Freud, di fronte alle obiezioni di filosofi e psicopatologi riguardo all’attendibilità di alcune sue affermazioni, era solito tagliar corto citando il suo maestro Charcot: “ça n’empêche pas d’exister”, ossia “quel che voi mi obiettate non impedisce a quel che affermo d’esistere: si tratta di un dato di fatto, da me riscontrato nella mia attività clinica”. Diede, probabilmente, la stessa risposta a se stesso a proposito del libero arbitrio. Legato ad una concezione di tipo deterministico, era incline a considerare la volontà degli individui non come qualcosa di libero, ma come effetto di cause esterne, o interne di ordine inconscio. Ciò trovava effettivamente riscontro nell’esistenza di un autoinganno cui erano soggetti molti pazienti nevrotici: ciò che essi ritenevano frutto di una libera scelta era, in realtà, il prodotto di costrizioni interiori (o “compulsioni”) di cui la loro coscienza ignorava l’origine, e cui essi, attraverso una “razionalizzazione”, davano una spiegazione verosimile ma falsa. Tuttavia, come risultato del trattamento analitico da Freud stesso ideato, i pazienti venivano liberati dalle compulsioni e dall’esigenza di “razionalizzare”, come fosse frutto di una loro libera scelta, ciò che, in realtà, era già stato deciso nel loro inconscio [2]. In altre parole, essi recuperavano, o acquisivano per la prima volta, un pieno libero arbitrio; anche se Freud non usò mai quest’espressione.
Kohut fu più esplicito [4, 5]: nel corso del trattamento, ciò che il paziente, ingannandosi, crede sia frutto di sue libere scelte, viene spiegato come effetto di costrizioni interiori evidenziate dalla comprensione empatica dell’analista. Il processo continua fino a quando la stessa comprensione empatica evidenzia che la volontà del paziente non è più riconducibile a fattori inconsci; il libero arbitrio, più che un concetto filosofico o religioso, è un dato di fatto che solo la capacità di comprensione empatica (e una capacità introspettiva, liberata dalle sue pastoie tramite l’analisi) può evidenziare. È anche un dato di fatto, tuttavia, che non nasciamo interiormente liberi, e che la dipendenza infantile permane, anche in età adulta, in individui immaturi. L’anelito alla libertà (alla piena affermazione del libero arbitrio della persona evoluta) deve lottare contro la paura della libertà, legata alla nostalgia della condizione protetta e deresponsabilizzata dell’infanzia; ed il conflitto, sia nell’individuo sia nell’umanità presa nel suo insieme, non è mai del tutto risolto.
L’individuo refrattario alla libertà interiore tende a razionalizzare la propria inclinazione con argomenti che negano la possibilità di un libero arbitrio. Tuttavia, ogni dato di fatto è molto più eloquente di qualsiasi disquisizione teorica, e la manifestazione chiara del dato di fatto della propria libertà interiore, in risposta a tali argomenti, vale molto di più di qualsiasi confutazione logica.
È quanto afferma Dostoevskij nel celebre confronto tra Cristo e il Grande Inquisitore de “I fratelli Karamazov”. Riporto, qui sotto, quel che scrivevo, in proposito, qualche anno fa.
È quanto afferma Dostoevskij nel celebre confronto tra Cristo e il Grande Inquisitore de “I fratelli Karamazov”. Riporto, qui sotto, quel che scrivevo, in proposito, qualche anno fa.
Il Grande Inquisitore è fermamente convinto dell’impossibilità dell’essere umano d’accettare la libertà e il libero arbitrio:
“… non c’è per l’uomo preoccupazione più ansiosa che di trovar qualcuno a cui affidare al più presto quel dono della libertà, col quale quest’essere infelice viene al mondo” [1, pag. 339]. L’anziano Cardinale pronuncia queste parole rivolgendosi a Cristo, ritornato su questa terra, che egli ha fatto arrestare ed imprigionare. Per il prelato non è Gesù, ma il Maligno ad aver capito la reale natura dell’uomo, ossia la sua incapacità d’essere libero. L’inquisitore definisce il Demonio come “…il terribile e ingegnoso spirito, lo spirito dell’autodistruzione e del non essere” [1, pag. 336]. Vediamo, qui, le stesse caratteristiche di un oggetto sadico interiorizzato, la sottomissione masochistica al quale spiega le condotte autolesive di alcuni pazienti e, in particolare, la loro auto-imposizione di “non essere”, ossia di non esistere come individui compiuti e liberi [3]. Il Grande Inquisitore, tuttavia, non sta parlando di un gruppo particolare di persone, ma dell’intero genere umano. Traducendo la sua affermazione nel nostro linguaggio, egli sostiene che in ciascuno esistano, più profondamente rimosse, le stesse istanze autolimitanti ed autodistruttive che emergono