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LEGGERE LACAN

22 Gen 18

Di Sergio-Benvenuto
Intervento al convegno “Leggere e tradurre Lacan”, organizzato dalla Scuola Lacaniana di Psicoanalisi Roma, 26 Settembre 2015

Grafo 1.
 

 
Grafo 2.
VEL  (“O l’Essere, o il Senso”)


 
 
Grafo 3.
VEL (“O la borsa, o la vita”)


 

 
Grafo 4.
SEPARAZIONE DELL’IO-GODIMENTO
ALIENAZIONE  NEL  NON-GODIMENTO


 
 
 
Proietto qui questi grafi proposti da Lacan nel Seminario XI, “I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi”. Li proietto ma non li commenterò, tranne in parte l’ultimo, perché non ho abbastanza tempo.
            In effetti, volevo offrirvi, per dir così, un campione di lettura di un testo lacaniano, quella di uno specifico passaggio di Lacan. L’esempio era un commento alla differenza (o al passaggio) tra Alienazione e Separazione. Una differenza sviluppata in particolare nel capitolo XVI del Seminario XI (e ripresa nel seminario XIV, La logique du fantasme). E’ la parte insomma di “La borsa o la vita!” [vedi grafo].
            Ma qui non c’è tempo. Per cui sarei tentato di dire: “Ve ne parlerò una prossima volta.” Ci sarà una prossima volta? E’ quel che spesso mi viene da dire a degli studenti quando, dopo aver spiegato un po’ di Lacan, mi sento dire “Ma questa cosa non l’ho proprio capita!” Dico sempre loro: “Ne parleremo la prossima volta”. La prossima volta, insomma après coup, capiranno magari questa cosa, ma non del tutto, per cui dirò: “Ne parleremo la prossima volta!” Achille continua a rincorrere la tartaruga.
            In generale, è questo che rende la lettura di Lacan interminabile: c’è sempre qualcosa che non quadra, e di cui si parlerà, o su cui si penserà, la prossima volta, encore. Non dico questo per denigrare l’opera – scritta e parlata – di Lacan, tutt’altro. Lo dico per farvi capire come io leggo Lacan. Usando i termini della linguistica strutturale, direi che la scrittura di Lacan è metonimica, ovvero sintagmatica.
 
Asse Sintagmatico                                                           Asse Paradigmatico
           ↓                                                                                ↓
Metonimie (spostamento)                                  Metafore (corona)
                       (significazione centrifuga)                                   (senso centripeto)
 
Ovvero, con Lacan non si giunge mai veramente a un paradigma. Chi crede che si possa desumere un definitivo paradigma della dottrina di Lacan fraintende secondo me la sfida essenziale che lui ha voluto lanciare: dare un esempio, raro, di teoria metonimica.
Ad esempio, la famosa dichiarazione di Lacan “il significante è quel che rappresenta un soggetto per un altro significante” è un gioco concettuale, come si dice “gioco di parole”, dato che gioca sull’ambiguità di per, che condensa i tre sensi di “secondo il punto di vista”, di “a favore di” e di “essere al posto di”. Posso dire che insomma leggo uno scritto di Lacan in quanto rappresenta Lacan per un altro scritto di Lacan.
            Dico questo non per criticare le buone scuole di psicoanalisi lacaniana, svolgono un lavoro utile, anche se la scuola è comunque tenuta, quasi per definizione, a trasmettere un matema, termine che significava in greco “quel che uno impara”, “quel che uno deve sapere”. Una scuola, nella misura in cui trasmette un paradigma definito, svolge un lavoro benemerito. Anche se io preferisco occuparmi piuttosto del dopo-scuola, e non è detto che sia sempre ricreativo.
Nel dopo-scuola, i Seminari, ancor più che gli Ecrits, ricordano certi serials televisivi, dove si assiste a una miriade, potenzialmente infinita, di variazioni e digressioni, ma sempre attorno a un enigma centrale, che però non viene mai veramente risolto. Qualcuno forse avrà seguito il serial Lost: sin dall’inizio ci si chiede “perché queste persone si sono perse in quell’isola?”, ma alla fine del serial, che è piuttosto una sua interruzione, a questa domanda non ci sarà alcuna risposta definitiva. Eppure tutto il serial gira attorno a questa domanda. Questo vale non solo per un certo tipo di testi, metonimici appunto e non paradigmatici, ma per le letture stesse. Roland Barthes, in una lezione a cui assistei ai bei tempi, disse che nei testi lui perseguiva una signification sans couronne, una significazione senza corona. La corona è la chiusura delle significazioni, è quando alla fine si ritrova l’inizio e tutto quindi appare semplice e trasmissibile.
Ma è proprio qui che consiste lo scandalo Lacan – perché Lacan resta un autore scandaloso per il 99% degli intellettuali, non facciamoci illusioni.  Lacan non è semplicemente qualcuno che va riconosciuto come “grande psicoanalista”, va riconosciuto anche come grande scandalo. E’ riuscito a ripristinare quella spinosità che la psicoanalisi aveva ai suoi inizi.
Lo scandalo consiste nella trasgressione inammissibile di una regola fondamentale della razionalità occidentale: quella della leggibilità perfetta del testo teorico. Un testo teorico può essere complicatissimo, magari solo una piccola parte degli esseri umani riesce a capirlo perché occorrono conoscenze specifiche o capacità eccezionali di astrazione, eppure un testo di questo genere è leggibile nella misura in cui un paradigma corona o incorona il discorso argomentativo. Si prenda il testo del teorema di Gödel, uno dei teoremi fondamentali della logica matematica: esso apre certamente a prospettive sorprendenti e difficili da pensare, eppure è perfettamente leggibile. Non è accettabile che un testo teorico ruoti attorno a qualcosa di illeggibile. Io leggo Lacan, invece, per far emergere quell’illeggibile con cui misurarsi.
 
