (Wittgenstein), la ricerca religiosa di senso eziologico ha assicurato un grande avvenire (Freud). La psicanalisi è religiosa quando cerca il senso eziologico della vita psichica nei miti freudiani o negli archetipi junghiani. La filosofia è religiosa quando si muove tra i piani di immanenza e trascendenza della Logica del senso (Deleuze).

Se mai la base religiosa della psicanalisi si ridurrà, vedremo la conseguenza: diminuirà il peso delle scuole (chiese) di psicanalisi la formare gli analisti. Oggi in Italia tali scuole sono fondamentalmente un business garantito e protetto dalla legge dello Stato; vi si vendono certe conformazioni alla pratica psicanalitica. La componente principale di ogni formazione è apprendere le correlazioni giuste tra effetti e cause psichiche. L’analista paga la scuola per assimilare direttive teoriche e pratiche da applicare alla pratica professionale, che così si dimostrerà “sensata” perché legale. Perciò avrà la garanzia che nessun pubblico ministero sindacherà il suo operare. Di valore scientifico nelle scuole (chiese) di psicanalisi non se ne parla. È il loro specifico tabù.[5]

E la scienza, che fa a meno dell’ipotesi di Dio, come tratta la questione del senso? Anche la scienza, pur non presupponendo alcuna trascendenza, cerca il senso fisico reale dei fenomeni quantitativi; ma è un senso astratto, espresso in termini di invarianti meccanici di posizione e velocità: la conservazione dell’energia, della quantità di moto e del momento angolare in sistemi isolati di particelle materiali in interazione tra loro. Lo stabilisce il teorema di Emmy Noether (1918), un caso particolare di passaggio da simmetrie locali (nel differenziale lagrangiano o hamiltoniano) a globali (negli integrali di moto). Negli anni Sessanta del secolo scorso il grande fisico russo Lev Davidovich Landau parlava di senso fisico reale sin dalle prime pagine del primo volume della sua magistrale fisica teorica. C’è sempre un maestro a stabilire il senso delle cose.

Tuttavia la dichiarazione “realista” di Landau va presa con beneficio di inventario, perché sospetta di lisciare il pelo al regime sovietico di quei tempi. Ogni regime e ogni ideologia, oltre a produrre del senso fasullo (assai poco trascendente), artificiosamente imposto al collettivo dal potere come senso reale, non tollerano deviazioni, neppure la variabilità naturale dei fenomeni. Oggi con le loro teorie del caos e della complessità gli uomini di scienza sono più guardinghi sulla faccenda del senso del reale. Non fosse altro perché i dati delle osservazioni e degli esperimenti scientifici sono affetti da una variabilità d’errore tale da impedire predizioni sensate a lungo termine.[6] Giustamente il mio maestro parlava del reale come di ciò che non cessa di scriversi.

A prescindere dalla possibilità che la ricerca di senso non abbia senso in sistemi sociali complessi come sono quelli caotici e apparentemente insensati – “liquidi”, diceva Bauman – che vanno configurandosi nell’attuale globalizzazione planetaria, mi soffermo su un aspetto limitato e circoscritto della questione del senso, sul breve periodo rilevante nella clinica psicanalitica, là dove il senso è ancora attivamente ricercato, talvolta con successo.

Perché tutti noi cerchiamo il senso delle cose? Perché non sappiamo vivere senza certezze. Chi era mio padre? Cosa voleva mia madre? Sono domande che non possono non ricevere risposta; la pretendono, poco importa se falsa o delirante. Ne va della nostra sopravvivenza spirituale, che il senso protegge. Da quattro secoli Cartesio e noi cartesiani siamo osteggiati per la scelta di dubitare di tutto il verosimile, pur non essendo scettici. La morale della storia è che, nutrito di certezze fideistiche, il senso comune non morirà mai. Esso stesso è una forma di credenza religiosa più estesa e più radicata nello spirito umano delle singole religioni, che spesso raggiungono evidenti insensatezze. Per questo non moriranno mai, perché anche alle insensatezze le religioni danno senso. All’uomo sano di mente, che pratica la morale cartesiana di sopportare l’incertezza, il senso religioso o filosofico “fa senso”, cioè ribrezzo.

