Sia che egli scavi nel profondo, sia che cammini in superficie alla maniera di Robert Walser o di Thoreau, il poeta cade nella rete del linguaggio, tornando presto piccolo e inerme. Quando una parola arriva a sorprenderlo, e l’attesa può essere lunga, è sempre una parola altra, straniera e indecifrabile. Il poeta veste allora i panni del povero Budai, protagonista di Epepe (del romanziere ungherese F. Karinthy[iii]), che, per quanto padroneggi decine di lingue e sia dotato di un’eccezionale capacità d’analisi, non riesce in alcun modo a comunicare con gli abitanti di una metropoli dove è inspiegabilmente atterrato.
Questa sorta di spaesamento, di smarrimento di certezze sulle proprie competenze acquisite a caro prezzo nel corso di una vita, «trascina il poeta in un nuovo accadere linguistico, cui egli più o meno inconsciamente si consegna. Neppure l’introspezione più acuta permette un controllo completo di tale accadere – e pone così la questione di esperienze controllabili. Più o meno al modo in cui una poesia sopporta la complicità di chi la “produce” solo finché ne ha bisogno per farsi. Ché ogni poesia avanza necessariamente la pretesa a unicità, irripetibilità, in ogni poesia viene dato uno scacco perpetuo alla realtà […]. Nessun poeta che non sia stato ricongedato da questa unicità, potrebbe azzardarsi mai a scrivere una seconda poesia»[iv] (P. Celan, Microliti). A questo proposito I. Brodskij ricordava come con la prosa sia più difficile sbagliare: «Semplicemente, ti siedi e scrivi, e alla fine di una giornata ti ritrovi con un certo numero di pagine. E così il giorno dopo, e così via. […] Come scrittore, la prosa ti dà sicurezza, mentre la poesia fa l’esatto opposto»[v].
La poesia al suo inizio può avere una voce oscura, palesarsi con un balbettio sonoro o una litania quasi incomprensibili, per sottrarre al silenzio un’immagine che non ha ancora o che non ha più un nome. Il poeta per primo fatica a riconoscere le sillabe, la parola che si forma nell’ombra. Egli è diventato come quel guidatore, fermo al semaforo in attesa del verde, che scopre di aver perso la vista e dà avvio al «mal bianco», un’epidemia che avvolge le sue vittime in un candore luminoso, simile a un mare di latte, magicamente descritta da J. Saramago nel suo Cecità[vi]. Molti vorrebbero rintracciare un interruttore per accendere la luce e ritrovare le cose al loro posto o, se il caso, risolvere l’enigma con una definizione creata ad hoc. Il poeta, unico «custode della metamorfosi»[vii] (E. Canetti, La missione dello scrittore), sa però che l’oscurità «non esige illuminazione, ma sottomissione»[viii] (R. M. Rilke, Lettere su Cézanne), che è necessario educarsi alle tenebre, non senza il rischio di rimanere intrappolati in un soliloquio dell’inconscio e scivolare in un ancor più pericoloso solipsismo autoreferenziale.
«Puro narcisismo? O onanismo? No. Lo scrittore vuole il colloquio. Lo scrittore sa che un’opera, una volta stampata, esiste soltanto nel rapporto testo-lettore. Ma se il pubblico non c’è, lui se lo inventa. Scrive (deve scrivere) come se il pubblico ci fosse, e tale da saper captare il suo messaggio. Sta in questo la sua dignità»[ix] (G. Caproni, ib.).
La «vera voce del profondo», delle «secretas galerias del alma, los caminos de los sueňos» (A. Machado, Y nada importa ya que el vino de oro), pur perdendosi a volte in mezzo ai flutti come un messaggio nella bottiglia, attinge a «quei nodi di luce che, sotto gli strati superficiali, diversissimi tra individuo e individuo, sono comuni a tutti, anche se pochi ne hanno coscienza»[x] (G. Caproni, ib.). Per questo O. Mandel’ štam definisce l’opera poetica un «aratro» che mette allo scoperto la «terra nera del tempo»[xi] (P. Celan, La poesia di Osip Mandel’ štam) e Celan ricorda che «le poesie, sono altresì dei doni – doni per chi sta all’erta. Doni che implicano destino»[xii] (P. Celan, Lettera a Hans Bender).