Ora si dà il caso che, a differenza della scienza, da oltre un secolo la letteratura contemporanea non abbia mai cessato di metterci a confronto con l’illeggibile. Nel caso delle arti visive, queste non hanno cessato di metterci a contatto con l’invisibile. E’ quel che si chiama “modernismo” in arte, e che in Italia chiamiamo “avanguardie”. Ora, penso che l’insegnamento di Lacan stia alla psicoanalisi diciamo classica, più o meno accetta nell’International Psychoanalytic Association, così come i modernismi artistici stanno all’arte figurativa classica. Ricordo i benpensanti che, messi di fronte ai quadri di Jackson Pollock, protestavano: “Ma che è pittura questa?” Analogamente, i benpensanti della psicoanalisi e delle teorie della mente esclamano interdetti leggendo Lacan: “Ma che è psicoanalisi questa?”
Ben prima di Lacan l’arte e la letteratura hanno interrotto la trasparenza dei testi proprio per focalizzarci sul significante. Questa strategia, per cui lo sguardo del lettore viene distolto dalla chiusura (o “corona”) paradigmatica per volgerci al significante nella sua opacità, sembra essere oggi gloriosamente accettata, diciamo che è Storia. Nessuno oggi si scandalizza del fatto che T.S. Eliot dicesse che lui non capiva spesso il significato dei versi che scriveva.
Non è un caso che l’opera scritta di Lacan si apra con il commento a un testo letterario, The purloined letter di E.A. Poe, mentre la sua opera orale si conclude idealmente con un seminario su Joyce, Le sinthome. (Mi chiedo se sia un caso che l’opera di Lacan si apra e si chiuda con due testi letterari in lingua inglese. Certo Lacan si è confrontato anche con autori francesi – Gide, Sade, Duras, Paul Claudel – e di altre lingue, ma mi pare che di fatto abbia trovato proprio nella letteratura inglese una sorta di eccellenza, una sensibilità direi più profonda al significante che non ha trovato altrove. Il che basterebbe a sovvertire il cliché di un Lacan troppo franco-français, chiuso in una sorta di ovatta parigina.)
Io invece, da italiano qual sono, evocherò un esempio italiano.
Nel 1913 Giovanni Papini e Ardengo Soffici fondarono a Firenze una rivista dal titolo LACERBA

 
 
