dela mecanica de precision.
Ballata veneta
Innanzitutto bisogna precisare che i due termini – determinismo e meccanicismo – non sono equivalenti. Il determinismo è una concezione del mondo secondo cui ogni evento è necessariamente determinato da un altro che lo precede. Il meccanicismo è un modo scientifico di spiegare gli eventi naturali in base alle leggi della materia e del moto, ogni finalismo escluso. Determinismo è una nozione logica, meccanicismo fisica. Le due nozioni coincidevano solo nel positivismo, ma ora non più. Con l’avvento della meccanica quantistica le leggi della materia e del moto sono profondamente cambiate dai tempi di Newton e parallelamente si è modificata la nozione di meccanicismo. La concezione del meccanicismo come azione di simmetria che qui propongo non è mia; risale a un autore ben più autorevole di me: Archimede con la sua meccanica della leva.[1] È chiaro che una simmetria può sussistere anche in ambiente indeterministico, per esempio quantistico. È meno chiaro quanto questa concezione del meccanicismo sia attinente alla psicoanalisi. Cominciare a chiarirlo rientra nella pars construens della mia analisi, che naturalmente non si esaurisce in questo post.
Al capolinea del proprio percorso intellettuale, nel saggio del 1938 l’Uomo Mosè e la religione monoteista, Freud riconobbe la propria coazione deterministica con poche e poco equivoche parole: “Al nostro imperativo bisogno di causalità basta certo che ogni processo abbia una causa dimostrabile”.[2] Il determinismo di Freud fu esclusivo; a ogni causa per Freud corrispondeva un solo effetto, ammesso il sovradeterminismo di più concause nel determinare lo stesso effetto.[3] Fu tale ferreo determinismo a indurre all’errore nell’interpretare il suo pensiero. Si sente dire che Freud fu positivista, in conformità alla scienza del suo tempo. È sbagliato in due sensi. In generale, il determinismo non è scientifico, non sapendo interpretare i fenomeni probabilistici. In particolare, il determinismo di Freud non applicava il meccanicismo newtoniano come richiedeva il positivismo; non ragionava in termini di interazioni tra particelle materiali, ognuna ricevendo dalle circostanti un’azione che restituiva come reazione uguale e contraria. I modelli di ricerca freudiani erano psicogenetici: privilegiavano la diacronia (globale) rispetto alla sincronia (locale), preponderante nei modelli meccanicistici. Freud raccontava storie, i cosiddetti casi clinici. Anche la sua psicologia sociale è una storia: la storia dell’identificazione dei singoli al Führer.
La Massenpsychologie di Freud è anche l’esemplificazione di una psicologia strettamente deterministica ma non meccanicista. Infatti non esistono simmetrie (interazioni) tra gli individui della massa. Freud non avrebbe mai potuto scoprire i neuroni specchio, che si eccitano sia quando si ride sia quando si vedono altri ridere. In termini moderni si può dire che Freud non fu uno psicologo sistemico. Non poteva fare il coach di una squadra di calcio o di volley. Non si intendeva di rapporti umani orizzontali tra fratelli; conosceva solo quelli verticali tra generazioni. Il mito edipico lo dimostra. La Massenpsychologie non è altro che la storia edipica in formato collettivizzato, basata sul ritorno del padre primordiale come Führer.
Freud sviluppava i suoi romanzi psicogenetici – li chiamava “costruzioni in analisi” – in termini ippocratici: se c’era la causa morbosa, c’era la malattia; se la causa morbosa era tolta, c’era la guarigione. A metà del V secolo a.C. nel trattato Antica medicina Ippocrate formulò il principio di ragion sufficiente sulle concordanze causa/effetto: presenza dell’una/presenza dell’altro e assenza dell’una/assenza dell’altro. Escluse al tempo stesso ogni considerazione sulla presenza della malattia in assenza del fattore morboso e sull’assenza della malattia in presenza dello stesso. L’esclusione degli incroci tra presenza e assenza elevò il principio di ragion sufficiente a fondamento trascendentale dell’empirismo, garante della certezza categorica, per esempio in Kant, sacrificando buona parte delle osservazioni empiriche. Quando si dice realismo…
Oggi la scienza non ragiona più in modo ippocratico. Il rischio di malattia relativo a un agente morboso si calcola tenendo conto delle probabilità di tutte e quattro le suddette eventualità; le simmetrie delle concordanze e le dissimmetrie delle discordanze tra eventi sono tutte necessarie per stabilire il rischio di malattia, che è alto se le probabilità delle prime sono maggiori delle seconde; è basso se minori (odd ratio o rischio relativo). Il meccanicismo è un fatto di simmetrie anche probabilistiche. Un evento e il suo contrario, come Testa o Croce nel lancio della moneta, sono eventi meccanici, perché hanno probabilità simmetriche rispetto alla probabilità ½, l’incertezza massima che si verifichi o l’uno o l’altro evento.