più chiaramente nei pazienti sopra menzionati. Il Grande Inquisitore accusa Cristo d’aver preteso troppo dagli esseri umani offrendo loro la libertà dello spirito. Per argomentare la propria affermazione, egli cita le “tentazioni” con cui il Maligno tentò di corrompere il Salvatore nel deserto, reinterpretandole come “domande”. Ciascuna di esse, secondo il prelato, esprime un suggerimento seguendo il quale Cristo avrebbe corretto il suo errore e restituito all’uomo la schiavitù di cui questi ha bisogno. Si tratta delle stesse linee di condotta, passivizzanti ed infantilizzanti, che seguirebbe qualsiasi autorità tirannica o qualsiasi famiglia “soul murderous” [6]: acquisire il monopolio nell’elargizione dei “pani” (rendere passivo il soddisfacimento pulsionale, creando una perenne dipendenza infantile), imporsi con “miracolo, mistero ed autorità” (limitare o distruggere le capacità critiche adulte, facendo leva sulla credulità infantile e sul terrore), acquisire il potere temporale (imporsi con la forza); insomma, ridurre i sudditi (o i figli) ad eterni bambini, incoraggiando la loro inclinazione a rimanere tali, ma anche spaventandoli, rendendoli timorosi d’affermarsi ed esistere. Solo a queste condizioni, secondo l’inquisitore, può realizzarsi “… ciò che l’uomo cerca su questa terra, e cioè: dinanzi a chi genuflettersi, a chi affidare la propria coscienza, e in che modo, infine, riunirsi tutti in un indiscusso, comune e concorde formicaio” [1, pag. 343]
Quanto descrive il Grande Inquisitore corrisponde a ciò che si oppone all’acquisizione di libertà interiore anche di un terapeuta e che, gl’impedisce d’aiutare il paziente ad emanciparsi. Si tratta, evidentemente, di una prospettiva molto scoraggiante. Tuttavia, al termine della vicenda, Dostoevskij ci riporta alla speranza:
“… quando l’inquisitore ha terminato [di parlare], rimane per un tratto di tempo in attesa che il Prigioniero gli risponda. Il silenzio di Lui gli riesce gravoso. Ha osservato come finora l’Incatenato sia restato in ascolto, col penetrante e pacato sguardo fisso negli occhi suoi, senza desiderare evidentemente di ribattere nulla. Al vecchio piacerebbe che quello gli dicesse qualche cosa, foss’anche qualche cosa di amaro, di tremendo. Ma Egli, di colpo, in silenzio, si appressa al vecchio e lievemente lo bacia sulle esangui labbra di novantenne. Ecco tutta la risposta. Il vecchio sussulta. Un fremito contrae gli angoli delle sue labbra: si dirige alla porta, l’apre e Gli dice: ‘Va’, e non venire più… non venire più a nessun costo… mai, mai più!’ E lo fa scivolare verso gli oscuri meandri della città. Il Prigioniero dilegua” [1, pag. 349, 350]
Cristo non è stato toccato dalle pur ferree argomentazioni dell’altro. Al contrario, il Suo messaggio senza parole ha profondamente turbato il vecchio prelato. Se quest’ultimo è ispirato dallo “spirito dell’autodistruzione e del non essere”, Cristo rappresenta le forze della vita, della libertà d’esistere e del libero arbitrio; forze che non sono state neppure scalfite dal loro opposto. Il gesto del Salvatore sembra significare che la vita, se pienamente vissuta (se animata dall’amore), non ha bisogno d’esprimersi a parole, di trovare o dichiarare una ragione o giustificazione di se stessa: semplicemente c’è, è un dato di fatto, e la sua stessa esistenza annulla il valore di quanto la contrasta. Un solo frammento di questo tipo di vita, trovato in noi stessi e nei nostri pazienti, potrebbe avere lo stesso effetto.
Bibliografia
1. Dostoevskij Fëdor (1880) I fratelli Karamazov (Einaudi 1970)
2. Freud Sigmund (1915) Introduzione alla psicoanalisi (O.S.F. Vol. 8 – o Boringhieri – 1976)
3. Kernberg Otto (2009) The concept of the death drive: A clinical perspective (Int. J. Psychoanal. Vol. 90, N° 5, pag. 983)
4. Kohut Heinz (1959) Introspection, empathy and psychoanalysis. An examination of the relationship between mode of observation and theory (The search for the self. Selected writings of Heinz Kohut: 1950 – 1978 Vol. 1 International Universities Press 1978)
5. Kohut Heinz (1968) Introspection and empathy: further thoughts about their role in psychoanalysis (The search for the self. Selected writings of Heinz Kohut 1978 – 1981 Vol. 3 – International Universities Press – 1990)
6. Nanni Sabino (2012) Amare con “anima e corpo”: paura della libertà, empatia e cura (Psychiatry on Line, 2012, XVIII, http://www.psychiatryonline.it/node/1286 )
7. Shengold Leonard (1989) Soul murder. The effects of childhood abuse and deprivation (Fawcett Columbine 1991)
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