In questo senso le resistenze che l’analizzante incontra nel percorso analitico nascono dalla volontà di negare le insensatezze che popolano l’inconscio, le sue peregrine combinazioni di significanti, per lui a prima vista inammissibili, dovute alla sospensione del principio di contraddizione (processo primario, secondo Freud, sintesi disgiuntiva o concatenamento, secondo Deleuze). La ricerca di senso è spesso una risposta inibitoria al non senso.[7]

Un breve cenno clinico spiega cosa intendo. Tempo fa, già dopo le prime battute, un dirigente d’azienda interruppe l’analisi da me appena intravide la possibilità di affrontare l’eventuale – veramente bizzarra, per non dire insensata – associazione tra la laurea in economia all’Università Bocconi di Milano e il sintomo bulimico. Proprio così. Sulle soglie dell’analisi, l’analizzante-dirigente licenziò l’analista-impiegato (come Dora con Freud); vomitò l’oggetto-analista come boccone indigesto. Gli si prospettava l’indigesta correlazione tra soggetto collettivo (Bocconi, plurale) e individuale (boccone, singolare), in una misura che per l’interruzione precoce non ho potuto valutare. Costatai invece, in base al principio dell’inconscio strutturato come un linguaggio, che nella sincronia dell’inconscio entrambi i soggetti erano stati “rigettati” (destituiti) prima che i loro significanti spuntassero nella diacronia della pur breve cura; la quale per altro ebbe un risultato terapeutico favorevole, perché sospese gli antidepressivi.

Dicendo che il cosiddetto passaggio all’atto risulta dalla mancata interpretazione non si va molto lontano dal vero. Nel mio caso l’atto anticipò l’interpretazione; la determinò ex post molto tempo dopo, nachträglich, avrebbe detto Freud, quando era inutile, essendo l’analizzante già andato in afanisi. Nell’anoressia-bulimia c’è un che di indomabile, si diceva ai tempi dell’Ecole freudienne de Paris. Oggi ho lasciato cadere la nozione freudiana di resistenza; meno ontologicamente e con più aderenza alla clinica del fantasma preferisco parlare di volontà di ignoranza, che può toccare gradi elevati di ostinazione, sempre realisticamente giustificata, il top proprio nell’anoressia-bulimia.[8]

Coincidenze significative, dirà il cercatore di senso, che non arretra di fronte a nessun ostacolo e pretende “salvare i fenomeni”, grazie ai propri pregiudizi fenomenologici. Di fatto ignora o vuole ignorare che in ambito simbolico le coincidenze sono la regola statistica, direi il regime normale; in sé stesse non hanno mai molto significato. Attribuire senso alle coincidenze è da paranoici.

Per convincervi, fate questo semplice gioco di pazienza. Allineate in un ordine qualunque in due righe parallele una sotto l’altra due serie di n simboli uguali – per esempio le tredici carte di picche e le tredici di cuori. Ripetendo la prova una decina di volte, registrate quante volte capita che almeno in un posto cadano gli stessi simboli “nero” e “rosso”: o due assi, o due due, o due tre, ecc.[9] Verificherete che le coincidenze si presentano naturalmente (cioè a caso) in più della metà dei casi. Le coincidenze sono più frequenti dell’evento “testa” nel lancio di una moneta. Secondo il calcolo delle probabilità, coincidenze come Bocconi-boccone o plurale-singolare o altre simili si verificano casualmente nel 63,21 per cento circa dei casi, se il numero n dei simboli in gioco è abbastanza grande (diciamo maggiore di dieci).[10] Insomma, le coincidenze, tanto sopravvalutate e sovrainterpretate dal paranoico (vedi il suo “non a caso”, che è il vero motore di ricerca del senso) e anche talvolta (troppo spesso) dall’analista ermeneuta, non hanno per la scienza mai molto senso. Ne hanno tanto poco quanto separare il soggetto individuale dal collettivo.