Nulla fu più lontano da Freud della mentalità statistica, quindi del modo di ragionare meccanicistico per simmetrie. Tanto basta per escludere ogni eventuale sua inclinazione positivistica. Il positivismo, infatti, arrivò a concepire le probabilità come frequenza di eventi aleatori, oggettivamente misurabili.[4] Freud non concepì le probabilità né come frequenze di eventi favorevoli su tutti gli eventi né come gradi di credenza soggettiva, i degrees of belief alla Bayes, per decidere se accettare o respingere una certa ragione di scommessa. Insomma, Freud fu prescientifico come Ippocrate: non concepì la probabilità né come realtà oggettiva né soggettiva, né come proprietà ontologica (nel reale) né epistemica (nell’immaginario). Per lui la casualità non rientrava in alcun calcolo simbolico. Se gli dicevi un numero a caso, Freud era capace di scovarti ascendenze edipiche. Parallelamente non riconosceva la variabilità dei fenomeni psichici, rigidamente prestabiliti da cause psichiche precedenti.
Come mai Freud toccò tale vetta di (volontà di) ignoranza scientifica? Perché censurò l’indeterminismo in psicologia, quando nel 1926 Heisenberg lo introduceva in meccanica quantistica? Risposta: perché era medico.[5] Oggi il biologo evoluzionista di formazione darwiniana si muove in uno spazio concettuale tridimensionale, determinato da tre assi coordinati: la struttura genetica dell’individuo (la predisposizione); l’influenza ambientale (l’ecologia) e collettiva (l’etologia); la casualità con cui tali due dimensioni interagiscono, a prescindere dalla causalità. Si sa che Freud non amava Darwin e preferiva Lamarck. Cosa amava Freud?
Freud amava l’interpretazione, die Deutung.[6] Non un’interpretazione qualsiasi, però; la sua prediletta era eziologica; la stessa che in medicina spiega l’effetto morboso, identificando la causa patogena che produce i sintomi. Con le libere associazioni e l’analisi del transfert Freud cercava le cause morbose dei sintomi psichici come la medicina cerca l’agente morboso con esami di laboratorio. La sua ricerca era codificata in termini metapsicologici sul modello della scienza antica: lo scire per causas, che per secoli ha privilegiato la storiografia come scienza modello a spese della meccanica. In metapsicologia le cause si chiamano pulsioni (Triebe); sono loro che spingono l’Io verso la meta psichica della soddisfazione, che è la causa finale.[7]
Inizialmente per Freud la meta fu la soddisfazione sessuale (sempre conflittuale); in seguito aggiunse una pulsione “silenziosa”, la pulsione di morte, tendente ad abbassare l’eccitazione psichica (anche sessuale), prodotta dal trauma, fino alla quiete inorganica.[8] In tale regime concettuale la causa prima che regola l’intero processo psichico è la causa finale. Stabilire la finalità di un sintomo psichico significa analizzarlo. Le cause materiali, formali ed efficienti sono subordinate alla causa finale, che in campo psichico funziona da intenzionalità (die Absicht) come nella fenomenologia husserliana.[9] La differenza tra Freud e Husserl – compagni di banco ai seminari viennesi di Franz von Brentano – fu che per Freud l’intenzionalità era originariamente inconscia e tale rimase fino alla fine.[10]
Con la congettura dell’inconscio Freud riguadagnò in parte la scientificità perduta con l’ermeneutica eziologica. La congettura dell’inconscio introdusse in psicoanalisi la questione del soggetto della scienza, un soggetto che si muove spinto da un desiderio che non sa di sapere.