Per chi ascolta, il canto della poesia genera più di un sussulto: le parole sempre in fuga e pronte a mutare, pur di guadagnare un nuovo spazio di realtà e giungere a un «paese innocente» (G. Ungaretti, Girovago), possono originare sconcerto e diventare «terra di bottino»[xiii] (E. Canetti, Aforismi per Marie- Louise).
Si rischia cioè uno scarto irriducibile tra chi coglie la danza delle farfalle e chi ne misura lo spessore, tra il critico militante e il poeta che si spossessa di sé.
Eppure «la grande letteratura non parla delle nostre capacità di giudizio, ma della nostra abilità di metterci nei panni di un altro»[xiv] (Orhan Pamuk, La valigia di mio padre), che coinvolge sia lo scrittore che il lettore. Questi, leggendo e riscrivendo il testo – per dirla con Proust – se fortunato (se sogna bene, se riesce a lasciarsi trasportare dal grande sogno comune, al quale i letterati del sonno come Cocteau, Calderon, Andersen e tanti altri hanno prestato la loro voce), può ritrovare quella parte esiliata di sé, che non ha mai smesso, a sua insaputa, di cercarlo.
La scoperta (la riscoperta) di una parola dai molteplici rimandi, che a volte oscilla tra il mare e la roccia senza consegnarsi al fermo immagine, e sempre si trasforma in altro se solo le si presta orecchio, disarma e incanta.
In un universo liquido, la poesia resiste a farsi magma per un istante, sostiene tutti gli interrogativi, si riduce all’osso, ripara nell’aria, aspra e necessaria.
Lo sanno bene i poeti e ben presto s’accorgono anche i più sordi lettori, quando provano a fermarla, incalzandola con domande tendenziose (sullo stato d’animo che l’ha generata, i riferimenti autobiografici, il senso sotteso alla più o meno brillante metafora, etc.). Essa, per non morire, si fa «fagiano che scompare nel sottobosco»[xv] (W, Stevens, Adagi). Non ha bisogno di fieri cacciatori ma, per riprendere ancora W. Stevens, «richiede costantemente una nuova relazione»[xvi], «non un comunicare, bensì un comunicarsi»[xvii] (P. Celan, Microliti). L’affermazione “non la capisco” piuttosto che il più plausibile “non riesco a sentirla”, rimanda all’indisponibilità a rinunciare a fissarla nella sua forma e a tenerla in vita.
La riottosità degli autori a commentare e spiegare le loro opere (tra gli altri: Caproni, Mio Dio, perché non esisti?[xviii]; Stevens, Tutte le opere[xix], Canetti, Un regno di matite[xx]) o addirittura l’autocompiacimento per l’irriconoscibilità delle proprie poesie (Celan, Microliti(F)) appare allora chiara e tutt’altro che provocatoria: «una volta che una poesia è stata spiegata è distrutta»[xxi] (Stevens, ib.).
Viceversa, una poesia ben scritta e percepibile come «entità sonica», diviene «un’avventura mentale» (Brodskij, Conversazioni[xxii]) che accompagna il lettore più lontano di qualsiasi riflessione intellettuale. Il canto scalza le certezze della ragione, facendo emergere la voce intermittente dell’abbandono, fondamento da cui ogni cambiamento è possibile.
È uno sguardo che sprofonda, dove visibile e invisibile si saldano, quello di cui il poeta ci rende testimoni.
Diventano nostri i versi della Tempesta di R.M. Rilke: «Gli occhi miei sono come vasti laghi, nel cui specchio rifugge, e via precipita, lo stesso trasvolar di nubi in corsa».
Le parole senza muoversi muovono, orientando i nostri molteplici sguardi. Esse «offrono la pienezza del loro senso solo se è “laggiù”, ad un orizzonte, che contempliamo quel che dicono. (…) Laggiù il tutto prevale sulle parti, le cose ridivengono esseri»[xxiii] (Y. Bonnefoy).
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