 
            Si dice che sia stata la prima rivista d’avanguardia al mondo, se si considera l’avanguardia storica propriamente detta, che in questo caso era il futurismo.
            Tutti si chiedevano: ma che significa LACERBA? Il titolo era ispirato a un autore trecentesco, Cecco d’Ascoli, ma con una piccola variazione. In Cecco era
“L’ACERBA”
ma qui Papini e Soffici hanno eliminato l’apostrofo.
In effetti questo “termine” introduce un défilé di associazioni: lacerti, c’è dell’erba, lacci acerbi, Cerbero che è là,… che risultano aloni associativi di LACERBA.
            Oggi, ripeto, proporre il significante come enigma senza risposta coronata è accettato se non da tutti, almeno dal pubblico colto in generale. Certo ci vuole un sufficiente decantamento culturale, diciamo un’ironia molto educata, per tollerare il confronto con il significante in quanto significante, distogliendoci dal senso coronato.
            Possiamo quindi dire che quel che volevano fare all’epoca i futuristi non era lontano da quel che ha voluto fare Lacan, attraverso i suoi famosi giochi di parole joyciani – come “lalangue”, “Y’a d’l’Un”, “le sinthome” e tanti altri che ben conoscete.  Anche Lacan ha cercato una scrittura (e una parola, che poi J.-A. Miller ha trasformato in scrittura) che non si lasciasse dimenticare nella trasparenza del senso, ma che ci facesse accorgere del significante stesso. Come LACERBA.
            Ma lo scandalo anche oggi – come scandalose erano all’epoca le esibizioni futuriste – è che Lacan pratica questo slittamento verso il significante in un genere di scrittura in cui ciò non è permesso: il discorso teorico. Non solo quindi Lacan pratica i giochi di parole che nascono con le avanguardie stesse, ma pratica addirittura “giochi di concetti”, conceptual puns.
            Era proprio quel che intendevo fare cercando di illustrarvi i grafi di Lacan su Alienazione e Separazione, e il discorso seriale, sintagmatico, che Lacan vi tesse attorno, costruendo i suoi origami.
            Altri teorici hanno praticato i concepts puns? Pochi direi. Mi vengono in mente Nietzsche, Walter Benjamin, forse l’ultimo Heidegger, Derrida, e pochi altri. In realtà, li praticavano già Platone e Aristotele. Ma cosa sono questi giochi di concetti? E perché praticarli?
 
In effetti, l’ambizione di Lacan non era solo dire che in analisi il nostro sguardo deve distogliersi dalla risonanza del senso per volgersi alla scabrosità del significante, ma di praticare questo cambio di prospettiva nella propria scrittura e parola. Ovvero, anche i concetti da lui usati non portano ad attraccare nei lidi sicuri di un senso paradigmatico, ma ci portano verso un nocciolo che i concetti non possono dire, verso una pietra scabra recalcitrante. Lacan chiama questo nocciolo o pietra oggetto a.
Bisognerebbe tendere il dito verso l’oggetto a del testo lacaniano. Preciso: non verso l’oggetto a come concetto che emerge nel testo lacaniano. Intendo l’oggetto a del testo stesso, inscindibile dal soggetto – alcuni direbbero: dall’uomo – Lacan. Ovvero, ciò attorno a cui il discorso o testo stesso gira e rigira, senza mai poterlo veramente dire. Perché è nella definizione stessa – nel senso di: dargli con-fini – dell’oggetto a il non poter essere detto. Dire qualcosa è intimizzare questo qualcosa, ma per Lacan quel che conta è l’estimità, il contrario di intimità, quell’essere fuori del detto che scatena il dire. Quell’esser fuori a cui proprio in questo seminario Lacan dà il nome freudiano die Lust – piacere, ma che significa anche desiderio e godimento.
            Insomma, quel che mi interessa di Lacan è quel che lui non dice, non perché lo mantenga segreto, oppure per mancanza di bravura o di lucidità, ma perché è ciò che genera, leva – solleva e toglie – il suo dire. L’illeggibilità di Lacan è la sua scommessa – di analista, di scrittore, di teorico. La scommessa è mostrare che dire, scrivere, come atti pulsionali, non sono dire o scrivere l’oggetto che genera l’atto pulsionale. L’indicibile origine del dire non può esser detta. Wittgenstein direbbe, nel suo linguaggio solo in apparenza leggibilissimo: non si può dire ciò che ci fa dire, lo si può solo mostrare.
Quindi, quel che mi attrae di Lacan non è tanto la sua dottrina (che pure è molto interessante) ma quella sua grazia nel farci girare il collo, magari con una certa doloranza, verso un oggetto che non potremo mai esautorare dicendolo.
 
            E che cosa vogliono o possono mostrare i conceptual puns di Lacan?
Se avessi avuto tempo, avrei cercato di mostrarvi quel che emerge dal tema lacaniano della alternativa tra Alienazione e Separazione, e dai grafi che la spiegano o dispiegano.  Il gioco consiste nell’uso che Lacan fa di strumenti logico-matematici, connessi alla teoria degli insiemi – l’unione e l’intersezione tra insiemi logici. Ma, di fatto, egli fa un uso di questi strumenti logico-formali così come i futuristi nel 1913 fecero uso di Cecco D’Ascoli, e Joyce della filosofia scolastica. I futuristi osarono togliere l’apostrofo, Lacan osa adoperare queste operazioni logiche per riferirsi a qualcosa di molto diverso dal puro logos: a qualcosa che chiamerei una relazione di potere (ed esplicitamente qui si richiama alla dialettica del padrone e del servo in Hegel[1]). Le operazioni logico-matematiche a cui i grafi si riferiscono vengono insomma “animate” – come si animano dei cartoons – dalla dimensione tragica di un potere di vita o di morte che è al cuore del destino umano.
 