Cosa volevano sapere Galilei e Cartesio? Freud non lo disse, perché non lo sapeva; infatti, non aveva letto le loro opere, assenti dagli scaffali della sua biblioteca. Eppure con la congettura dell’inconscio Freud andò al cuore della moderna scientificità galileiana e cartesiana; aprì una breccia nella corazza ippocratica che l’ingabbiava e riguadagnò la dimensione dell’incertezza, che discrimina tra la scienza antica e la moderna.
La scienza antica era certa; era sapere le cause determinanti l’effetto. La scienza moderna è incerta: non invoca cause, ma analizza formalmente il moto alla Galilei, stabilendo correlazioni matematiche tra spazio e tempo, a prescindere dalle cause efficienti e finali che determinano il moto attuale.[11] Nell’ammettere che la causa finale è nota solo a Dio,[12] Cartesio confermò lo statuto dell’originaria incertezza scientifica. Esordì supponendo che tutto il verosimile fosse falso. Ma anche questo era un sapere, benché incerto, essendo solo una supposizione. Da lì prese le mosse la scienza moderna, che senza incertezze apprese ad affrontare l’incertezza, per ridurla senza tuttavia azzerarla. Come? Attraverso la confutazione/verifica sperimentale di modelli teorici congetturali, una pratica comprensiva del calcolo probabilistico (v. i famosi “5 sigma” necessari a localizzare il bosone di Higgs).
Freud non conosceva il calcolo delle probabilità, ma si può immaginare che abbia voluto (o creduto) rimediare alla propria carenza epistemica. La sua metapsicologia offrì una discutibile valutazione qualitativa del sapere inconscio che il soggetto non sa di sapere. I rudimenti del calcolo metapsicologico si basano sulla costituzione ancipite delle pulsioni, che hanno due componenti, anch’esse in simmetria: una qualitativa, la rappresentazione psichica (diventerà il significante di Lacan), e l’altra quantitativa, la carica affettiva, o libido, che mobilita e trasforma le rappresentazioni nello spazio psichico. La prima è essenzialmente inconscia, la seconda sempre conscia. La parte inconscia è disciplinata da un complicato (anche cervellotico) sistema di regole comprendenti difese, rimozioni, censure, deformazioni, spostamenti e trasferimenti, di cui il soggetto apprende il complicato funzionamento nella propria analisi.[13] In extremis, grazie all’ipotesi dell’inconscio, l’analisi riacquistò parte della scientificità, persa in terreno ippocratico, grazie a modalità di pensiero, che tuttavia restavano ippocratiche.
Si può spingere il recupero della scientificità psicoanalitica oltre la frontiera ippocratica? Si può allentare la presa eziologica?
Non è impossibile; basta virare al meccanicismo.
Lacan ci ha provato con risultati non trascurabili. La sua simmetria fondamentale è logocentrica; si stabilizza tra due significanti: S1, significante ontico, e S2, significante epistemico. I due significanti sono a loro volta in simmetria rispetto al soggetto e all’oggetto causa del desiderio. I quattro termini stanno ai vertici di un quadrato, dove formano i matemi di quattro discorsi: del maestro, dell’Università, dell’isteria e dell’analista. Tali matemi costituiscono un gruppo ciclico, sottogruppo del gruppo algebrico delle simmetrie del quadrato, cioè delle operazioni che trasformano il quadrato in sé stesso. Ecco un modo interessante di fare psicologia non antropomorfa. Esso consente di agganciare il soggetto individuale al collettivo attraverso la nozione di discorso, inteso come ciò che crea legame sociale.
Il meccanicismo, tanto aborrito dalle scienze umane, perché oggettivo, quantitativo e “non pensante”, indebolisce il riferimento eziologico, senza escludere l’arte dell’interpretazione, che allora si chiama decrittazione.