Quindi, il vero ateo dovrebbe prendere le distanze dalla ricerca di senso come insensata. Anche il vero analista. Solo che in verità né l’uno né l’altro sono umanamente all’altezza della loro scienza, esclusi alcuni momenti contingenti e passeggeri di semi-verità (per l’analista momenti di desêtre, diceva Lacan). Il senso resta il vero dominus della pratica psicanalitica. È un inganno sistematico e terapeutico… per l’analista. La scienza e l’analizzante possono attendere.

Bisogna rassegnarsi e fare buon viso a cattivo gioco: il gioco sporco tra senso e non senso. Presa in tale gioco, la psicanalisi non diventerà mai una sensata psicoterapia in mano a riconosciuti professionisti dell’adattamento sociale, come molti psicanalisti amano presentarsi in pubblico.
Rassegniamoci, cari colleghi, all’inevitabile e comune perdita di senso comune nel nostro mestiere! È il suo bello. Torniamo al caos primigenio. Possiamo scegliere: o quello filosofico di Empedocle o quello matematico degli attrattori strani a dimensione frattale. Raccontando il caso dell’Uomo dei Lupi, è lo stesso Freud a parlare di “caos delle tracce delle impressioni inconsce” da cui emerge il fantasma.
 



[1] In matematica esiste anche il percorso inverso. Ne è un esempio la teoria di Ramsey che stabilisce quanto grande deve essere una struttura (in generale un grafo) perché contenga una determinata sottostruttura (in generale un sottografo).
[2] G. Deleuze, Logica del senso (1969), trad. M. De Stefanis, Feltrinelli, Milano 1975, p. 111. In questo testo Deleuze definisce la significazione come rapporto tra particolare e universale nella prospettiva di un dio.
[3] Si aggiunga la sterilità scientifica dell’impostazione mitologica data da Freud alla propria “giovane scienza”. Basta confrontare, come fa notare Niles Eldredge, lo sviluppo esponenziale della biologia evoluzionista postdarwiniana, basata su presupposti di variazione e selezione, con lo stentato progresso delle diverse psicoanalisi, coartate in piccole scuole, isolate culturalmente dal loro tempo e tra loro, che ripetono stancamente mitologie fossilizzate. Non c’è stato progresso psicanalitico pari a quello biologico.
[4] H. von Hofmannstahl, Libro degli amici, Adelphi, Milano 1996, p. 42 (traduzione modificata).
[5] Dall’inibizione scientifica all’ostilità alla scienza il passo è breve. Un certo lacanismo deteriore identifica la scienza alla paranoia. È comunque un fatto che dopo i Popper, i Kuhn e i Lakatos, la riflessione epistemologica sulla scienza si è di molto ridimensionata. In filosofia prevale l’approccio ontologico della fenomenologia, che conquista territori anche nell’ambito della filosofia analitica.
[6] La statistica seria, per altro, si interessa più alla variabilità locale del collettivo che al singolo valore medio, come suo rappresentante globale.
[7] Ancora Deleuze: “Il non senso è a un tempo ciò che non ha senso ma che, in quanto tale, si oppone all’assenza di senso, operando la donazione di senso”. (G. Deleuze, Logica del senso, cit., p.69). Da lì alla “sintesi disgiuntiva” il passo è breve.
[8] L’anoressia-bulimia non vuole saperne del fantasma della madre che prima divora il bambino e poi lo risputa fuori.
[9] “Cado insieme” si dice in greco sunpipto, da cui deriva “sintomo”. Il sintomo “cade insieme” alla malattia; è una coincidenza.
[10] In matematica il problema delle coincidenze si generalizza nella ricerca del punto fisso di un’applicazione uno a uno f dell’insieme compatto e convesso X su sé stesso, cioè di un x tale che x = f(x). In opportune topologie, in particolare euclidee, e per applicazioni continue esiste sempre almeno un punto fisso (teorema di Brouwer). Lacan chiama il punto fisso “punto di trapunta” (point de capiton) e lo considera sostegno della funzione paterna. L’analista ha la chance di studiare il rapporto tra paternità e continuità nelle topologie della soggettività.

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