            Mi limito qui a un breve commento dell’ultimo grafo, il 4, che ho proposto. Lacan vi mette il titolo “La prova [preuve] attraverso l’oggetto a”.
Dove è qui l’oggetto a? E’ identificabile in uno dei tre insiemi, dei tre cerchi, che qui egli disegna? Da notare che il termine francese preuve significa sia prova nel senso di dimostrazione o teorema, sia tentare. Ma in italiano prova significa anche qualcosa che in francese si dice épreuve, prova nel senso di patimento e dolore che occorre superare. E credo che, dietro la preuve che qui Lacan ci illustra, è una épreuve che vuole mostrare; cerca di mostrarci la prova come prevaricazione a cui sopravvivere.
Ci chiediamo, prima di tutto, perché lui abbia rappresentato l’insieme ICH (Io) come più grande dell’insieme Lust, e il primo tutto a lettere maiuscole mentre il secondo con lettere minuscole. La mia risposta è che l’insieme Lust risulta “minuscolo” perché è “un oggetto”, qualcosa quindi di inferiore al soggetto di cui è oggetto. Lacan vuole alludere a un primato di Ich, del soggetto, un po’ come c’è un primato della vita in “la borsa o la vita” in questo vel, e difatti di solito – se attaccati da un malvivente – si sceglie la vita, altrimenti si perdono entrambe, borsa e vita. Se “scegli” Lust a scapito di Io, anche qui perdi entrambi.
            Il gioco si complica perché Lacan sovrappone un altro insieme, a cui sembra non dare nome; ma dall’indicazione più sotto si capisce che è proprio l’oggetto a. E’ un insieme il cui perimetro è tratteggiato (“virtuale” quindi) e che ha le stesse dimensioni dell’insieme dove leggiamo “Unlust” e “Lust”, ne è insomma il riverbero speculare.
            Come leggere tutto questo? Ed è leggibile come un tutto? E soprattutto: è tutto questo leggibile?
            Sembrerebbe che qui Lacan voglia rappresentare in modo simultaneo l’Alienazione e la Separazione. Unlust (il non-godimento o il non-desiderio) prende il posto del Non-senso del grafo 2, mentre LustIch (Io-godimento o Io-desiderio) sembrerebbe rappresentare una nuova versione della Separazione. Intersezione strana, però, dato che LustIch è una sezione dell’insieme ICH, non è toccato dall’insieme Lust. Ovvero, il terzo cerchio tratteggiato pare proprio “lustigare” – o goderizzare – l’Io, ma non “egoizzare” il godimento. Vediamo qui un primo accenno di quello che poi Lacan penserà di trovare, come soluzione, nei nodi borromei.
Ovvero, l’oggetto a – il cerchio tratteggiato – anticipa il terzo anello che unisce gli altri due nella catena detta appunto borromea. Qui però i tre insiemi sono rappresentati non come intrecciati (anche se si uniscono e si intersecano) ma come sconnessi, sono insiemi e non anelli, e il terzo cerchio sembra esserci e non esserci, essere qualcosa tra l’Essere e il Senso, ma il cui intervento risulta qui fondamentale per agganciare finalmente Alienazione e Separazione, mostrare insomma come quelle due operazioni che risultavano impossibili diventino finalmente pensabili, quasi possibili, grazie ai buoni uffici di questo deus ex machina che è l’oggetto a.
            Ovvero, di fronte al vel (o… o…) “o ci sono Io, o c’è Godimento”, resta un Io senza godimento, Unlust (è come la vita senza la borsa). E’ l’alienazione, il fatto che l’Io lamenta di non poter godere, o di non godere del potere.  Eppure qualcosa riesce a separarsi da questa scelta impossibile nella forma di Lust-Ich. Da notare che Freud opponeva a Lust-Ich, che sarebbe la soggettività originaria, Real-Ich, ovvero il soggetto che non allucina e si cura della realtà. Ma sembrerebbe che il Real-Ich sia impersonato proprio da questo oggetto a, che allora Lacan aveva teorizzato come un oggetto estimo (contrario di intimo), come qualcosa di esterno al simbolico, all’immaginario e al reale, ma che dei tre faceva come da cerniera, qualcosa dentro e fuori i tre registri allo stesso tempo. In questo grafo, Lacan “mette alla prova” questa nozione di oggetto a. “Prova per mezzo dell’oggetto a”. E i due sensi di prova – come dimostrazione e provarci – mi sembrano pertinenti in questo titolo del grafo: Lacan prova a dare una prova-dimostrazione del fatto che grazie all’oggetto a qualcosa può separarsi dall’alienazione, un Io-godimento che non partecipa direttamente al godimento, ma per interposto oggetto direi. Come se l’oggetto a, che c’è e non c’è, riflettesse, come uno specchio riflette i raggi solari, Lust su Ich. L’oggetto a sarebbe insomma una specie di oggetto riflettente. E Io, il soggetto, nel mio rapporto con il godimento ho una sola scelta accettabile: rinunciare a godere. Ma grazie all’oggetto, il soggetto può ritagliarsi una fetta di godimento, per dir così, che sfugga all’intersezione castrante del non-godimento. Forse, quel che chiamerà poi plus-de-jouir, plus-godere.