Cito un esempio clamoroso. Alan Turing, che fondò l’informatica moderna inventando la macchina universale di calcolo, contribuì in misura notevole alla vittoria degli Alleati sui tedeschi nella seconda guerra mondiale. Come? Turing decrittava i messaggi cifrati tedeschi, ricevuti alle sette di mattina a Bletchley Park, restituendoli dopo sei ore decodificati allo Stato Maggiore. L’operato di Turing fu tanto attendibile che Churchill dovette fingere di non conoscerne i risultati, perché i tedeschi non pensassero che gli inglesi sapevano forzare i loro codici. Allora non difese Coventry, ben sapendo che sarebbe stata attaccata. Se avessero sospettato la possibilità di essere decrittati, i tedeschi avrebbero complicato la codifica, aggiungendo un rotore alla macchina Enigma, con cui cifravano i loro messaggi. Allora sarebbero stati guai seri per Turing.
Il principio interpretativo di Turing era scientifico e concettualmente molto semplice – più semplice di quanto richiesto dal principio di ragion sufficiente. Se la codifica è una simmetria meccanica, la decodifica è un’antisimmetria altrettanto meccanica. La macchina emittente che codifica il messaggio – l’Enigma sorgente del messaggio – applica una simmetria alle lettere dell’alfabeto; la macchina ricevente – l’Enigma di destinazione del messaggio – decodifica il messaggio applicando la simmetria inversa. Turing si inserì con successo nel gioco algebrico di simmetrie e dissimmetrie. Il successo non era tuttavia scontato, dato che è in generale impossibile stabilire per via algoritmica se due stringhe di simboli dello stesso gruppo algebrico rappresentano o no la stessa parola.[14] Allora ci vuole un pizzico d’arte e di poesia. Lì il determinismo della codifica confina con l’indeterminismo della decodifica; lì abita il soggetto della scienza tra soma (deterministico) e psiche (indeterministica).
Perché l’analista non potrebbe agire come Turing, interpretando in modo meccanicistico i messaggi dell’inconscio? Rischierebbe di fallire? Di misinterpretarli? Freud non si pose il quesito, non avendo dimestichezza con le procedure meccaniche; ne ignorava la generalità e la versatilità. L’umanista odia il meccanicismo, che considera “meccanico” e riduttivo della soggettività, che non sarebbe meccanica ma libera e spirituale.[15] Allora, se è fenomenologo, l’umanista parla di riduzionismo e di scientismo, avendo in mente l’obsoleto modello positivista di scientificità. Husserl scrisse sulla crisi delle scienze europee, quando erano al top del loro rigoglio (proprio in Germania!), perché non si adattavano al modello idealistico e annullavano la soggettività (un perdurante pregiudizio fenomenologico sulle scienze attuali[16]).
Gli epigoni di Freud non furono messi meglio. Non ebbero il coraggio di procedere oltre, indebolendo certe frontiere dottrinarie – a cominciare dagli scibbolet freudiani: i complessi d’Edipo e di castrazione – e trasgredendo ai dettati dei maestri di psicoanalisi, che hanno contribuito a blindare il freudismo nel suo assetto prescientifico. Non è lavoro facile rimettere la psicoanalisi sui binari della scientificità. Soprattutto non è lavoro che può realizzare un individuo da solo. È lavoro per un collettivo di pensiero che accolga e rielabori contributi dalle scienze limitrofe. Quelle stesse, per esempio, che Freud passò in rassegna nella seconda parte dello scritto Interesse per la psicoanalisi (1913): linguistica, filosofia, biologia, ontogenesi, storia della civiltà, estetica, sociologia, pedagogia. “Il mio intendimento (Absicht) – scrisse Freud alla fine di quel saggio – sarà soddisfatto, se si sarà chiarito quanti siano i domini del sapere per i quali la psicoanalisi è interessante e quanto ricche siano le connessioni che essa comincia a stabilire fra di essi”.[17] Tuttavia Freud non arrivò a vedere l’effetto di ritorno. Non ebbe il riscontro di quanto l’interazione con le vere scienze avrebbe potuto modificare l’assetto scientifico della psicoanalisi. L’effetto di ritorno mancò, perché la psicoanalisi si era già chiusa al mondo esterno, scienze comprese, per arroccarsi nella psicoterapia medica.
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