Delle violenze sessuali che il potente produttore cinematografico Weinstein ha compiuto su decine di attrici o aspiranti tali, tanti sapevano, tantissimi sospettavano e tutti, comprese le vittime, hanno lungamente taciuto. È, peraltro, opinione diffusa che nel mondo dello spettacolo i ricatti/baratti erotici non siano l’eccezione. Uomini spregiudicati, donne spregiudicate, fascino del potere, attrazioni fisiologiche tra coloro che lavorano insieme in un ambiente sessualmente più emancipato e/o più promiscuo? Domande fuorvianti.
Weinstein ha potuto operare indisturbato, finendo nella polvere solo per quell’eccesso di onnipotenza che aumenta la probabilità degli incidenti di percorso, perché, che lo si voglia o no e a dispetto della nostra cultura di emancipazione, il corpo erotico della donna -la sua libertà sessuale che non è promiscuità, ma capacità di andare in profondità- preoccupa molto. Usarlo in modo strumentale, per appiattire la sua espressione sul bisogno di sbarazzarsi del proprio desiderio erotico come se fosse urina di cui liberarsi, è rassicurante. Va nella stessa direzione dell’omeostatica società attuale.
Nel suo agire abusante Weinstein è segnato dall’impotenza erotica (da non confondere con quella erettile): l’incapacità di accedere a una vera relazione di scambio, di farsi coinvolgere e coinvolgere. Tratta il suo oggetto come manichino inerte, lui stesso automa del sesso autoerotico. La sua sessualità è affetta di inconfessabile necrofilia. La violenza, fisica e psichica che ripetutamente ha messo in atto, ha trovato il suo apice più odioso nell’imposizione di un meccanismo spersonalizzante, di cui anch’egli è vittima, mirante all’animazione artificiale, alienante, di corpi morti nella loro materia desiderante.
La complicità possibile di alcune delle donne abusate, non assolve lui è non condanna loro. Essa non alleggerisce, ma aggrava le conseguenze del suo operato. L’abuso su donne inconsapevolmente complici è facilitato dal fatto che esse non sono in grado, a causa di un loro danno pregresso, di riconoscerlo come tale. Così l’azione devastante non trova un argine. Amplia il danno, consolidandolo, e conferma il timore che sia irreparabile.
È un oggetto possibile di complicità l’esperienza comune di una madre gravemente ferita nella sua femminilità che aborrisce la sessualità. Questa madre insegue inconsciamente la fantasia della prostituzione: la scena di un amplesso che sostituisce il godimento con l’eccitazione legata al controllo e alla manipolazione. L’uomo vede nella donna di cui abusa la propria madre dominatrice finalmente sottomessa al suo capriccio. La donna si identifica con la madre e tratta il suo aggressore come bambino da eccitare e calmare, oggetto di suo dominio. Il suo dramma è che il tessuto vivo della sua femminilità è in questo modo gravemente infiltrato da un principio di anestesia sessuale. Una parte di lei vorrebbe denunciare la violenza esterna, ignara di ospitarla internamente, e un’altra vede in essa, con disperazione, un fattore di stabilità. Quando la condanniamo, a nostra volta ignoriamo di accusarla di non essere la madre asessuata, virginale che lei, in realtà, a un prezzo molto caro, si sforza di imitare.
Nessun giudizio nostro, inevitabilmente fallace, nei confronti delle donne abusate può essere un’attenuante per Weinstein. Egli deve essere severamente punito perché ha commesso un’hybris. Il delitto nella sua più chiara punibilità: calpestare per autoreferenzialità il desiderio delle donne abusate. E nella misura in cui ha ottenuto la loro complicità, il danno e il reato sono più gravi.
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