            Ma che cosa vuol dirci in fondo questo marchingegno grafico? Lacan ha sviluppato la sua preuve utilizzando la matematica insiemistica per render conto dell’impasse in cui è preso l’essere umano, e anche per mostrare come da questo impasse, forse, si possa uscire.  Ma perché far ricorso a questo armamentario logico-matematico che poi lui stesso piega ai suoi bisogni, inserendolo in una dialettica servo-padrone che pare incommensurabile alle operazioni insiemistiche?
            E’ perché Lacan vuol costruire una dottrina che non sia estranea al suo oggetto, che esprima lo stesso dramma del proprio oggetto. In questo modo, l’impasse del soggetto – e l’esile possibilità di godimento a cui può accedere – viene qui illustrato come impasse della teoria stessa. Perché la psicoanalisi è presa in questa contraddizione che essa stessa descrive: che da una parte ICH (il soggetto) a contatto col godimento non è più Io, diventa Es, soggetto inconscio (il che è una contraddizione in termini); e che dall’altra Lust, il desiderio-godimento, a contatto con Io si afferma e si dispiega piuttosto come sofferenza, dolore (altra contraddizione in termini).
            In questa prova – nel triplo senso del termine – vedo entrare in scena, anche se in modo obliquo, l’oggetto a perché nel fondo quel che cerco, nel testo lacaniano, è il suo proprio oggetto a. Quando Lacan parla di Alienazione e Separazione in generale, ci sta mostrando che cosa aliena e separa il suo stesso discorso. Il fatto cioè che quando si fa teoria e non si è solo professori universitari, quando si è come frustati, assillati a teorizzare come certo Lacan lo era, ne va direi della propria pelle. E’ quel che Lacan stesso ha chiamato, in quelle pagine, il fattore letale.
Quindi, il gioco lacaniano svia gli strumenti della logica e matematica in modo da far emergere, attraverso di essi, l’opacità di qualcosa che chiamerei una violenza fondamentale – una sorta di ricatto – che è all’origine stessa della soggettività umana. “La borsa o la vita!”, “La libertà o la vita!”, “Io o il godimento!” Non si tratta di vedere insomma come “logicamente” il soggetto si strutturi in un certo modo, rispondendo magari a bisogni affettivi primari, ma come sin dall’inizio il soggetto umano si trovi in una scelta obbligata, in una alternativa solo apparentemente libera, in una scelta-capestro direi. Come insomma il percorso di separazione soggettiva sia un processo in fondo impossibile. E proprio per questo, perché impossibile, l’unica nostra, concreta, possibilità.
 
            Ma non abbiamo qui detto proprio ciò che Lacan vuol mostrarci nell’estimità stessa della logica? Non abbiamo, così dicendo, tradito la pratica stessa di Lacan? Dubbio legittimo. Ma ne parleremo la prossima volta.



[1] Lacan, Le Séminaire, livre XI; Paris, Seuil, 1973, pp. 192-3.

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1 commento

  1. delu_stefano

    Lo leggo la prossima volta!
    Lo leggo la prossima volta! Cioè lo rileggerò ancora una volta, e poi ancora, fino a comprendere quello che, in fondo non si può. È che bisogna accontentarsi di questo avvicinamento indefinito al senso, (il gioco della psicanalisi è forse questo); avvicinarsi al senso comunque inattingibile della nostra vita. Direi, metaforicamente, che questa lettura, pur lasciando gli assi sintagmatico e paradigmatico, paralleli e indifferenti l’uno all’altro, li avvicina, influenzando positivamente la nostra capacità di comprensione di qualcosa che rimane, comunque, mai pienamente compreso. Lì dove slittiamo metonimicamente verso un pessimistico nonsenso, la buona metafora della psicanalisi ci riconduce all’accettazione del nonsenso stesso.

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