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Un bevitore immune dall’alcolismo: “Il Re di Thule” di Goethe

29 Mar 18

A cura di Sabino Nanni

Il mondo di chi soffre di dipendenza patologica (o “addiction”: la patologia emergente ai nostri giorni) è dominato dalle sensazioni. Che si tratti delle sensazioni prodotte da una droga, o dal cibo, o dal gioco d’azzardo, o da un’attività sessuale compulsiva, l’individuo ne diviene schiavo, e ad esse sacrifica i propri interessi, i propri affetti, la propria possibilità di realizzarsi nel mondo, la propria salute. Dobbiamo, per questo, demonizzare le sensazioni? No: non sono le sensazioni a rendere tale il malato, ma l’uso primitivo e patologico che egli ne fa; in particolare, il loro essere considerate fini a se stesse e la perdita del senso della misura nel ricercarle. Prendiamo, ad esempio, le sensazioni prodotte dall’assunzione di vino. Goethe, nella ballata “Der König in Thule” (Il re di Thule) ci offre la rappresentazione di un “alte Zecher” (vecchio bevitore) misurato e sano. Egli non manca mai di vuotare la sua coppa ad ogni banchetto; tuttavia si tratta di una coppa particolare: un calice d’oro donatogli dalla donna amata prima di morire:

 
Es ging ihm nichts darüber  
Er leert ihn jeden Schmaus;  
Die Augen gingen ihm über  
So oft er trank daraus“

(Nulla a lui fu più caro / in ogni banchetto la vuotava; / negli occhi gli traboccava il pianto / ogni volta che beveva da questa coppa).

 

Certamente ci sono le gradevoli sensazioni gustative e l’ebbrezza prodotte dal vino; ma c’è anche e soprattutto il valore evocativo legato all’accostare le labbra all’amata coppa: il rimpianto dell’amore perduto e la preziosa eredità lasciatagli da quel rapporto, ossia il senso del proprio valore, la testimonianza della sua capacità di farsi amare e di amare. Per entrare in contatto con questo valore interiorizzato, il re di Thule deve andare al di là della sola sensazione del bere: deve passare attraverso il dolore della perdita e raggiungere, così, il ricordo di un amore felice. Se si tiene conto che la sensazione del bere (del succhiare) fu la prima che ci mise in contatto con la persona amata e con la vita, ecco che da questa si dipartono due strade: la prima, primitiva e patologica, si ferma alla sensazione stessa. La sensazione è “a-simbolica”, non evoca e non simbolizza nulla: è la strada percorsa “a marcia indietro” dall’alcolista e il punto in cui si ferma il paziente autistico. La seconda è quella della persona sana e misurata: di chi sa cogliere nell’atto del bere (o del cibarsi, o di ogni contatto con la realtà) un significato emotivo;  in questo caso si tratta del valore evocativo di una prova d’amore, di ciò che ci legò alla vita. Di tale “Lebensglut” (ardore della vita) ne può bastare soltanto un sorso. E’ proprio questo che distingue chi fa un uso misurato e sano delle proprie sensazioni da chi ne diviene schiavo: nel primo caso quel che conta è il significato emotivo, più che le sensazioni stesse. Tale fatto conferisce all’atto di procurarsele una giusta misura ed un carattere costruttivo: è il soggetto che ne è padrone e con le sensazioni si arricchisce interiormente; lo schiavo, al contrario, s’impoverisce e si distrugge.

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